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Sergio Bozzola, retorica e narrazione del viaggio. Diario, relazioni, itinerari fra Quattro e Cinquecento

INTRODUZIONE

L’allegoria corrisponde al bisogno dell’Europa

di pensare l’America attraverso i propri

schemi, di rendere concettualmente de finibile

quella che era e resta la differenza, forse l’irreducibilità americana, cioè il suo aver sempre

da dire all’Europa – dal primo sbarco di Colombo

a oggi – qualcosa che l’Europa non sa.

(Calvino, Collezione, p. 424)*

Le ragioni portate dai viaggiatori d’oltremare e d’Oriente fra Quattro e Cinquecento a giustificare l’impresa dell’esplorazione e del viaggio consistono spesso nel desiderio di conoscenza e di perfezionamento. Rispetto ad esse, le motivazioni economiche, religiose o politiche sembrano talora passare in secondo piano. Alvise Da Mosto, nelle pagine iniziali delle sue Navigazioni atlantiche, accosta ad esempio all’obiettivo di acquistare « alguna facultate » il desiderio di « venir ad alguna perfecione de honore » (p. 11), e piú oltre rinforza questa sua parte conoscitiva ed esplorativa rappresentandosi « desidero so de veder del mondo e cossa che mai algun de la nostra nation non havea vista, sperando etiam de la mia andata doverne conseguir honor e utile » (p. 13).

Sulla fama di predecessori testimoniata da persone e libri, Antonio Pigafetta decide di imbarcarsi con Magellano e di affiancarlo nella grande impresa di circumnavigazione, al fine di « far experientia di me e andare a vedere quelle cose che potessero dare alguna satisfatione a me medesmo e potessero parturirmi qualche nome apresso la posterità » (par. 2).1 Ed ecco poi l’ampia meditazione, liminare al suo Itinerario, di Ludovico de Vartema, avventuriero romagnolo che raggiunge l’Oriente piú lontano:

Molti omini son già stati, li quali se son dati alla inquisizione delle cose terrene, e per diversi studii, andamenti e fidelissime relazioni, se son sforzati pervenire al loro desiderio.

[…] Donde io, avendo grandissimo desiderio de simili effetti […] me disposi volere investigare qualche particella de questo nostro terreno giro; né avendo animo (cognoscendome de tenuissimo ingegno) per studio overo per conietture pervenire a tal desiderio, deliberai con la propria persona e con li occhi medesmi cercar de cognoscere li siti de li lochi, le qualità de le persone, le diversità degli animali, le varietà de li arbori fruttiferi e odoriferi de lo Egitto, de la Surria, de la Arabia deserta e felice […] (pp. 223-24).

La fama dei predecessori (e vi sono inclusi Caldei e Fenici) è la premessa del desiderio di conoscenza, e questa conoscenza deve fondarsi nell’esperienza diretta e non piú nello studio e nelle conietture. L’oggetto di questa esperienza so no civiltà e natura nuove. Cosí ancora Gasparo balbi, che già nella lettera dedicatoria del suo Viaggio dell’Indie orientali interpreta la scrittura come condizione della memorabilità dello scrivente, strumento cioè di eccellenza e di fama.

E nel seguito vanta una duplice utilità del libro, per le informazioni che porta ai commercianti (ed elenca in modo dettagliato le differenti voci: « con le tariffe delle monete, misure, pesi e datii di diverse principali province e città […] »); e insieme per il piacere che potrà arrecare a lettori di altra provenienza (« tutte le cose nuove piacciono ad ognuno […] »), legato alla conoscenza del diverso e dell’esotico, autorevolmente avallata da una citazione aristotelica (« intenderanno diversi costumi et usanze dalle nostre, dalle quali cose cavaranno molto piacere ed dilettatione infinita, essendo che il gran Commentatore sopra il primo dell’anima dica che la scienza è perfettione dell’anima nostra […] »; Proemio, pp. non numerate, passim). 

E potremmo seguitare. Alle soglie della prima età moderna il viaggio diventa insomma un mezzo di ricerca e di accrescimento della conoscenza, e per una parte notevole dei viaggiatori europei esso è insieme un’« avventura intellettuale » e un percorso conoscitivo.

