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Sviluppo sostenibile ed economia circolare: significato ed esempi

Sviluppo sostenibile, economia circolare, green economy sono parole che negli ultimi anni sentiamo ripetere spesso. Ma qual è il loro reale significato? E cosa comportano per noi “abitanti del pianeta Terra”? Nel 1987, la Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo così si espresse: «Lo sviluppo sostenibile è quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i loro». 

Per gli economisti classici, tutte le risorse naturali contribuiscono alla crescita della ricchezza ma… come è possibile una crescita economica illimitata se la terra è limitata? Nel 1966, l’economista inglese Kenneth Boulding delineò due tipi di economia, identificandoli con due figure, il cowboy e l’astronauta. Il cowboy, mosso da una continua sete di conquista e di consumo, considera sterminate le pianure che lo circondano. L’astronauta, invece, è consapevole dei limiti del sistema che lo ospita, la grande navicella spaziale Terra. Boulding, così, è stato il primo a considerare la Terra come un sistema chiuso, solo dalla quale, proprio come avviene per gli astronauti in una navicella spaziale, si possono trarre le risorse necessarie e solo sulla quale si possono rigettare le scorie e i rifiuti. Le scorte di energia e, soprattutto, le materie prime possono essere durevoli solo se sono riutilizzate e riciclate. Pertanto, l’espansione dei consumi e delle economie dei singoli paesi, basandosi sul presupposto errato di considerare illimitate le risorse sul nostro pianeta, porterà inevitabilmente a una crisi. Ciò premesso, per giungere allo sviluppo sostenibile bisogna passare da un’economia lineare, la cui ultima tappa è il “rifiuto”, a un’economia circolare, in cui il rifiuto diviene fonte di “nuove materie prime”. Nell’economia lineare, infatti, gli oggetti che usiamo quotidianamente hanno una vita molto breve; li usiamo e poi li buttiamo, trasformandoli in rifiuti. Questo ciclo viene definito “dalla culla alla tomba”. La vita di ogni prodotto è scandita essenzialmente da cinque tappe: estrazione, produzione, distribuzione, consumo e rifiuti, ognuna delle quali richiede materie prime ed energia e genera scarti e inquinanti. Ma abbiamo visto che le materie prime non sono illimitate e i rifiuti e gli inquinanti hanno enormi impatti ambientali.

Nel 2002, l’architetto americano William McDonough e il chimico tedesco Michael Braungart nel libro “Dalla culla alla culla, come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo”, illustrarono come sia possibile creare una società totalmente priva di rifiuti. Essi suggerirono di “eliminare il concetto di rifiuto, non riducendo, minimizzando o evitando i rifiuti, ma eliminando proprio il concetto con la progettazione” secondo la quale l’oggetto viene ideato per non avere mai fine ed essere o reintrodotto nel ciclo produttivo come materia prima o reintegrato perfettamente nel ciclo naturale. Un ciclo definito “dalla culla alla culla”. In quest’ottica, in natura non esistono più scarti ma solo risorse e il consumatore non è più il destinatario di un prodotto ma di un bene! Questa teoria, emulando l’equilibrio esistente negli ecosistemi naturali, concilia tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo economico.

Facciamo qualche esempio. Riutilizziamo i rifiuti organici biodegradabili tramite una nuova filiera industriale, quella delle cosiddette bioraffinerie. Il concetto di una bioraffineria è analogo a quello di una raffineria di petrolio dove la materia prima, il petrolio grezzo (convertito in carburanti e in sottoprodotti quali fertilizzanti e plastiche), viene sostituito dalle biomasse. Ma cosa si intende per biomasse? Con il termine di biomassa si indica la frazione biodegradabile di prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la frazione biodegradabile dei rifiuti urbani e industriali. Tramite la bioraffineria, dai rifiuti organici si possono ottenere combustibili, solventi, prodotti chimici, plastiche, fibre vegetali, olii.

Tuttavia, l’applicazione del concetto di bioraffineria, pur così promettente nelle premesse e nei risultati attesi, può essere ostacolata dalla variabilità quali-quantitativa dei residui e dall’assenza di una logistica adeguata che consenta di connettere in modo efficace i produttori dei rifiuti, le bioraffinerie, gli utilizzatori dei prodotti intermedi e finali e i consumatori. Tuttavia, qualche esempio virtuoso c’è. Esaminiamolo.

