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Sovranità e sovranismo, popolo e populismo in tre letture

La politica dei corpi

Mai come oggi le manifestazioni e le proteste di piazza ci sembrano un affronto, eventi da condannare, attentati alla salute pubblica. 

Mai come oggi è stato strano prendere in mano in mezzo a una pandemia mondiale L’alleanza dei corpi di Judith Butler, che ha come parola chiave l’assembramento, quando ancora non era termine di uso comune.

Ci si sente infatti quasi in colpa a leggere di politica della strada e di associazione dei corpi, di rappresentanza e apparizione come atti di autodeterminazione, di cosa pubblica, di un “noi” collettivo. 

Eppure forse è proprio questo il momento di leggerlo, per ricordarci cosa c’era prima e affinché la sovranità, parola tanto abusata in questi anni, assuma più significati di quelli che siamo abituati a conoscere. 

Il corpo è politico e primordiali sono le associazioni di corpi che si battono per un’idea, per un diritto, per l’uguaglianza. Prepolitiche e prediscorsive, sostiene Butler. È in quella fisicità collettiva, organizzata, presente e visibile che nasce la difesa dei diritti comuni. La piazza digitale e social vengono in ogni caso dopo. Può farsene strumento organizzativo, come è stato per Occupy Wall Street o per le Primavere Arabe, ma viene concettualmente in un secondo momento. La vera organizzazione collettiva è quella fisica, l’alleanza dei corpi, appunto. 

Una manifestazione istintuale, se si pensa che nei pochi mesi in cui ci è stata preclusa, la popolazione italiana si è “riunita” in una voce sola dai balconi di casa e alla prima occasione utile di riapertura si è riversata in strada per scopi associativi. Siamo, a quanto pare, più nostalgici della libertà di associazione di quanto siamo disposti ad ammettere anche di fronte a una causa di forza maggiore che ce lo impedisce. 

Mettere la performatività del corpo al centro della lotta per i diritti – che siano diritti di genere, diritti di equità, giustizia, riconoscimento economico, etc – è il centro di questa raccolta di lezioni sotto forma di saggio che Judith Butler ha costruito, pubblicata in Italia da Nottetempo nel 2017. Secondo l’autrice, filosofa strutturalista, non sono la teoria o l’ideologia o il programma politico che porta il corpo in piazza, ma è l’individualità di tanti corpi che viene prima dell’atto linguistico pronto a definirli. È un equivoco che, secondo l’autrice, accade anche a proposito del genere: ci viene data alla nascita una connotazione che ha a che fare con il sesso e da quel momento ogni angolo del nostro mondo e della nostra percezione del mondo viene strutturata inconsciamente su un preciso presupposto, maschile o femminile che sia. Per fortuna c’è il corpo, in grado di autodeterminarsi e di dare risposte “politiche” al nostro posto nel mondo. 

Le altre ingiustizie e disuguaglianze funzionano più o meno allo stesso modo, pregiudiziale: una diversa distribuzione della ricchezza è alla base di una precarietà di condizioni che a sua volta inibirà l’accesso a miglioramenti. Le condizioni di vita delle categorie deboli rimarranno vulnerabili alla barbarie, alla discriminazione e alla violenza e i loro diritti minacciati. A volte è una questione di luogo, a volte è un margine metaforico che li rende invisibili o periferici dalla nascita. Ma chi sono, e soprattutto quanti? “Siamo il 99%”, urlavano da Zuccotti Park durante la manifestazione di Occupy Wall Street, un 99% orfano di rappresentanza in Congresso scrive Nadia Urbinati in un libro molto più recente, Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo pubblicato da Laterza solo qualche mese fa.

Perché esiste questa frattura tra una maggioranza che dovrebbe avere in pugno la democrazia e invece si ritrova fuori dalla cosa pubblica e i pochi, privilegiati, che invece decidono le sorti di popoli e strutture sociali che non conoscono e da cui mantengono profondo distacco? Entrambe le autrici citate, a 3 anni – e parecchi movimenti sovranisti europei – di distanza, sostengono però che sia proprio da questa crepa oppositiva che può nascere un “lievito di libertà” (Urbinati) e “una forma di agency e di resistenza” (Butler). La presenza strutturata del corpo, del corpo in strada, del corpo in atto, del corpo in cammino, del corpo in protesta è la precondizione fondamentale per l’agire politico e la rivendicazione pacifica dei diritti, è il riconoscimento sensoriale e visibile che gli emarginati, le categorie vulnerabili ci sono, esistono, sono presenti. Entrambi i volumi illuminano con cenni storici e pareri autorevoli dei grandi sociologi del passato la condizione contemporanea dei vulnerabili, che mancano di appartenenza, ma prima ancora di “apparizione”.

