Uno Shakespeare tutto Neapolitano
Muoiono i poeti ma non muore la poesia, perché la poesia è infinita come la vita
“William Shakespeare ha fondato la “modernità”, dichiara Alessandro Altieri, perché non solo ha espresso al meglio inquietudini e interrogativi di un’epoca ma, come ha sostenuto Harold Bloom, è stato in grado di” inventare l’uomo”, di fondare valori e categorie spirituali che ci caratterizzano. L’amore, l’odio, il potere dopo Shakespeare non sono stati più gli stessi.
L’impatto della sua audacia culturale perdura da secoli, tanto che a quattrocento anni dalla sua morte sentiamo il bisogno di appropriarcene sempre di più, di masticarlo, assimilarlo, ritrovarlo.
Nascono in questa congiuntura emozionale e culturale i progetti artistici che ripropongono la sua produzione, rileggendola all’interno di un ampio terreno d’incontro multiculturale in cui è possibile non solo valorizzare le singole espressioni creative ma soprattutto riprogettare modelli di conoscenza e, forse, anche reinventare le culture.
Tra le sue opere i Sonetti, scritti probabilmente fra il 1595 e i primi anni del 1600, costituiscono per molti studiosi uno dei grandi vertici della letteratura d’amore di tutti i tempi, rappresentano anche un momento centrale della produzione letteraria del grande drammaturgo inglese, ne presentano un lato inedito e affascinante. Studiati a lungo dai critici alla ricerca d’indizi sulla vita privata di un autore per molti versi ancora misterioso, queste poesie toccano tematiche profondamente ambigue e umane tessute in un insieme di metafore.
Shakespeare “riuscì nei Sonetti a fondere le due opposte tendenze della cultura occidentale; da un lato l’archetipo platonico incarnato in un essere umano nel quale convergono tutti i tratti della bellezza e dell’amore di ogni tempo; dall’altro la continua e incessante trasformazione di questo archetipo nella mobilità fluttuante, e inquietante, della natura.”
Il ripetersi dei temi, la bellezza del giovane amato, l’invito a procreare per perpetuare la sua bellezza, la promessa della propria fedeltà, la gelosia verso un altro poeta che ne canta le lodi con maggiore maestria fino alla misteriosa dama scura della cui bruttezza il poeta si lamenta e che molto probabilmente è solo un simbolo della morte, rappresentano per i critici un enigma e, al tempo stesso, il seme della modernità della sua ispirazione, forse ancora in cerca della sua essenza, confusa tra Amore, Bellezza, Arte e Morte.
La nostra quotidianità, caratterizzata da una complessa rete di linguaggi con i quali conviviamo spesso distrattamente e inconsapevolmente, non poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di contaminare la poesia del Bardo con altre espressioni culturali. A fronte delle variegate sperimentazioni culturali che l’offerta artistica oggi ci propone, i progetti che hanno come protagonista i Sonetti hanno scelto di accostare la poesia inglese alla tradizione della lingua napoletana.
Le Edizioni Ad Est dell’Equatore hanno pubblicato postumo il lavoro di Dario Iacobelli 30 sonetti di Shakespeare tradotti e traditi in napoletano a cura di Filippo Iacobelli, e Paola Migliore.
I versi, si precisa nella prefazione, sono a fronte, immediatamente messi a colloquio con la loro versione partenopea. La scommessa è duplice: capire se il napoletano può avere la stessa forza di altre lingue e testare ancora una volta la forza evocativa dell’ispirazione scespiriana. Dario Iacobelli, scrittore, poeta, paroliere per musicisti, si è impadronito del classico e gli ha dato una veste nuova, a volte sanguigna, altre eversiva, rispettosa dell’originale proprio quando sembra più tradirlo, grazie al complicato lavoro di adattamento tra lessico corrente, frasi idiomatiche, sillabe. Talvolta il verso pare funzionare addirittura meglio in “un napoletano della strada, sfrontato, diretto, che un lezioso italiano da accademia.”
