VerbumPress

Tutti pronti per la fine del mondo?

This Is How They Tell Me the World Ends: The Cyberweapons Arms è il titolo di un best seller della saggistica che circola in USA, non ancora tradotto in Italia. L’autrice, Nicole Perlroth, è una giornalista del New York Times che si è trovata a dover coprire per dieci anni la cybersicurezza internazionale quando ancora non sembrava essere una priorità per nessuno, professionisti dei più vari settori, tantomeno stati o governi, ma garantiva solo il sostentamento di qualche giovane smanettone in t-shirt. Il reportage, pubblicato da Bloomsbury, ci fa notare come in realtà la cosiddetta infosec sia stata uno strumento decisivo, sin dalle telescriventi dell’ambasciata americana sabotate dalla Russia negli anni della guerra fredda fino a oggi. Ci apre gli occhi su un altro scenario apocalittico, quello della cyberguerra, in cui il mondo non finisce con demoni, cavallette, tsunami, e nemmeno con un’esplosione o con una risata. Ma con un blackout.

Fu un blackout, infatti, a spegnere l’Ucraina e anche una parte di mondo con il ransomware NotPetya, costruito dai russi nel 2017. Un attacco informatico che inaugurò una nuova trincea fatta di vulnerabilità dei sistemi ed eserciti di giovanissimi sviluppatori di codice spesso poco retribuiti. È questo ciò che ci aspetta? Qualcuno spegnerà semplicemente miliardi di interruttori – e quindi manutenzioni di centrali energetiche, ospedali, respiratori, macchinari, torri di controllo, comunicazioni, approvvigionamenti, forniture di acqua pulita, eccetera, eccetera? 

Pare che, nel prossimo futuro, si misurerà su questo campo il potere delle nazioni, così come già oggi la ricchezza si misura dai dati che si possiedono, che si è in grado di processare o – eventualmente – rubare lì dove le leggi non li proteggono. Siamo pronti a una guerra di cui non conosciamo le armi, noi che viviamo il digitale con molta dimestichezza ma che spesso non ricordiamo le nostre password? A che punto è l’assetto normativo e come si comporta nei confronti di chi apre per errore un allegato in una mail di phishing perdendo eventualmente molti soldi? 

Il tutto è aggravato dal fatto che da qualche decennio a questa parte spegnere le luci o i sistemi informativi vuol dire spegnere noi. Spegnere le nostre vite quotidiane che sono a volte inconsapevolmente dipendenti da navigatori, oggetti connessi, app per scambiare denaro, acquisti online e allegati con informazioni sensibili non salvati su nessun supporto fisico ma ospiti di un server di posta o di un cloud. 

Una vita minacciata da un arsenale di zero-days, quelle vulnerabilità invisibili dei nostri sistemi informatici di cui i governi, scrive la Perlroth, fanno incetta da anni. Il libro è una documentatissima e dettagliata corsa agli armamenti che non ha paura di sembrare apocalittico. 

Infatti, se si ha il coraggio di addentrarsi nel mondo degli hacker silenziosi intervistati a fatica dalla reporter, non sembra più così impossibile per una civiltà morire a causa di un malware, magari progettato da un giovane neolaureato e acquistato da un potente governo per moltissimi soldi da qualche società di sicurezza informatica che non ne conosce il fine ultimo. Sono due gli aspetti che renderanno subdola e imprevedibile la cyberguerra secondo l’autrice: nascere con armi che possono essere innocue o terribilmente nocive a seconda degli scopi e della formazione etica di chi le maneggia e il fatto che queste stesse armi non sono mai completamente di chi le costruisce, per cui lo stesso strumento progettato per attaccare un sistema  può essere usato contro il suo creatore. Per questo l’approvvigionamento da parte dei governi è insensato e vizia un mercato criminale.

Lo scenario delineato dalla lunga inchiesta della Perlroth non è poi così assurdo anche per un altro motivo: e cioè che la seconda deriva millenaristica che ci è toccata nel tempo a noi “conosciuto” è stata proprio una paura informatica: il millennium bug, che durante il capodanno tra il 1999 e il 2000 doveva mandare in tilt i calendari e resettare trilioni di dati a questi connessi. Ricordiamo bene la paura mediatica di non si sapeva nemmeno bene cosa. I sistemi hanno retto, scampato pericolo. Come sempre, d’altronde. Come per le profezie di Nostradamus o per i Maya. Come nel 2012 e anche come nel 2020 dove la fine del mondo ha preso la forma di una terribile pandemia.

Se abbiamo paura? Certo. Ma quando qualcuno studierà questo nostro anno fra mezzo secolo, penserà che ne abbiamo avuta molta di più di quanto effettivamente sia vero. Perché la narrativa mediatica amplifica la percezione dell’ineluttabile, ingigantisce il futuro e minimizza il presente. Alimentando le aspettative, che fanno molta paura, e i sensazionalismi. È quello che sosteneva Umberto Eco, quando gli fu chiesto che cosa pensava della paura del 2000 da parte dei suoi coetanei. “Io non la vedo, ma i media sì”.