“La libertà di apparire è centrale in ogni lotta democratica” scrive Butler a proposito delle comunità transgender alle quali in Spagna sono stati riconosciuti i diritti solo in quanto considerate affette da una patologia.

“L’essere umano in quanto creatura dotata di agency può emergere solo nel contesto di un mondo vivente, un mondo nel quale è la dipendenza dagli altri esseri umani e dai processi vitali a innescare la stessa capacità di agire. Vivere e agire si tengono insieme al punto che le condizioni che rendono possibile vivere costituiscono l’oggetto sia della riflessione, sia dell’azione politica. Infatti, tanto l’interrogativo etico ‘come devo vivere?’, quanto quello politico ‘come dobbiamo vivere insieme?’ dipendono da un’organizzazione della vita che renda possibile porsi tali domande in modo significativo” (J. Butler, L’alleanza dei corpi).

La seconda autodeterminazione, quindi, è esserci insieme. “Esserci insieme” rappresenta anche lo spazio tra due corpi che condividono uno stesso ambiente e uno stesso ideale e questa è la base necessaria per il diritto. Se posso esercitare liberamente il diritto ad esprimere la mia opinione politica o il mio genere, lo devo a qualcuno che, come me, contemporaneamente, vicino o lontano che sia, sta supportando questo diritto. Ed è bello che la Butler ne parli in termini di “protezione”. Proteggiamo a vicenda un diritto che qualcuno sta esercitando aspettandoci che gli altri proteggano quello che in un determinato momento stiamo esercitando noi (“L’esercizio della libertà non è qualcosa che si origina in te o in me: la libertà è qualcosa che nasce tra noi, dal legame cui diamo vita nel momento in cui esercitiamo insieme la nostra libertà, un legame senza il quale non ci sarebbe nessuna libertà”). In questo modo l’autrice, mutuato gran parte del concetto di uguaglianza di scopi e di intenti dalla Arendt, mette in relazione un “io” e un “noi” che si supportano a vicenda, ciascuno nelle proprie lotte, insieme o, per dirla con la Urbinati, “insieme come diversi senza suddividersi in gruppi trincerati e non attraversabili”. 

È ciò che è avvenuto, racconta Butler, ad Ankara nel 2010, quando in occasione di una conferenza-evento le femministe cooperarono con le drag queens e i gender queers contro il militarismo, il nazionalismo e le forme di mascolinità connesse. Una caratteristica tipica, questa, della sovranità femminile, il potere della relazione, che rende la filosofia di governo femminile completamente diversa dalle dinamiche verticali servo/padrone che caratterizzano il governo maschile. Illuminante a questo proposito un’altra lettura sulla sovranità, meno recente ma significativa: Sovrane, di Annarosa Buttarelli, pubblicato da Il Saggiatore nel 2013.

A proposito della relazione come elemento fondante dell’autorità femminile c’è nel libro la storia delle manerbiesi, le operaie delle fabbriche tessili di Brescia e delle loro rivendicazioni sindacali degli ultimi anni ‘80 basate su una comunità di intenti e insieme sulle diversità di formazione ed esperienze tra loro. L’alleanza dei corpi è stata, anche in questo caso, la strategia migliore per combattere le vulnerabilità. Trovare una mediazione tra le differenze è la soluzione per abbattere le disuguaglianze a maggior ragione in un sistema democratico dove la maggioranza decide, elegge, governa e dove un diritto è tale solo se esercitato da tanti e protetto da tutti.

Vulnerabili e sovrane

Una delle categorie vulnerabili, purtroppo, è costituita ancora dalle donne, molto presenti nel libro della Butler, storica femminista. E che la sovranità femminile abbia “una marcia in più” strutturale rispetto a quella maschile, tradizionale, patriarcale, è la tesi di Sovrane. La Buttarelli in questo saggio collega l’impatto che ha sul popolo la figura femminile, attraverso un’attenta riflessione filosofica e diversi esempi di donne “reggenti” della storia antica e recente. Oltre alle ambizioni e rivendicazioni di parità sarebbe opportuno che la comunità femminile prendesse coscienza di una superiorità sovrana e degli strumenti spirituali, filosofici e concreti che possiede per metterla in pratica. 

