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Paola Tonussi, War Poets. Nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, Ares, Milano, 2022

Paola Tonussi, studiosa di letteratura anglosassone dell’Ottocento e del Novecento, autrice della biografia Emily Brontë nel 2019 (con la quale è risultata finalista al pregiato Premio Comisso 2020), ha recentemente dato alle stampe un nuovo importante lavoro: War Poets. Nelle trincee della Prima Guerra Mondiale (Edizioni Ares, Milano, 2022). Nel volume, dopo una ricca e attenta prefazione che aiuta il lettore a introdursi nel testo fornendo una valida cornice storico-sociale e riferimenti ben dettagliati sulla versatile e ampia produzione poetica di questi poeti in trincea, si sussegue una selezionata scelta di liriche, in doppia lingua (nell’originale inglese e, in traduzione italiana, a sua cura) di quattordici poeti anticipati da utili note biografiche – minime ma circostanziate – su di loro.  Molti di loro, come ricordato in questi brevi cenni sulla loro vita, sono ricordati nel celebre Poets’ Corner1 presente all’interno della Westminster Abbey di Londra: a fianco di tombe di re e regine, letterati e scienziati di fama mondiale, sono citati in una placca commemorativa per volere del decano di Westminster Edward Carpenter i nomi di sedici poeti-soldati (in rappresentanza dei tanti) che caddero – prevalentemente sul suolo francese – nel corso dei combattimenti del primo conflitto mondiale (1914-1918). 

La Tonussi ci parla di questa “gioventù perduta [fatta dalle] voci di una generazione britannica scomparsa durante la Prima Guerra mondiale”. Non tutti i poeti qui inseriti sono morti sul campo di battaglia, alcuni riuscirono a mettersi al salvo o, riformati a causa delle loro precarie condizioni psicologiche, vennero ritenuti non adatti per combattere. Difatti alcuni di loro continuarono a scrivere, a pubblicare libri, tenere conferenze, incontri, dando vita a una carriera letteraria più o meno significativa. 

La Generazione dei War Poets fa riferimento, in linea con quando Edmund Blunden, che per primo impiegò questo termine, a quel gruppo di giovani che, per scelta o per obbligo, si arruolarono e conobbero sulla propria pelle la violenza del conflitto bellico: chi trovandovi la morte, chi venendo ferito più o meno gravemente, chi, ancora, ne ricevette un trauma psicologico che non lo avrebbe abbandonato per il resto della sua esistenza.

I contenuti sono molto ampi, tutti tesi – seppur con stili diversi – a raffigurare il delirio della guerra e, di converso, a denunciarne la gravità e l’insensatezza. C’è chi predilige un tono magniloquente parlando del conflitto e dell’impegno alla lotta quale dovere morale, frutto di una difesa patriottica della propria nazione e dunque motivo di vanto e orgoglio “C’è un angolo di un campo straniero / che sarà sempre Inghilterra” scrisse Ruper Brooke2). In alcuni di loro s’intravvede l’arditismo: considerano la guerra come un’impresa mitica alla quale sottomettersi per cercare di dare il meglio di se stessi, dare prova del proprio valore in cui, anche nel possibile caso di caduta, l’impresa non sarà comunque da considerare perduta. C’è un’esaltazione della Guerra che la fa apparire quasi come una prova morale, come un esercizio ineludibile, è un qualcosa che attrae e non ripugna completamente (per lo meno in chi s’arruola o ci s’imbatte con convinzione). C’è poi chi, al contrario, descrive la miseria degli attacchi nemici con un linguaggio crudo e compatto, privo di fronzoli o di edulcorazioni, al quale la critica si è riferita nei termini di un “realismo violento” che è la crudezza stessa del conflitto esperita in vocaboli, ammesso che vi sia una potenza così efficace da descrivere la miseria, il dolore, la vendetta, la follia implacabile, la putrefazione delle carni degli amici, i rombi assordanti delle munizioni e degli attacchi d’artiglieria. In molti di loro è palese il convincimento di essere andati a morire, di essere pedina di un gioco più grande, con la speranza – sempre meno concreta – che il loro sacrificio possa essere di utilità per la salvezza del Paese e, magari, possa essere riconosciuto e perpetuato nella memoria. 

In Charles Sorley, come osservato dalla Tonussi, “trapela con chiarezza il senso d’inutilità dell’uomo e del soldato contro gli ingranaggi del potere, la realtà disumanizzante del conflitto che riduce gli esseri a macchine, in un meccanismo perverso e incomprensibile”. 