È la storia a ingigantire i terrori millenaristici, proprio come accadde per l’anno Mille, descritto nei libri di storia come l’anno della paura di una fine, ma del quale non ci resta alcuna traccia di terrore condiviso, anche considerato che gran parte della popolazione probabilmente non aveva neppure coscienza del tempo che stava vivendo e quindi di star attraversando una cifra “tonda”.

Insomma lo scenario apocalittico è una costante di tutti i tempi, anzi, quasi per una forma becera di scaramanzia, sembra essere proprio quello a tenere in vita le nostre civiltà. 

Ci accorgiamo che ha funzionato quando abbiamo pensato che la terza guerra mondiale ci avrebbe finiti, mentre gli aerei colpivano le due torri l’11 settembre, o quando guardiamo nei documentari su Chernobyl un piccolo daino che vaga indisturbato tra le rovine di Prypiat, in perfetta salute a dispetto di una zona potentemente radioattiva. 

Senza nulla togliere alle catastrofi e alle tragedie, da sempre queste diventano nelle narrazioni il pretesto per qualcosa di più. È così anche nei nostri giorni. Non tanto per le varie narrative modello Spillover sul virus, per cui un’epidemia è in realtà l’avvertimento di una mutazione continua e letale degli organismi dovuta alla distruzione del nostro ecosistema. O a quelle ecologiste che ci danno per spacciati fra poche centinaia di anni (e fanno bene a farlo!). Quanto perché, nonostante le profezie della fine siano sempre state false, o abbiano fallito nei tempi che credevamo prevedibili, c’è chi ancora adatta la propria vita alla fine. C’è, in definitiva, chi vive preparandosi alla morte. Li ha intervistati lo scrittore irlandese Mark O’Connell che in un libro uscito quest’anno per Il Saggiatore, Appunti da un’Apocalisse, ha raccolto i risultati di una ricerca che lo ha portato da Chernobyl all’America profonda. 

Anche O’Connell parte dalla critica al marketing dell’Apocalisse, un’attrazione turistica (dove per turisti si intendono tutti gli esseri umani) particolarmente in voga in certi periodi più che in altri, ma sempre presente. Quel marketing paradossale che fa pagare per visitare la zona di alienazione di Chernobyl dal quale gli abitanti sono fuggiti per non tornarvi mai più. Solo che la salvezza dalle varie “fini” di oggi – scrive O’Connell – non è più una questione di giudizio universale o di impegno morale, piuttosto di soldi. I cosiddetti “preppers” che l’autore incontra nelle praterie sconfinate del Nord Dakota, sono infatti signori benestanti che, a vederli, si direbbe non abbiano paura di niente. Ma che costruiscono bunker antiatomici per sé e per le proprie famiglie, in attesa di qualcosa che non conoscono. Dopo aver raccontato diverse apocalissi possibili della nostra contemporaneità, distopie politiche, catastrofi ecologiche (e a proposito di quelle l’ipotesi di rassegnarsi all’ineluttabile al grido di “tanto ormai siamo fottuti”), l’autore intervista anche chi immagina di potersi salvare in un territorio ancora relativamente sicuro, per certi versi non contaminato da ciò che può distruggerci: la Nuova Zelanda. Il tentativo più famoso – e costoso – di acquistarne delle terre (e forse, chissà, anche un po’ colonizzarla) non è di un pazzo visionario appartenente a qualche setta di millenaristi, ma di Peter Thiel, ex co-fondatore di PayPal, ex azionista di Facebook, una delle personalità più potenti dell’intera Silicon Valley. E in fondo, cos’è Marte, se non il nostro Piano B per quando la vita sulla Terra diverrà insostenibile? 

La paura assume forme strane, sembra dirci Appunti da un Apocalisse. Rischia di farci perdere tempo prezioso della vita a organizzare al meglio la fine. Una fine che non conosciamo e che non conosceremo perché il nostro tempo è troppo poco e troppo piccolo, ma che vogliamo a tutti i costi immaginare, per poi combatterla costruendo sistemi di sopravvivenza che a loro volta ci sopravviveranno. Un’apocalisse paradossale.

Dopotutto, da San Giovanni in poi, è sempre stata la fine del mondo. E dopo duemila anni, siamo nell’era della riproducibilità tecnica della fine del mondo, ognuno ha la sua. Secondo O’Connell il mondo non finirà né con uno scoppio né con un lamento, ma con una notifica push. Ammesso che qualche malware, come quelli di cui parla la Perlroth, non spenga anche quella. Nel dubbio, cambiate la password anche quando potrete smettere di indossare la mascherina.

*Angela Galloro, social media strategist