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Paolo Iorio, La Sirena di Posillipo (Rizzoli)

Il romanzo e il Seicento in Italia: la Roma di papa Sisto V e dell’Inquisizione, il fasto della corte principesca dei Gonzaga, la Napoli di Caravaggio e di Artemisia Gentileschi

Adriana e Angela. Entrambe ragazze bellissime nella Napoli di fine Cinquecento, entrambe cantanti dalla voce sublime. Rivali spietate nella carriera come in amore, ciniche e determinate nel perseguire i propri obiettivi con ogni mezzo. «Ma fammi capire. Perché tieni ’sta fissazione, perché ci tieni tanto a sentirla?» chiede Cosimo ad Angela, riferendosi ad Adriana. «Pecché è ’na stronza. ’Na vacca cuntignosa. Arricuordate ca ’o vicerré a me m’aveva fatto chiammà per farmi cantare. Poi è arrivata issa, cu chella zumpapereta della marchesa Orsini, e mo’ Adriana canta a corte, dint ’e palazzi nobili, e invece io sto dinto ’a ’na taverna, addo me toccano ’o culo…» «Senti a me, non dico che sei brava, ma bravissima. ’O vicerré, però, voleva che tu cantassi in privato. Capisci a me…» «E si pure fosse? ’Na raputa ’e cosce può sempre servire». 

È questo, dunque, uno dei motivi di fondo del corposo romanzo di Paolo Jorio, La Sirena di Posillipo (Rizzoli), scritto in collaborazione con Claudia Carrescia. Un romanzo storico, centrato sulla figura di Adriana Basile, sorella del più famoso Giambattista, autore de Lo Cunto de li Cunti, che fu cantante tra le più apprezzate del suo tempo, tanto a Napoli quanto sul «palcoscenico del mondo».

Ed è merito indubbio degli autori, sul piano delle strategie narrative, l’aver saputo costruire, accanto alla figura di Adriana Basile, un altro personaggio forte, quello di Angela, elevato alla funzione di antagonista, pur potendo disporre di certezze storiche assai limitate: «L’esistenza di Angela Arqueros y Osorio» chiariscono gli autori nella Nota a fine romanzo, «è citata nelle testimonianze del militare Diego Lo Castro che, nelle sue cronache, riferisce della presenza di una cantante con questo nome nel corso dei festeggiamenti di Piedigrotta del 1608». 

Mentre, come abbiamo visto, Angela è costretta a farsi strada da sola, le radici del successo di Adriana sono legate alla madre Cornelia, «abituata a trasformare i problemi in opportunità» e determinata a raggiungere un obiettivo per sé e per i propri figli: «Noi lo avremo, un titolo nobiliare. Lo avremo. Senza alcun dubbio». Il ‘problema’ è dato dal tradimento coniugale consumato dal marito Francesco Basile, «speziale dall’ottima reputazione», con Carlotta Orsini, «di nobile famiglia romana». Tuttavia, sorpresi i due amanti in camera da letto, il ‘problema’ diventa ‘risorsa’ poiché Cornelia costringe l’amante del marito a firmare un documento in cui s’impegna a utilizzare il prestigio e le relazioni del casato degli Orsini per «proteggere la famiglia Basile e ogni membro della sua prole».   

Il romanzo si apre così ai più ampi scenari del Seicento in Italia: la Roma di papa Sisto V e dell’Inquisizione, il fasto della corte principesca dei Gonzaga, la Napoli di Caravaggio e di Artemisia Gentileschi. Il primo, autore delle Sette opere di misericordia, dipinto riletto dagli autori come lo specchio della città in quegli anni: «Dalle ombre degli angiporto, dei vicoli, dei postriboli, delle taverne malfamate, affiorava la luce di un’umanità sofferente: soldatesche, miserabili, briganti, fannulloni, poeti, prostitute, lenoni, esiliati, bambini abbandonati. I volti oscuri di una città solare che, spesso, era anche luogo di tenebra, di morte. Un eterno, inimitabile spazio teatrale dove gli emarginati, uscendo dal buio, diventavano i protagonisti della loro miseria e della loro umana pietà». E poi Artemisia, scelta da Adriana Basile affinché le facesse un ritratto. Entrambe sono due donne di successo, al culmine delle proprie carriere: l’una riconosciuta come la ‘Signora pittora’, l’altra come la ‘Sirena di Posillipo’. Eppure entrambe accomunate da un’interiore, segreta fragilità che Artemisia sa subito riconoscere e porre come motivo vivificatore del ritratto che si accinge a realizzare: «Intendo la vostra storia più intima. Non i trionfi, mia Sirena. La vostra fragilità. Il mio modo di farvi giustizia».

Questa Napoli seicentesca, incorniciata tra le acque azzurre di Posillipo e i bagliori rossastri della lava del Vesuvio, è, dunque, il palcoscenico sul quale si muovono i Basile e, in particolare, Andreana e Giambattista. Lui, che in famiglia chiamano Giambo, è più introverso e trascorre le giornate con la testa tra le nuvole, a immaginare e scrivere le sue favole, ma soprattutto a sopportare il peso di un segreto inconfessabile a causa del quale proprio le favole costituiscono «il suo rifugio, un mondo dove non esiste una legge sola, ma tutto è sempre nuovo e si presta a molteplici esiti, non sempre prevedibili». Un segreto non suffragato da alcuna fonte storiografica e, tuttavia, anche se inventato dagli autori, resta plausibile ed estremamente efficace sul piano narrativo. Invece, la sorella, «battezzata come Andreana» ma chiamata da tutti Adriana, volitiva come sua madre e determinata a ottenere successo e onori, è avviluppata dalla rivalità con Angela in un intreccio di situazioni che presto si fa intrigo violento, con colpi di scena e risvolti drammatici, assassini e condanne capitali.

Merito del romanzo è, pertanto, quello di avere dato lustro a una figura straordinaria, spesso poco conosciuta e appiattita sul ruolo di sorella di Giambattista, meritoria soltanto per essere stata fautrice della pubblicazione postuma del Cunto de li Cunti. Un destino del quale Paolo Jorio e Claudia Carrescia nella parte conclusiva del romanzo danno una spiegazione intensa e commovente, legata alla decisione di Adriana di non cantare più, assunta dopo la morte del fratello: «Era determinata a non voler più cantare. I suoi cari interpretarono quella scelta come una reazione al dolore, una necessità di vivere a fondo il lutto. Non era così. Adriana sentiva di avere raggiunto l’apice della gloria e, rosa dal rimorso per la punizione che aveva inferto al fratello con le sue parole crudeli, la sua distanza, i suoi dispetti, ogni proprio ulteriore trionfo lo avvertiva come l’ennesima ingiustizia da lei perpetrata ai danni del suo Giambo. Avrebbe lavorato per la gloria delle figlie, in vita, e per quella, postuma, dell’amato fratello il cui affetto e le cui pene, solo a lei svelate, aveva mortificato».

Un romanzo da assaporare e assorbire pagina dopo pagina. Con calma, lasciandosi pervadere dal profumo del mare e dal canto delle sirene.

*Raffaele Messina, scrittore