La morte è configurata quale un attacco nefasto che porta il soldato a soccombere, dunque quale conseguenza di un colpo subito o di un’esplosione ma anche quale l’evidenza di un vuoto che di colpo si è prodotto lasciando un’assenza come in “Uomini che svaniscono marciando” di Thomas Hardy. Il romanziere inglese, celebre per il ciclo dei romanzi del Wessex non dice che gli uomini svaniscono combattendo o predisponendosi al conflitto ma marciando volendo intendere che, sin dall’atto preparatorio delle milizie e la formazione dei soldati, è insito l’andare a morire. Quale certezza ed evidenza. Questo rende il tono della lirica, che non usa terminologie particolarmente crudi, particolarmente desolante e fosco.

Le immagini dell’uomo nelle poesie dei War Poets sono varie: dall’uomo-soldato fiero del suo ruolo nel contesto della battaglia a difesa della sua patria, all’uomo spogliato di ogni cosa, affamato, solo, lontano dai suoi cari che forse non abbraccerà mai, dall’uomo disgraziato, pietoso, vittima sacrificale di logiche beffarde che lui non comanda, sino all’uomo-martire in cui si ritrova la vulnerabilità fisica e l’offesa adoperata e perpetuata al Cristo. C’è una “religione della parola” in cui quest’ultima viene caricata al massimo della tensione espressiva al fine di sollecitarne il potenziale di rivelazione.

Fonte di riflessione deve essere rappresentata dalla concezione del tempo: “Il tempo è sospeso, contratto. […] È un tempo fermo, immobilizzato allo sparo, allo scoppio di un proiettile, di una granata. Ogni istante può essere l’ultimo e poi il nulla”. Questa idea di temporalità come qualcosa di contratto, quasi immobile, fa venire in mente da una parte la tecnica narrativa sperimentata e ampiamente utilizzata dai modernisti inglesi (Joyce, Conrad) del delayed decoding, del narrare rallentato o ritardato che ci consente la descrizione della scena per frammenti minimi, in una successione en ralenti di una data situazione e, dall’altra, proprio per la fugacità delle immagini che contengono un alto potenziale emotivo e sensoriale lo stream of consciusness (il flusso di coscienza) sempre caro ai modernisti. Da lì promana l’effluvio indomito di pensieri, considerazioni, ricordi e paure, inarrestabile e fluente nella narrativa e che qui, nel metro poetico, può essere ravvisato nella difficoltà a estrinsecare, dalla violenza del dettato storico-sociale in cui i poeti sono circondati, la vena emotiva in forma rilassata, frutto della riflessione e della consapevolezza. Nella poesia dei War Poets il tempo si presenta in forma contrastiva: o fermo e impassibile e allora è un non-tempo che delinea una fissità della scena, un ripetersi sempre identico di avvenimenti (rappresaglie, marce, corse, tentativi di nascondimento, etc.) o, al contrario, irrompe con deflagrante forza, con grande impeto, vuoi per lo scoppio di una granata, vuoi per un amico soldato che, sotto agli occhi degli uomini del battaglione, cade perché colpito di spalle, vuoi per il fiondarsi nelle trincee-tombe scavate per un’illusoria difesa. In particolare “il tempo di trincea è un tempo compresso, quasi irreale, sospeso tra le tregue, tempo che non esiste sui quadranti umani ma solo nei battiti del cuore dei soldati, che aspettano di cadere in una granata, contano gli istanti incalcolabili tra un attacco e un altro”.

Lo stile impiegato è spesso franto e conciso, non vi sono divaricazioni di pensiero, l’io lirico è sempre ben concentrato nel suo dire, assorto e preciso nell’utilizzo di determinate parole. Questo fa pensare alla poetica ossuta dei poeti del secondo conflitto mondiale in terra nostrana, appartenenti alla stagione dell’esistenzialismo di marca prettamente ermetica, il cui linguaggio, spesso conciso e levigato, ha di per sé la volontà di trasmettere il senso della stasi, della desolazione e del dolore, di un dire che è impossibilitato a sfociare. A rivelare un’età del silenzio e dell’assenza, della disillusione e della perdita di valori e di speranze. Tonussi, in relazione ai War Poets ha osservato: “L’uso costante di metafore, emblemi e allegorie, nonché di volute equivocità linguistico-contenutistiche rende i versi spesso ambigui, riccamente metaforici, dove l’interpretazione può addirittura essere multipla, ambivalente, ricca d’inversioni di senso”. Compito oltremodo gravoso quello della Tonussi se pensiamo alla difficoltà di immergersi nel reale dettato contenutistico dei vari poeti, delle loro intenzioni comunicative seguito poi al non meno difficoltoso approccio d’interpretariato e conversione linguistica nel nostro italiano. 