Il tradimento riesce a conservare ed intensificare l’intensità poetica senza scadere nel folklore, in certi casi la migliora: “Comme a n’attore meza tacca se scorda ‘o personaggio/quanno sta annanz’o pubblico e recita nu’ cesso” è la trasformazione di “Come un pessimo attore in scena colto da paura dimentica il suo ruolo” della traduzione canonica del sonetto 23.
Oppure, nel 116, “l’ammore è nu faro fisso miez’o mare / ca guarda a tempesta ‘nfaccia e se ne fotte” sta per l’originale “an ever-fixed mark / that looks on the tempests and is never shaken”: never shaken, mai agitato, diventa strafottente.”
Il Bardo tradotto dal paroliere dei 99Posse, dei Bisca, degli Almamegretta, di Peppe Barra e Nino D’Angelo, più che tradire, tramanda, conserva il mirabile impianto metrico e l’intensità poetica dentro la genialità e la musicalità dell’idioma mediterraneo
L’occhio mio s’è ‘nventat’ pittore e po’ ha pittato,
‘e bellezze toje ‘ncopp’e tele ‘do core mio.
Stù cuorpo è ‘a cornice che ci aggio dat’
e, fatt’in prospettiva, è nu lavoro ‘e Ddio
Un’originalità che non è sfuggita a Peppe Barra: “La traduzione in napoletano di quei sonetti, che per la verità in italiano ricordavo un po’ monotoni, mi piacque moltissimo, erano diventati brillanti, musicalmente perfetti. La lingua di Dario era riuscita a dargli un altro vigore. Ne scaturì il desiderio di farne uno spettacolo ma poi il tempo è sfuggito di mano…”
Neapolitan Shakespeare, invece, è un progetto musicale che ha fuso stili linguistici e sonori diversi e abbinandoli alla multiforme varietà dei versi del Bardo. Diciassette sonetti tradotti e cantati in napoletano da Gianni Lamagna, tredici musicati dallo stesso Lamagna, i restanti da Nico Arcieri, pianista e compositrice pugliese; Piera Lombardi, cantante e musicista cilentana; Giosi Cincotti, pianista e compositore salernitano; Paolo Raffone, musicista e autore napoletano, arrangiatore e concertatore del progetto.
…Ma ‘a staggiona pe tte nun po’ ffernì
nè ‘a bellezza se n’ ha dda fujì
e nnè ‘a morte ombra te po’ fà
si dint’ ê pparole pe ssempe tu starraje.
Nfino a cquanno rummane ‘nu sciato,
e dduje uocchie ca ponno guardà,
campa ‘a poesia e vvita te dà.
(da ‘o diciotto, Sonnet 18 – Traduzione e Musica di Gianni Lamagna)
Gianni, come nasce il progetto e come si è sviluppato? Un caro amico mi suggerisce e mi sprona circa l’idea; ci penso, ci ripenso, mi alzo, prendo da uno scaffale della mia libreria una vecchia edizione dei sonetti, e da lì, inizio 2011, comincia un’avventura ricca di avvenimenti, scoraggiamenti, e gioia finale, quando mi ritrovo dopo quattro anni, giugno 2015, con l’album tra le mani.
Perché la scelta dei sonetti di Shakespeare? Non è stata, in origine, una mia scelta, ma lo è diventata subito dopo aver iniziato a pensarci e a lavorarci. In tutta sincerità il merito è di Tonio Logoluso, un amico pugliese, attore e regista, direttore artistico del teatro “Don Sturzo” di Bisceglie, che mi ha inoculato pazientemente e con molta partecipazione il virus Shakespeare.