Moventi cosí alti e disinteressati, ibridando le ragioni utilitaristiche del viaggio, convogliavano nel testo un insieme variegato di osservazioni politicamente e commercialmente inutili. È in tali paraggi che al lettore è dato di percepire il tentativo di questi viaggiatori di forzare i propri confini linguistici e culturali, per portare nel testo la differenza, la sconcertante alterità dell’oggetto. Ma, apprestandosi a scriverne, costoro incorrevano in un’impasse: non avevano le parole. La novità di quegli scenari poneva un problema di comunicazione proprio in ragione dell’ampiezza dello spazio culturale che si apriva tra il loro sguardo e l’oggetto della rappresentazione. 

L’immaginario contemporaneo, che si muove tra l’infinitezza dello spazio-tempo stellare e gli impossibilia del fantasy, rappresenta credo l’ostacolo piú grande per il lettore di oggi alla comprensione di quel divario e della crisi espressiva e linguistica che generava. È notevole infatti che le descrizioni di paesaggi, di città e popolazioni siano molto spesso banalizzanti e privative: l’oggetto cioè della descrizione non viene interamente recuperato a testo, ma proposto in forma negativa (si spiega ciò che quell’oggetto non è); oppure ricondotto a ciò che nell’orizzonte percettivo e culturale di un europeo poteva avvicinarglisi di piú. La differenza poteva pertanto venire allusa tramite un rapporto di alterazione rispetto all’omologo europeo (le grandi dimensioni dei fiumi, degli alberi, delle foreste, o dei giganti della Patagonia); o di combinazione di aspetti ed elementi riconoscibili ma appartenenti ad entità separate, come nella descrizione del guanaco di Pigafetta (« ha el capo e orechie grande como una mula, il colo e il corpo como uno camello, le gambe di cervo e la coda de cavalo e nitrisse como lui », par. 113). 

O ancora, e infine, l’osservatore può spiegare la novità mettendo l’oggetto in un rapporto di opposizione e rovesciamento rispetto ad aspettative e nozioni europee (Da Mosto si stupisce da una parte della nudità delle popolazioni incontrate, e dall’altra del pudore con cui i berberi del Sahara occidentale nascondono la bocca, « quasi la voleno, con reverentia parlando, conparar al culo », p. 28). Il viaggiatore, privo di strumenti lessicali e di categorie interpretative adeguate, doveva cioè ricorrere all’orizzonte noto per descrivere l’orizzonte ignoto, all’oggetto endotico per restituire l’oggetto esotico.4 Oppure, preso atto dello scacco, si limitava a verbalizzare la novità sul piano riflesso della sua designazione metacognitiva (l’altro restituito come differente senza altri attributi), dichiarandosi linguisticamente sprovvisto dei mezzi per dirla.

E tuttavia. Nella lettura di questi testi si porta con sé l’impressione costante della ricerca, da parte degli autori, di una strategia espressiva vòlta ad aggirare quell’impasse, all’inseguimento di una preda in fondo inafferrabile nella sua pienezza, sfuggente, sottratta alle parole ma almeno parzialmente identificabile grazie ad un’accorta strategia linguistica. Cosí come ha osservato Zumthor, nell’incomponibile varietà tipologica e formale delle scritture di viaggio, ponendosi come unica vera costante proprio l’« altrove », « un ordine spaziale la cui conoscenza è esperienza dell’alterità »,5 « si delineano figure privilegiate », e sono citate proprio alcune di quelle che il lettore incontrerà in questo libro: iperbole, enumerazione. Libro che, dunque, vuole essere un tentativo di definire quelle figure, di individuare cioè le risorse retoriche, descrittive e narrative con le quali lo scrivente cerca di afferrare e rendere comunicabile l’alterità: dalle « figure della meraviglia » e della pluralità (capp. i e ii), che tendono a trasferire nella pagina la novità dell’oggetto e la sua impronta emotiva (e proprio la meraviglia, come scrive Marina Gálvez Acero, è spesso l’unica possibile espressione di quell’alterità);6 ai modi linguistici e formali dell’esattezza e della documentazione, che mirano a fondare oggettivamente la verità della testimonianza, a fronte di un referto che risulterebbe altrimenti incredibile (cap. iii par. 1); fino alle forme della narrazione, che restituiscono al lettore la dimensione straordinaria e l’impatto emotivo dell’esperienza odeporica (cap. iii par. 2, cap. iv).

Collana «Forme e stili del testo», Salerno Editore