Lo scenario – l’abbiamo più volte detto – è quello di una guerra (l’Autrice parla di quella “soglia che, una volta valicata, non consente il ritorno”), vale a dire di una terra profondamente violata, tanto nella componente umana che di ogni altro essere vivente. È una terra massacrata, che porta i segni del passaggio e della perpetuazione delle violenze, dei crimini consumati, ma è anche una terra che ha perso ogni parvenza di sonorità spensierata (le voci degli uomini, i loro conversari; i versi degli animali, etc.) a dispetto dei dilaganti scoppi, suoni truci delle mitraglie, dello sferragliare delle armi. Giustamente la Tonussi richiama l’immagine della Terra desolata dal titolo della celebre opera di T.S. Eliot, metafora di un mondo ormai in clamorosa rovina dopo gli accadimenti bellici, profondamente impoverito economicamente ma soprattutto moralmente, con evidenti foschie apocalittiche per l’intero consesso delle specie viventi. Siamo dinanzi a una terra desolata (immiserita, abbandonata, derelitta e dove predomina l’assenza e l’afonia) in cui non ci sono altro che “ammass[i] confusi[i] di fango, crateri di bombe, e i radi alberi superstiti [che] alzano al cielo scheletri senza foglie bruciati dalle esplosioni”. 

I poeti di cui l’autrice parla nel volume sono Richard Edward Godfree Aldington (1892-1962) che assieme a Ezra Pound e Hilda Doolittle fondò l’imagismo; nella poesia “Soliloquio I” esordì con un convinto pronunciamento interiore “No, non ho paura della morte / (ossia, non molta paura)”; Lawrence Binyon (1869-1943), archivista, che scrisse la struggente elegia “Per i caduti” in cui si legge: “L’Inghilterra piange i suoi morti di là dal mare / […] / caduti per la causa dei liberi // […] / erano giovani, / di membra solide e occhi acuti, ardenti e splendidi. / Strenui fino alla fine contro avversità innumerevoli; / caddero guardando in faccia il nemico. // Non invecchieranno, come invece invecchieremo noi / […] / Li ricorderemo. // […] / Dormono oltre la spuma d’Inghilterra”; Rupert Brooke (1887-1915), frequentatore assiduo del londinese Bloomsbury Group con Virginia Woolf e Maynard Keynes e curatore, assieme al critico Edward Marsh, del primo volume di poesia georgiana (1912). Morì giovanissimo a seguito di un’infezione contratta, proprio lui che nei Sonetti esaltava l’operazione umana dei giovani combattenti nel conflitto: “Suonate, trombe, sui ricchi Morti!, / Nessuno di costoro è così solo e povero, / che, morendo, non ci abbia offerto doni assai più rari dell’oro. / Costoro hanno lasciato il mondo; hanno versato il rosso e / dolce vino della giovinezza; hanno rinunciato agli anni futuri / di lavoro e gioia, e all’insperata serenità / che gli uomini chiamano vecchiaia; e a quelli che sarebbero venuti, / hanno donato, i loro figli, la loro immortalità”. 

Robert Graves (1895-1985) prestò servizio nel medesimo Reggimento di Sigfried Sassoon del quale fu grande amico; Julian Grenfell (1888-1915) in giovane età fu stimato saggista e in una delle sue poesie dal titolo “In battaglia” scrisse: “morto è chi non vuol combattere; / e chi muore combattendo ne è accresciuto // […] / E troverà, quando la lotta sarà finita, / riposo grande e dovizia dopo la privazione // […] // Se questa sarà l’ultima canzone che canterai, / cantala bene, perché forse non ne canterai più”. 

Ivory Guerney (1890-1937), compositore e poeta, combatté sul fronte e a causa di un crollo nervoso venne internato in un manicomio e tentò più volte il suicidio; in “Al suo amore” scrisse: “Eppure è morto / nobilmente, perciò coprilo / tutto di rose color / porpora dalla riva del Severn”. Thomas Hardy (1840-1920), meglio noto come romanziere (ciclo dei romanzi di Wessex e i più celebri Tess dei d’Ubervilles e Nel bosco), dedicò un lungo componimento dal titolo “Noi che marciamo lontano” ai soldati. 

Harold Monro (1879-1932) arruolato nella Royal Garrison Artillery, combatté in operazioni antiaeree; di lui segnaliamo il “Lamento 1915”: “È solo un forellino / guarirà presto. // […] / Oh niente. Solo cadere. Sentivo un che / di caldo nel fianco, e poi la testa / mi giava un poco, ma sono tornato. // […] /Rispondimi, se riesci a sentirmi; amico, rispondi presto… // […] // Pensavo che saresti tornato con un brutto foro / sotto la coscia // […] // Non ho mai pensato che saresti morto”. 