Partiamo da un tessuto in similpelle ottenuto dagli scarti dell’industria vitivinicola, cioè dai residui della pigiatura dell’uva (graspi, bucce e semi), la cosiddetta vinaccia. Il processo produttivo inizia dalla spremitura dell’uva e dalla separazione delle vinacce, fasi che sono alla base della produzione del vino e che vengono eseguite dalle aziende vinicole. La vinaccia viene essiccata, affinché non si biodegradi e si conservi, al fine di essere utilizzata anche a distanza di tre anni a partire dalla data dell’essiccazione, senza dover attendere ogni anno il periodo della vendemmia, risolvendo in tal modo il problema del reperimento della materia prima.  La vinaccia essiccata, come qualsiasi scarto secco di origine vegetale, è ricca di cellulosa e lignina, biopolimeri (cioè, molecole di grosse dimensioni) naturali usati nel processo produttivo. Tramite una procedura brevettata si realizzano dei veri e propri teli ai quali, con trattamenti di finitura specifici, vengono conferite diverse gradazioni di peso, spessore, elasticità, goffratura e colore in base alle successive applicazioni. Con questo tessuto di origine vegetale, sono stati realizzati scarpe, borse e portafogli già in commercio. Che il risultato di questo processo produttivo sia a basso impatto ambientale è importante, soprattutto se si considera che l’industria della moda è uno dei settori più inquinanti al mondo. Un altro esempio di bioraffineria ci viene dalla Coca-Cola che ha iniziato lo sviluppo di una nuova bottiglia in plastica attraverso un processo innovativo che trasforma la canna da zucchero e la melassa, sottoprodotto della produzione di zucchero, in un componente base del PET (Polietilentereftalato), tradizionalmente usato per realizzare bottiglie per bevande.

E ancora: non ci pensiamo oppure lo ignoriamo ma l’olio usato per friggere e quello utilizzato come conservante deve essere raccolto e smaltito adeguatamente. L’olio non utilizzato, principalmente costituito da resti di fritture, viene definito “esausto”, cioè non più utilizzabile, a causa della perdita delle sue principali caratteristiche organolettiche; durante la cottura, infatti, l’olio subisce processi di ossidazione e assorbe le sostanze inquinanti prodotte dalla carbonizzazione dei residui dei cibi in esso fritti. I danni ambientali dell’olio esausto non adeguatamente smaltito sono ingenti. L’olio non si mescola all’acqua sulla quale galleggia; pertanto, quando raggiunge i bacini idrici, come laghi, fiumi e mari, forma sulla sua superficie una pellicola che ostacola il rimescolamento delle acque, impedendone l’ossigenazione e compromettendo così la salute e la sopravvivenza di molti organismi acquatici. Stesso principio per quanto riguarda il suolo: l’olio crea una pellicola che impedisce gli scambi gassosi, soprattutto di ossigeno, e rende difficile per le piante l’assorbimento dei nutrienti dal terreno. È una fonte di inquinamento rilevante anche per le falde acquifere, rendendo imbevibile l’acqua proveniente da pozzi e fiumi. Basta 1 kg di olio esausto per inquinare una superficie di 1000 metri quadrati. Ricordiamo che ogni anno in Italia si producono 280.000 tonnellate di olio vegetale esausto… Tuttavia, esso, se smaltito correttamente, viene riciclato, divenendo nuovo prodotto da rifiuto dannoso che era. Infatti, previa decantazione dei residui alimentari eventualmente contenuti, gli oli vegetali usati possono essere recuperati in molteplici processi e applicazioni: tal quali possono essere utilizzati come sorgente di energia rinnovabile in impianti di co-generazione, cioè come combustibili; sottoposti a specifici processi chimico-fisici, possono essere trasformati in bio-lubrificanti adatti all’utilizzo in macchine agricole o nautiche, nonché a prodotti per la cosmesi, saponi industriali, inchiostri, grassi per la concia, cere per auto. Negli ultimi anni il recupero di questo rifiuto ha riguardato soprattutto l’utilizzo come materia per la produzione di biodiesel. L’Eni produce biodiesel dall’olio vegetale (il 50% degli oli esausti prodotti in Italia) negli impianti di Venezia e Gela, dove due raffinerie di petrolio tradizionale sono state convertite in bioraffinerie. Mediante 100 kg di olio usato si possono ottenere ben 65 kg di olio rigenerato e 20/25 grammi di gasolio e bitume. 