Secondo quale criterio hai scelto i componimenti da tradurre? La scelta dei sonetti è stata la più complicata, sono meravigliosi tutti i 154, e allora, tenendo presente il “fattore” delle tre A, Arte, Amore e Amicizia, per alcuni mi sono servito di numeri che da sempre fanno parte della mia vita, di altri specificamente per il tema, e di qualcuno, anche di un’apertura casuale di una pagina. Tanto ero cosciente della bellezza di ciò che avrei letto, e poi tradotto.
Quale sonetto preferisci? Quando hai lavorato con tanta dedizione e passione, alla realizzazione di quello che adesso ti appartiene, non puoi scegliere. La scelta di uno sacrificherebbe gli altri, tuttavia ho una predilezione per il 66. Mi rende assolutamente “fratello gemello” di Shakespeare. La penso esattamente come lui circa la considerazione che viene riservata al talento, al merito, all’impegno, lo studio, una cosa davvero desolante.
‘o sissantasei, Sonnet 66
Acciso ‘a tutto cosa i’ chiammo ‘a morte pe m’arrepusà
pe nnun vvedé cchiú ca chi tene ‘a dicere nasce già povero,
e cchi niente sape dicere sta tutto alliccato
e ‘o ccredere cchiú forte sempe traduto.
E ll’onore dato â ggente senza scuorno
e ll’ammore pulito vennuto comme a ‘na puttana,
e ‘e ccose serie trattate comme ‘e strunzità
e ‘a forza struppiata dê putiente sciancàte
E ll’arte affucata e ‘ncatenata ‘a ll’ autorità
e ‘e pazze apposta ca venneno ‘o nniente stutano ‘e ffantasie
e ‘a verità scarpesata comme a na cosa ‘e niente
e ‘o bbene cu ‘na pistola ‘ncapa a sservizio d’‘o mmale
Acciso e atterrato ‘a tutto chesto, ‘a tutto chesto vulesse scumparí
si nun fosse, ca murenno, lassàsse sola ‘a ‘nnammurata mia.
(Traduzione e Musica di Gianni Lamagna)
Neapolitan Shakespeare rende omaggio alla poesia e all’Arte del poeta inglese e alla tradizione linguistica e musicale di Napoli. “Poesia dei suoni e Musica delle parole in cui il ritmo poetico e quello musicale si fondono grazie alle sonorità della lingua partenopea.
Che napoletano hai utilizzato? Ho usato essenzialmente la lingua che parlo, e che ho sempre parlato, ma ho fatto riferimento anche a tutta la lingua che ho letto, ai poeti anonimi della cultura popolare, agli autori del ‘600 fino a quelli del ‘900, e anche alla lingua e alla parlata dei giovani del nostro tempo.
La tua traduzione è letterale o interpretativa? Assolutamente non ho tradito Will, il senso dei suoi componimenti è “rispettato”, ma c’è molto di mio in Neapolitan Shakespeare.
Quali sono i vocaboli napoletani che più hai utilizzato? Non ho “abusato” di nessuna parola, anzi, ho cercato di mettere in luce quanti più vocaboli era possibile, anche di quelli che nessuno più usa. Musica e versi, due forme di poesia che si mischiano alla magia di un idioma antico e accade che le parole si possono vedere, prendono forma, vita, plasmate dal suono, arrivano all’ascoltatore sotto forma d’emozione pura.
La lingua partenopea rende perfettamente l’ispirazione del poeta o aggiunge qualcosa? Sono quasi certo che il napoletano renda perfettamente l’ispirazione poetica, ma anche le altre intenzioni e i sentimenti che Shakespeare declama: la rabbia, la delusione, l’ingiustizia, la mancanza di coraggio nelle scelte. Inoltre, il napoletano aggiunge, sicuramente, la curiosità nell’ascoltare e nel leggere due lingue antichissime che “parlano” le stesse parole, due lingue che da sempre sono state affiancate alla musica, e, per i napoletani, una maggior comprensione e vicinanza alle tematiche dei sonetti.