Francis Ledwige (1887-1917) arruolato, processato dalla corte marziale con l’accusa di aver lasciato il suo reggimento per raggiungere la famiglia e di ubriachezza, poi reintegrato e infine colpito a morte da una granata presso il villaggio di Boezinge: “Altri merli verranno a cantare colmi d’amore / soavi echi dei compagni scomparsi” annotò nel “Lamento per i poeti: 1916” anno, questo, particolarmente truculento in Europa se ricordiamo anche la rivolta di Pasqua che si scatenò per motivi indipendentisti in Irlanda e della quale William Butler Yeats parlò in un componimento particolarmente studiato.

Wilfred Owen (1893-1918) fu amico di Sassoon col quale viene richiamato tra i maggiori poeti della Prima Guerra Mondiale (sebbene non scrisse, o per lo meno non lasciò molte opere); parlò dell’impegno morale del poeta che in sé ha un dovere da assolvere. In “Insensibilità”, metafora di un’incapacità di rispondere agli istinti umani relegati al baratro dell’incoscienza dinanzi alla asperità del conflitto, lucidamente scrisse: “Felici gli uomini che prima d’essere uccisi / sentono il sangue raffreddarsi nelle vene // […]// Felici quelli che perdono la fantasia // […] // Felice il fanciullo la cui mente non è mai stata addestrata”. 

Sigfried Sassoon (1886-1967) perse un fratello in guerra e, pur decorato con una croce al valore militare per atto eroico, soffrì una profonda depressione a cui si unì uno shock da granata che lo dichiararono inabile a svolgere il servizio di leva. Nell’ospedale militare di Craiglockhart War Hospital nei pressi di Edimburgo conobbe Wilfred Owen. Tornati entrambi al fronte, Owen cadde nel 1918 mentre Sassoon risultò ferito, divenendo in seguito un conferenziere sui temi del pacifismo con una nutrita produzione biografica in volume. Venne, altresì, insignito dell’Ordine di Comandante dell’Impero Britannico (C.B.E.). Della sua opera poetica citiamo dal testo “Suicidio in trincea”: “Conoscevo un ragazzo soldato semplice / […] / si è sparato una pallottola in testa. / […] / Voi folle di volti fieri e occhi accesi / che applaudite quando ragazzi soldati passano in marcia, / filate a casa e pregate di non conoscere mai / l’inferno dove finiscono ragazzi e risate”. 

Isaac Rosenberg (1890-1918) combatté prima in Sudafrica e poi in Francia dove trovò la morte nella zona di Arras. In “La discarica dei morti” (titolo alquanto significativo) scrisse: “Le ruote sussultarono sui morti scomposti / ma non fecero loro alcun male, sebbene le loro ossa scricchiolarono, / […]/ giacciono lì ammucchiati, amico e nemico // […] // Il cervello di un uomo è schizzato / sul viso del barelliere // […] // Hanno lasciato quel morto con i morti più vecchi / disteso all’incrocio dei sentieri // […] // E le nostre ruote solcarono il suo volto morto”.

Charles Hamilton Sorley (1871-1915) caduto nel corso della Battaglia di Loos all’età di vent’anni e i cui versi vennero editi postumi in Marlborough e altre poesie (1916). In “Per tutte le colline e valli intorno”, come già accaduto in altri poeti di cui si è parlato, ritorna il tema del cantare (marciare a tempo, unirsi in coro, impegnarsi e donarsi per la causa): “Per tutte le colline e valli intorno / la terra esplode in canto, / e chi canta sono i ragazzi / che forse moriranno./ […] / Affidate la vostra gioia alla terra custode / e sarete felici quando riposerete in lei. // […] // Perché cantate con animo gioioso / perché state andando a morire”.

Philip Edward Thomas (1878-1917) – come ricorda la Tonussi nella breve nota biografica – “avrebbe potuto evitare di andare in guerra per l’età e la famiglia a carico, ma si arruol[ò] ugualmente. […] promosso caporale, […] venne ucciso ad Arras nel […] 1917”. “C’era un tempo in cui questo povero corpo era intero / e io avevo giovinezza e nessun tormento”, scrisse. L’amico poeta William Henry Davies gli dedicò il poema commemorativo “Ucciso in azione”.

Il volume della Tonussi si completa di una nutrita sezione finale con i riferimenti bibliografici alle opere pubblicate – in vita o postume – dai vari poeti analizzati nell’opera compresa una sezione dedicata alle loro biografie e raccolte di lettere, inserimenti in antologie e opere collettive e una sitografia di facile uso per eventuali e ulteriori approfondimenti sui War Poets.

*Lorenzo Spurio, critico letterario e poeta