Quali Diritti Civili? Da George Floyd a Willy Monteiro Duarte
La lunga “notte” dell’Occidente.
Gli occhi sono lo specchio dell’anima.
Care lettrici, cari lettori, forse stiamo vivendo nel peggior pianeta degli ultimi decenni. L’orrore è arrivato, servito su piatti colmi di razzismo, ferocia, ignoranza e indifferenza. I chilometri non contano più, da George Floyd a Willy Monteiro Duarte il passo è breve. La violenza dilaga, ormai, incontrastata contagiando un Occidente in preda a una crisi di valori e di morale. Willy Monteiro Duarte è stato massacrato di botte a 21 anni. Willy voleva sedare una lite e sognava di indossare, un giorno, la maglia della Roma. Willy aveva tanti sogni nel cassetto, un ragazzo vissuto nella provincia italiana che oramai somiglia tanto a quelle del Minnesota, dell’Oregon e dell’America più profonda, la “pancia” del Paese così come fu definita la periferia statunitense da Donald Trump 4 anni fa. Enclave dei sogni proibiti, di un “sogno americano” ormai in frantumi, quella stessa “pancia” per critici e analisti ha decretato il successo di The Donald e, probabilmente, sarà lo “zoccolo duro” del presidente USA alle prossime elezioni.
Intanto gli USA, così come l’Occidente, sono sempre più lacerati da violenza sociale e aggressività gratuita, crisi economica ed emergenza sanitaria.
Non un anno positivo questo 2020. Lo stiamo analizzando fin dal primo editoriale di gennaio allorché venti di guerra – più o meno forti – agitarono i primi giorni del nuovo anno, i disastri ecologici (in fumo ettari di foreste – da mesi – in Siberia, Australia, Amazzonia, Nord Europa e West Coast statunitense) e la pandemia da coronavirus hanno fatto il resto, gettando in una crisi economica l’intero mondo Occidentale. Da qui le tensioni sociali e tutto ciò che sappiamo.
Nel Wisconsin, a Kenosha, la polizia torna a sparare a un afroamericano, il ferimento è stato filmato e diffuso sui social network, innescando nuovamente il fuoco di proteste, mai sopite, generate dall’uccisione di George Floyd il 25 maggio scorso. L’intera dinamica è poco chiara, il video mostra tre poliziotti che puntano le loro armi contro Jacob Blake, il nome dell’uomo ferito, nei pressi di un SUV parcheggiato quando un agente lo ha afferrato per la maglietta e ha sparato diversi colpi. Nel video si sentono almeno sette colpi di pistola e le grida delle persone che assistono alla scena. Le immagini parlano chiaro, gli Stati Uniti tornano a scuotersi nuovamente intorno ai temi più spinosi, i diritti civili. Non bastasse il coronavirus, che sta mettendo in ginocchio un paese forgiato per essere “vincente”, le prossime presidenziali si stanno surriscaldando a ritmo sostenuto. Dopo il ferimento di Blake e la diffusione del video centinaia di persone hanno marciato verso il quartier generale della polizia di Kenosha in tutta la contea ci sono stati scontri fra i manifestanti e la polizia, che ha dovuto usare anche gas lacrimogeni per disperdere la folla, numerose le auto incendiate.
Un mese fa, raccontando i fatti di Minneapolis, ci siamo posti un interrogativo audace: la nostra “civiltà” è perduta?
Verso la fine dell’Ottocento l’inglese Edward Burnett Tylor, considerato da molti il fondatore dell’antropologia culturale, scrisse: “La cultura, o civiltà […] è quell’insieme complesso che comprende le conoscenze, le credenze, l’arte, i principi morali, le leggi, le usanze e ogni altra capacità e abitudine acquisite dall’uomo in quanto membro di una società”, rifiutando così il concetto di civiltà come la forma più evoluta e complessa di una cultura. In questa definizione la civiltà assume un significato globale in quanto comprende la totalità delle manifestazioni di una società, cade quindi la connessione tra l’idea di civiltà e la nozione di progresso che circoscrive la civiltà a quelle culture che sono pervenute, nel loro processo evolutivo, a un presunto livello “superiore” di vita. Perché, la “civiltà” siamo noi e tutto ciò che, nel bene e nel male, abbiamo commesso.
Tutto ciò, proprio per evitare di ripeterlo, ancora una volta.
E allora, care lettrici e cari lettori, in questo numero spero troviate spunti interessanti e nuove suggestioni per ricordarci sempre che, nonostante tutto, la cultura può sempre salvarci e farci apprezzare quanto di bello l’essere umano è capace di fare.
Mi piace chiudere con le parole – prese in prestito dal capolavoro di antropologia culturale di James Clifford “I frutti puri impazziscono” – pronunciate dall’indio Francisco Servin al Congresso indiano tenutosi a Pai-Tavytera in Paraguay nel lontano 1974:
Un tempo eravamo i padroni della terra, ma da quando arrivarono i gringos siamo diventati dei veri paria. Speriamo che verrà il giorno in cui essi capiranno che noi siamo le loro radici e che dobbiamo crescere insieme come un albero poderoso con i suoi rami e i suoi fiori.
*Roberto Sciarrone, dottore di ricerca in Storia dell’Europa, Sapienza Università di Roma