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Paolo Romano, Io, la Campania

Autobiografia di una regione meravigliosa (Marlin editore, 2022)

«Proverò a raccontarmi, a mettermi a nudo parlando di me come nessuna terra si è raccontata mai. Delle vénti regioni d’Italia sono, forse, la più baciata dalla fortuna. […] Tanto che mi sorge il superbo sospetto che Dio sia campano, o che, quanto meno, mi abbia sentito e sognato come regione prediletta, disegnandomi alla maniera di un piccolo eden mediterraneo».

Inizia con queste parole Io, la Campania. Autobiografia di una regione meravigliosa (Marlin editore, 2022) di Paolo Romano: guida colta alla storia della Campania. Una guida, intendo dire, in cui la dimensione descrittiva dei luoghi, pur presente, cede il passo a una prospettiva diacronica e si apre a recuperi di vicende e di personaggi storici che quei luoghi hanno animato. Una guida in cui la rassegna dei tesori artistici e architettonici s’intreccia al recupero di tradizioni popolari e di peculiarità enogastronomiche, rendendo più ricco e autentico l’affresco del territorio. 

In questo Paolo Romano ha potuto giovarsi di una consolidata e prestigiosa tradizione letteraria che va dai classici di Matilde Serao (Leggende Napoletane, 1880) e di Benedetto Croce (Storie e leggende napoletane, 1919) agli odierni contributi di Marco Perillo (Mestieri e segreti dei quartieri di Napoli, 2016) e Vittorio del Tufo (Napoli magica, 2018). Ma mentre questi hanno circoscritto il proprio campo d’indagine alla già vasta realtà del capoluogo partenopeo, Paolo Romano ora prova a racchiudere in un’unica narrazione tutto il vasto e ricco patrimonio della ‘Campania felix’. Tutto il patrimonio storico-culturale di quella regione che, sia pure attraverso l’oleografica triade di pizza spaghetti e mandolino, rappresenta più di ogni altra l’immagine dell’Italia all’estero. 

Paolo Romano muove dai primi reperti preistorici campani. Muove da Ciruzzo, il fossile di cucciolo di dinosauro rinvenuto a Pietraroja, nel Beneventano, e ora esposto nel Museo del capoluogo sannita. Un reperto prezioso e unico, essendo il più piccolo e il meglio conservato al mondo. Esso ci dice che nel Triassico il territorio del Bel Paese non era completamente sommerso dalle acque, ma presentava già terre emerse in forma di arcipelaghi. E, soprattutto, a differenza di tutti gli altri fossili di dinosauro, oltre allo scheletro ci mostra anche frammenti di tessuto organico: «si vedono i legamenti tra le vertebre, le cartilagini delle articolazioni, pezzi dell’esofago e della trachea, tracce del fegato, l’intero intestino, i vasi sanguigni, i denti, le unghie, frammenti dell’uovo da cui è uscito».           

Sul piano delle tradizioni canore, non manca la pagina dedicata a ’O sole mio, «una sorta di secondo inno nazionale all’estero». Bene a fatto Paolo Romano a ricordare, proprio nei mesi in cui l’Ucraina è aggredita dalla Russia di Putin, che la celeberrima canzone, scritta nel 1898 dal giornalista del «Roma» Giovanni Capurro, fu poi musicata da Eduardo Di Capua, proprio mentre si trovava per un concerto a Odessa, splendida città sul Mar Nero.    

Per restare alle implicazioni politiche sempre sottese a qualsiasi ricostruzione storica, non sfugga come l’Autore, nel momento in cui introduce il capitolo sui tanti primati scientifici e tecnologici che la Campania può vantare, prenda le distanze dai rigurgiti neoborbonici. Così, nella duplice consapevolezza che il prezzo pagato da Sud per l’unificazione nazionale è stato alto e che i revisionismi non possono cambiare la Storia, gli è possibile ricordare con serenità d’animo una serie di primati più o meno noti: nel 1735 re Carlo III di Borbone istituì a Napoli la cattedra di Astronomia e pose le basi per il primo Osservatorio astronomico d’Italia; la “Ferdinando I”, prima nave a solcare il Mediterraneo con un motore in grado di sfruttare la forza motrice dell’acqua portata in ebollizione, fu costruita interamente nei cantieri napoletani di Vigliena; Napoli nel primo Ottocento vantava il maggior numero di tipografie, editori e stamperie d’Italia: 113 stamperie, con migliaia di operai al lavoro. 

Spigolando tra i profili di «Donne e uomini che hanno lasciato il segno», da Masaniello a Giordano Bruno, da Eleonora Pimentel Fonseca a Joe Petrosino, ci piace evidenziare la pagina dedicata a Maria D’Avalos, vittima di un tragico e impunito delitto d’onore. Maria D’Avalos, della cui bellezza si parlava in tutta Napoli, andò in sposa all’attempato cugino Carlo Gesualdo, principe di Venosa e madrigalista di una certa notorietà. I due ebbero un figlio, ma dopo alcuni anni di matrimonio Maria intrecciò una relazione amorosa con un altro aristocratico napoletano: il giovane Fabrizio Carafa, duca di Andria. Correva l’anno 1590 quando, informato dei fatti, il marito tradito assoldò alcuni sicari e fece uccidere entrambi, colti a letto in una notte di passione. Per evitare il carcere, don Carlo «fuggì da Napoli e si rifugiò nell’avellinese, a Gesualdo. In pochi anni le indagini furono archiviate per ordine del Viceré, e nonostante si parlasse ovunque del duplice omicidio, nessuno mosse un dito per punire il colpevole». L’eco di quella triste vicenda non si è spenta neanche nei giorni nostri e continua a essere oggetto di molteplici e variegate ricostruzioni letterarie: Jean-Noël Schifano ne ha fatto l’emblema della passionalità che agita le donne di Napoli («Donna Maria si mise a caccia, sognando un pugno nudo che s’aprisse in febbrili carezze, un falcone di carne che la violasse fino al cuore», Cronache napoletane,1984); all’opposto, Miranda Miranda ha visto in lei la coerenza della donna innamorata che non si piega a celare la propria passione come una servetta qualunque e rivendica il proprio diritto all’amore fino al più tragico epilogo (Bellissima regina, 2019); Andrea Tarabbia ha scandagliato, invece, il travaglio psicologico di Carlo Gesualdo, tra nostalgia, tormento e solitudine aggravava dalla freddezza del figlio. Con equanimità, Paolo Romano si limita a esporre i fatti e a commento richiama i versi del sonetto In morte di due nobilissimi amanti, composto da un commosso Torquato Tasso.

Insomma, quella di Paolo Romano è una guida intensa e ricca, la cui piacevolezza va ben oltre l’espediente della narrazione in prima persona, come se la Campania, assunte le sembianze di una giovane e affascinante sirena, si presentasse da sé. Di pagina in pagina, infatti, essa si lascia apprezzare soprattutto per la limpidezza della lingua e la naturalezza con la quale l’autore ha saputo bilanciare i richiami alla cronaca e gli approfondimenti culturali.

*Raffaele Messina, scrittore