Due esempi su tutte di questa differenza di “filosofia politica” femminile, la preferenza radicale delle donne per l’autorità ma non per il potere e la ricerca di un nuovo senso prima che di un consenso elettorale. Tratti esemplificati da figure come Graziella Borsatti, sindaco di Ostiglia (Mantova) dal 1991 al 2004, e le già citate operaie manerbiesi. 

Il motivo per cui una sovranità del popolo non si realizza, sostiene la Buttarelli è che si piega da sempre o quantomeno dall’origine delle democrazie occidentali a schemi maschili e a dinamiche patriarcali (il lavoro come schiavitù, la dinamica servo-padrone, esempi di governo maschili, gli unici documentati dal canone storico). Approfondendo anche alcune forme di sovranità femminile, come quelle raccontate nel saggio, vengono fuori altri paradigmi: la cultura della conversazione al posto di quella bellica e della sopraffazione violenta, imparare a percorrere “le strade della sapienza e dell’anima” invece della “realpolitik fatta di strategie e calcoli”, una nuova educazione sentimentale che metta fine alla cultura del possesso sia nel governo delle relazioni che dei popoli e infine la relazione tra persone come base sulla quale governare invece dell’ossessione per la rappresentanza che è visibile nei discorsi politici di sempre.

Sia il saggio della Buttarelli che le lezioni di Judith Butler si basano sul grande dilemma della rappresentanza per come lo espone Hannah Arendt: la rappresentanza come sostituto dell’azione diretta del popolo e la rappresentanza come governo. Fra questi due aspetti dello stesso concetto passano i malcontenti e le rivoluzioni contemporanee. Un dilemma scardinato secondo la Buttarelli dal voto delle donne, le quali votano non tanto in base alla rappresentanza quanto sull’analisi delle qualità individuali, della storia personale, della validità sociale del programma.

Che non siano questi i presupposti per una sovranità senza populismi?

Questi anni di populismo ci hanno insegnato la differenza tra sovranità e sovranismo. Le ambizioni sovraniste oggi, si dice in Pochi contro molti, hanno a che fare con rivendicazioni basilari come reddito, lavoro, casa, riduzione delle tasse per i beni fondamentali, istruzione e soprattutto salute. Non sono richieste per un futuro migliore, ma rivendicazioni del presente, sul qui e ora, sull’individuo: “la maggioranza sociale si descrive attraverso i bisogni insoddisfatti e la fatica quotidiana del vivere” scrive Nadia Urbinati a proposito delle proteste di Zuccotti Park. 

Sovranità o sovranismo?

Un elemento fondamentale della discussione sui diritti, uno dei pomi della discordia e della disuguaglianza è lo spazio abitativo, insieme alla mobilità sociale inesistente, sabbia mobile che anche quando garantisce uguali diritti in teoria impedisce le opportunità di metterli in pratica. 

La Butler usa l’esempio tristemente classico di Israele e Palestina in cui la coabitazione diventa tutti i giorni da decenni prevaricazione e sfruttamento, mentre la Urbinati attinge ad un altro grande classico delle nostre latitudini, centro e periferia, che diventano elementi identitari di una condizione e di un modo di essere. E di tanto in tanto – come a proposito del grande dibattito sulla sinistra italiana – disegnano anche i confini tra le élites e il popolo in termini di distanza geografica. (“Possiamo farci trovare vivi o morti davanti al dolore degli altri – e anche gli altri possono farsi trovare vivi o morti davanti al nostro dolore. Ma è solo quando comprendiamo che ciò che accede lì accade anche qui, e che questo “qui” è già un altrove, e necessariamente tale – che abbiamo la possibilità di cogliere le difficili e mutevoli connessioni globali in modi che ci disvelino l’estasi e il vincolo di ciò che possiamo ancora chiamare etica”, scrive Judith Butler).

La fortuna di oggi è poter parlare di sovranità dei diritti e dell’uguaglianza in una dimensione senza luogo. Sulla rete, dove le preferenze si esprimono a colpi di click, anche le rivendicazioni viaggiano veloci e diffondono un intento presumibilmente comunitario. Ma a che punto una sovranità fatta di corpi che si riuniscono nelle piazze e ancor prima di ideali che si muovono sul web diventa sovranismo facinoroso, sovversivo di tutto, e populista? Forse la risposta è nella quantità, quei “molti” che si rivoltano contro i pochi della nostra storia politica recente.