Abbiamo chiarito che le risorse sul nostro pianeta non sono illimitate. Pertanto, diventa indispensabile un loro consumo sostenibile. Esaminiamo, a titolo di esempio, il settore della pesca. Secondo la FAO, dal 1961 il consumo di pesce è passato dai 9 Kg pro-capite ai 20; in Italia, si è arrivati a circa 29 Kg a persona. Per quanto riguarda il tonno rosso, il suo consumo è aumentato addirittura del 1000%. Di conseguenza, la pesca professionale è diventata sempre più invasiva e distruttiva; è il fenomeno che gli ecologi definiscono “overfishing”. Esso viene esaltato dalle “navi fattoria” che raggiungono il centinaio di metri in lunghezza e trasportano reti lunghe anche chilometri che catturano migliaia di tonnellate di pesce ad ogni calata. L’impatto che provoca questo tipo di pesca è quindi enorme. Le specie bersaglio sono predatori di grandi dimensioni, come tonni, pesci spada e merluzzi; diminuendo essi di numero, aumentano le loro prede, come ad esempio le meduse con ripercussioni sugli ecosistemi ma anche sulla stessa pesca. In natura, tutti i fenomeni sono interdipendenti!

Ed ecco la necessità di rendere la pesca “sostenibile”, vale a dire meno indiscriminata e meno dannosa, semplicemente assicurando la possibilità agli esemplari giovanili di pesci, squali, molluschi e crostacei di raggiungere la maturità sessuale e di riprodursi, dando così origine alla nuove generazioni e perpetuando la specie. A tal fine, la legge italiana è intervenuta su più fronti con 1) L’obbligo del fermo pesca, che regola la pesca durante i periodi riproduttivi dei principali organismi marini 2) Il rispetto delle taglie minime pescabili, elencate per specie ittica; per esempio, l’acciuga non può essere pescata se di lunghezza inferiore ai 9 cm, il branzino se di lunghezza inferiore ai 25 cm; ovviamente, è severamente vietato pescare il novellame, cioè gli stadi giovanili di pesci. 3) I limiti minimi della larghezza delle maglie delle reti usate, proprio per evitare che vengano pescati esemplari al di sotto della taglia consentita. 4) La pesca a quote, cioè con limiti massimi espressi in kg al giorno. 5) La durata limitata in ore delle battute di pesca. 6) Limiti di profondità e di lontananza dalla costa. 7) La creazione di zone di nursery protette, ossia di aree dove alcune specie vanno regolarmente a deporre le uova e dove è vietata la pesca. 8) La lotta alla pesca di frodo e illegale. Le suddette misure non sono tuttavia sufficienti poiché, affinché la pesca sia sostenibile, devono essere evitate anche le “catture accidentali”, cioè quelle di specie non commerciali o protette, quali i delfini e le tartarughe. A tal fine, è in corso la sperimentazione di dissuasori sonori, chiamati “pinger”, che saranno installati sulle reti da pesca; si stanno sperimentando dei sistemi di pesca selettivi come ami circolari, dissuasori luminosi o reti speciali ed stato altresì vietato l’uso delle reti “spadare”, veri e propri “muri” di rete, alte più di 30 metri e lunghe oltre 10 chilometri, usate per la pesca del pesce spada e del tonno. Tuttavia, affinché la pesca sia “effettivamente” sostenibile devono essere eliminate anche le cosiddette “reti fantasma”. Cioè quelle reti abbandonate in mare che “continuano a pescare”. 

Negli ultimi anni è finalmente maturata la consapevolezza della necessità della indifferibilità dello sviluppo sostenibile. Qualcosa si comincia a fare ma moltissimo deve essere ancora realizzato e nel più breve tempo possibile a livello mondiale con l’impegno di ciascuno di noi, senza il quale non raggiungeremo gli obiettivi di sostenibilità. E’, infatti, ormai indispensabile che l’intera società si senta parte di un percorso condiviso.

*Ester Cecere, CNR Talassografico