Esiste una differenza reale fra una poesia e una canzone: la canzone è scritta con l’intenzione di essere adattata al ritmo musicale, mentre una poesia è scritta con l’orecchio che ascolta. Questi due ritmi sono del tutto diversi e difficilmente una poesia può essere trasformata in musica a meno che non sia stata scritta tenendo in considerazione entrambi i tipi di ritmo. Gianni Lamagna è riuscito a far si che il movimento del suono trasportasse sulla sua onda il movimento del pensiero presente nella parola del poeta, permettendo di completare, estendere, apprezzare sottilmente e approfondire l’impressione emozionale dei versi, facendo emergere un’eco di armonie nascoste, un segreto d’infinità ritmiche dentro di noi.
Un lavoro che richiede passione ed esperienza che Gianni Lamagna ha accumulato in anni di attività musicale. Collabora con il compositore e musicista napoletano Antonello Paliotti; fonda l’associazione di MUSICAinMUSICA per la diffusione del patrimonio culturale e musicale napoletano e per la scoperta di nuovi talenti emergenti tra i giovani dei progetti speciali per il recupero nelle aree del disagio minorile. Per diciassette anni fa parte della compagnia di Roberto De Simone. Nel 1998 entra a far parte della Nuova Compagnia di Canto Popolare e dal 2007, con Liliana De Curtis, realizza il Concerto per un Principe chiamato Totò. Nel 2009, inoltre, realizza il concerto di Mare e di Amori nato per la mostra a Villa Pignatelli sulla figura del grande scultore napoletano Vincenzo Gemito. Musica, impegno civile, grande rispetto per la tradizione, ne fanno un interprete consapevole, appassionato.
Gianni, quali sono state le difficoltà di questo lavoro? Ne ho incontrate di difficoltà, era naturale in tre anni di lavorazione. Dalla scelta dei sonetti alla lingua napoletana da usare, dalla mancanza di fondi, alla composizione di tredici melodie originali. Le diciassette traduzioni sono tutte mie, ma per le musiche di quattro sonetti sono ricorso alla bravura e all’affetto di bravi musicisti e amici, prima di tutto. Paolo Raffone, Giosi Cincotti, Piera Lombardi, e Nico Arcieri.
Quali emozioni ti ha regalato la preparazione dell’Album? Tutte le volte che si lavora a un progetto musicale, sia esso un album, o un evento dal vivo, si ha a che fare con emozioni forti, che passano da momenti di grande solitudine a quelli esplosivi di felicità e soddisfazione quando riesci a condividere tutto ciò che hai nella testa con i compagni di lavoro che ne comprendono il senso e ti sostengono.
“La terra ha musica per coloro che ascoltano”: l’anima partenopea di Gianni Lamagna si è mescolata con i generi più disparati, dalla villanella alla canzone napoletana, dalla musica del ‘700 al pop, dalla musica popolare a quella d’autore fino ad arrivare alla grande tradizione europea, e con corde stilistiche vicine a Basile e Di Giacomo ma anche a quelle quotidiane del gergo dei quartieri popolari. Una contaminazione vivace che ha prodotto un’armonia polifonica originale e fascinosa.
Di quali sonorità ti sei avvalso? Mi sono sforzato di evocare i suoni che hanno accompagnato la mia vita di musicista. I riferimenti sono alla musica inglese, a quella irlandese, la napoletana, il country, la tarantella, la musica popolare, quella classica. Non sono mai stato collocabile in un solo genere, ho amato e cantato di tutto, anche se “ufficialmente” mi si riconosce come voce legata alla musica popolare e alla canzone napoletana d’autore.
Lo Shakespeare neapolitano ha l’universalità dei sentimenti, l’emozione nelle parole, le note armoniose e leggere che accompagnano dolcemente il suono di una voce profonda, intensa, calda, una lingua bellissima. A Napoli come a Londra vince l’eleganza della poesia.
*Fiorella Franchini, giornalista, scrittrice