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Rino Napolitano, l’ultimo menestrello di Parthenope

La tradizione dei menestrelli deriva da lontani precedenti: gli aedi e i rapsodi, i bardi celtici, gli scaldi, i trovatori o trovieri del Medioevo francese e nella scuola poetica siciliana

Menestrelli si chiamavano e con suoni e canti, con prove d’agilità e di destrezza, o con giochi ricreativi contribuivano “a bandir la noia e la tristezza, a riempier gli animi di diletto, a chiamar la serenità sulle fronti accigliate, il sorriso sulle labbra più dispettose”. Erano musici, erano cantanti, mimi, attori e andavano di paese in paese, nelle piazze come nelle corti, a raccontare storie. 

Anche Napoli ha il suo menestrello, ultimo di una specie che non chiede oboli ma solo la libertà di cantare la propria città. Rino Napolitano ha conseguito la licenza di teoria e solfeggio musicale presso il conservatorio musicale di Salerno. Dopo i primi approcci giovanili alla chitarra classica ha continuato lo studio dello strumento, del canto leggero, dell’armonizzazione musicale e della dizione teatrale con valenti maestri dell’area partenopea

La tradizione dei menestrelli deriva da lontani precedenti La tradizione dei menestrelli deriva da lontani precedenti: gli aedi e i rapsodi, i bardi celtici, gli scaldi nei paesi dei Vichinghi, i trovatori o trovieri del Medioevo francese e nella scuola poetica siciliana. Figure simili figure sono presenti anche nella cultura islamica, i meddah della Turchia, le donne chitrakar del Bengala occidentale, i griot dell’Africa.  A partire dal XIV secolo si allontanarono dalla letteratura più colta e contribuirono a diffondere in dialetto le gesta dei paladini carolingi della chanson de geste, argomento anche dell’Opera dei Pupi. Ebbero la massima fioritura nella Sicilia del XVII secolo, nella Roma del XVIII secolo con il famoso Andrea Faretta e furono appoggiati dalla Chiesa con lo scopo di diffondere presso il popolo le storie dei santi e della Bibbia..

Rino Napolitano, seguendo l’antica via e la propria inclinazione artistica ha intrapreso lo studio della maschera di Pulcinella e della commedia dell’arte affiancandosi in principio a vecchi maestri del genere e poi avvalendosi di esperienze artistiche maturate collaborando con grandi artisti quali il drammaturgo Romeo De Baggis, gli attori Tommaso Bianco, Bruno Leone, Ciro Giorgio, Lucia Oreto ed Ileana Musy. Agli inizi del 2000 con l’attrice Orsola Castaldo ed il poeta Armando Fusaro, ha fondato il gruppo teatrale e musicale dei “ Lazzari e Briganti “creato con l’intento di portare in scena la cultura e le tradizioni delle terre del sud Italia.

Maestro Napolitano che cosa anima questo suo girovagare?  La musica, la poesia, la danza, l’amore per le proprie tradizioni. Per una terra da amare, una storia, una cultura da non dimenticare. Perché in fondo al cuore siamo ancora tutti quanti…. un po’ Lazzari e un po’ Briganti.

Quale è il personaggio che ama di più? Amo i canovacci classici ed i grandi attori che hanno dato vita alla gloriosa maschera. Ma non so cosa significhi “interpretare” Pulcinella. Non ne sarei capace! Quando bacio la maschera e la pongo sul viso, non faccio altro che liberare il mio vero animo. La maschera, la vera maschera che sono costretto ad interpretare, è quella che uso nella vita quotidiana, quella che ha le mie sembianze.

Un omaggio accorato al “daimon comico” di Napoli come Nino Daniele definisce Pulcinella, simulacro, teatro, spettatore, attore e pubblico, non il buffone che si diverte e fa ridere, ma lo spirito simbolico del napoletano che “copre fame e miseria con la maschera e col saper recitare con qualche battuta spiritosa, o col ridere che cela il senso del contrario”, la più vera interpretazione della vita napoletana nei suoi caratteri contrastanti di farsa e di tragedia, di realtà triste e grottesca, di rassegnazione e umiliazione, di ricchezza e di povertà.