La forza – e a volte letteralmente la violenza – derivano dalla certezza che le masse hanno del numero. Non si parla quindi più di spazio comune, di condivisione, di protezione, ma di numeri e masse. Perché queste masse rimangono senza rappresentanza nonostante il voto? Per la Butler si tratta di uno scarto necessario, il potere della popolazione resta distinto dal potere degli eletti, perché se il voto è trasferibile non lo è fino in fondo la sovranità, altrimenti si perderebbe l’approccio critico, le azioni di “resistenza” e la possibilità di una rivoluzione. 

Anche in Pochi contro molti, Nadia Urbinati, citando Bobbio e Aristotele, sottolinea l’instabilità strutturale della democrazia, che prevede una partecipazione orizzontale a un potere verticale e che teme come rischio principale l’oligarchia, cioè una classe politica potente che segni una contrapposizione tra chi governa e chi è governato. Un rischio che fino alla crisi della democrazia contemporanea è stato però sventato dai partiti tradizionali e dal loro impegno a rimanere “vicini” all’elettorato, anche in senso fisico, creando luoghi associativi diffusi capillarmente nei grandi e piccoli centri. A sfruttare invece la diffidenza e l’odio nei confronti dei “molti” da parte dei “pochi” è proprio il populismo contemporaneo, con i suoi slogan anti-establishment. 

Come tradurre la rivendicazione di diritti in un tempo, quello pandemico, in cui la agency di cui parla Butler – e cioè l’attivismo, la capacità di azione – non è fisicamente possibile, in cui il nostro agire, la nostra partecipazione non prevede l’uso del corpo e della presenza? Quale sarà il nostro spazio associativo nell’era dell’home working e della distanza interpersonale? E quanto sarà efficace? La rete, se dal punto di vista delle comunicazioni e dei servizi è indispensabile e irrinunciabile, dal punto di vista della politica partecipativa si rivela piena di trappole. Non più neutrale da molto tempo, ha contribuito ad asservire la politica alla pubblicità o alle sponsorizzazioni a pagamento sui social con un potere persuasivo superiore a tutti gli altri media. Conoscendo tutto di noi, porta il leader politico, il partito, l’idea, direttamente sul feed dei nostri social, senza che noi ne dobbiamo necessariamente diventare parte attiva, senza che lo abbiamo chiesto. Nel momento in cui c’era la piazza a mantenere una dimensione fisica alla partecipazione democratica, la rete poteva essere utile. È quando questa dimensione viene meno e tutta la nostra vita si svolge su Internet che cominciamo a intravederne i rischi. 

Uno dei momenti in cui la sovranità degenera in sovranismo è quando dal contenuto, dalla qualità, si passa al potere della quantità. Il che riflette anche un po’ l’andamento parabolico del web e dei social network dalla loro nascita, anche e soprattutto da strumenti di comunicazione politica. Da aggregatori e creatori di contenuti a moltiplicatori e accumulatori di dati, click, “bestie” politiche costruite ad arte in una piazza che, anche quando rivendica diritti comuni, è spinta a farlo in modo individuale, individualista, egoico, personalistico. L’epoca della sorveglianza che stiamo vivendo infatti, è molto più affamata di dati individuali che di dati aggregati, spingendoci a fornire proprio elementi personalizzati alla rete nella quale muoviamo ogni passo. 

Ma se dovessimo unire i puntini di queste riflessioni, in fondo lontane nel tempo e nello spazio e che in molte pagine si rifanno alle madri e ai padri teorici (Arendt, Spivak, Gramsci) si approderebbe, almeno in teoria, a un approccio politico nuovo, senza stereotipi di genere, che metta in atto nuove rivendicazioni di diritti capaci di comprendere – nel senso di abbracciare tenendo insieme – le diversità a partire dai corpi. Abbattere la precarietà, la vulnerabilità di certe categorie messe in pericolo, dare voce e sguardo agli invisibili non rappresentati, prestare la struttura democratica alla tutela delle minoranze può in qualche misura fluidificare e penetrare quel confine tra i “pochi” che sanno, accedono ai posti di potere, fanno le leggi e i molti che non sono, o non sanno più essere, rappresentati. Come è accaduto ai movimenti femminili (e femministi) citati, pare sia necessario allearsi intorno a intenti comuni e scopi condivisi, mettendo da parte proteste personalistiche e differenze inevitabili perché si possa raggiungere la sovranità che non degeneri nelle forme di populismo e di opposizione masse-élite come quelle che stiamo conoscendo.

*Angela Galloro, social media strategist