Raccontatori di professione che tramandavano fatti e leggende con la parola e la musica, paladini essi stessi della memoria e delle tradizioni orale, i menestrelli giravano di villaggio in villaggio, fermandosi nelle piazze per rievocare, talvolta, fatti realmente accaduti accompagnandosi con dei grandi cartelli raffiguranti le storie narrate. Raccontavano l’emigrazione, il banditismo, l’onore, i culti religiosi, i luoghi. Li chiamarono anche cantastorie e in si organizzarono in vere e proprie corporazioni, con le loro insegne, un capo, leggi e regolamenti particolari.

Il palcoscenico di Rino Napolitano sono i caffè di Napoli, i circoli culturali, le Associazioni come l’UNITRE della Penisola Sorrentina, le antiche chiese come la Basilica San Giorgio Maggiore con il suo teatro intitolato a Nino e Carlo Taranto, l’affresco di Aniello Falcone e un trittico di Francesco Solimena. 

Autore di musiche, testi teatrali e di una sessantina di testi musicati, di svariati canovacci e atti unici di commedia dell’arte, Napolitano racconta storia, miti e personaggi della “più misteriosa città d’Europa – come la definiva Curzio Malaparte – è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica…”

Il suo pubblico è fatto di letterati, di giovani, di curiosi, di appassionati. I titoli degli spettacoli sono capitoli di una narrazione ancestrale: ‘O cunto ‘e Parthenope, Canzone Pettegola, Divus Januarius, Raffaele Viviani e Antonio Potito, Napulitanata, solo per citarne alcuni; tutti recital chitarra e voce, arricchiti da monologhi e ballate come Li Panettieri, un famoso canto popolare che ricorda la rivolta del 9 Maggio del 1585 quando il popolo napoletano si sollevò contro i panettiere e soprattutto contro l’eletto Vincenzo Starace che pagò con la vita l’ira dei napoletani per la diminuzione del peso della palata di pane pur costando lo stesso prezzo, o La Tarantella di Masaniello della Nuova Compagnia di canto Popolare, dedicata al pescivendolo protagonista della rivolta del 1647, scoppiata per l’aumento delle gabelle imposto dal governo spagnolo. Tanti i brani classici napoletani: “La Canzone del Pescatore”, una villanella che Roberto De Simone ha inserito nella sua famosa “Cantata dei Pastori” e che richiama il mito di Colapesce, “Luna nova” e “’A Sirena”, due canzoni di Salvatore Di Giacomo, la settecentesca “La Palummella” di autore ignoto, Carmela di Salvatore Palomba, un arrangiamento dell’Inno Borbonico, alternate a canzoni scritte dallo stesso Napolitano.

Un menestrello innamorato di Parthenope e della sua Musa che vagabonda di tempo in tempo, tra fatti e miti, un po’ poeta, un po’ guitto, raccoglitore di echi, cantore di emozioni, seguendo il proprio Fato di moderno trovatore:

‘A notte ll’uocchie tuoie soghe cchiu’ belle, overe parene ddoje stelle overe fanne annammura’. 

Maie a mare se truvaie na’ perla, maie ‘nciele nascette na’ stella c’arrivaje a’ t’assumiglia’ 

E mo’ che sto’ luntane, na’ vela persa ‘mmieze ‘o mare io canto e ‘a luna o’ voglio di’. 

No’,no’,maie, io senza ‘e te’ no’, no, maie. 

Si ho destino è senza e te voglio’ muri’ cca’ stanotte

 ‘mbraccie ‘a sta fredda notte, cantanne ancora ‘e te…

(da Destino di Rino Napolitano)

*Fiorella Franchini, giornalista