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Pandemia e globalizzazione

“Una parola che faccia da guida per tutta la vita: reciprocità.

Quel che non desideri per te, non farlo agli altri”

CONFUCIO (V sec. a.C.) 

Dalle vicende politiche di questi ultimi tempi è evidenziato un indebolimento e addirittura un fallimento dell’idea di globalizzazione. Tutto ciò che è successo nei tempi più recenti: la politica di Trump, il riassembrarsi delle piccole nazioni e piccoli governi, l’esito della Brexit, con l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, pone un interrogativo nuovo, drammatico, che coinvolge l’intera umanità. Il problema non è più quello di salvare l’Europa, ma di salvare il mondo. E la Brexit non è altro che il segno di un malessere che condurrebbe le società a creare isole, mentre il pericolo sta nel grande contenitore terrestre. Un pianeta in pericolo di estinzione. 

La fuga verso i nazionalismi rappresenta un atto di debolezza e di autodistruzione. D’altronde, come afferma Yuval Noah Harari, famoso storico ebreo, “il nazionalismo non è una componente naturale ed eterna della psiche umana e non ha radici nella biologia”. La corsa attuale verso il cosiddetto “sovranismo” non è altro che un ritorno al passato, chiudere gli occhi di fronte all’universalità dei problemi. Ci si salva o ci si affonda tutti. 

Ma ciò che si sta verificando in questi giorni, in queste ore, a livello mondiale, di fronte al Covid19 presenta una novità assoluta ed un  atteggiamento da ultima chance, un crocevia tra vita e morte. Un virus, scientificamente ancora sconosciuto e incontrollabile, diventa un mostro fatale. Un fenomeno che colpisce tutta l’umanità, come la peste. Che contagia ogni nazione, ogni uomo. La lotta contro il virus per la difesa della vita non può che essere universale. La globalizzazione come via di salvezza dell’umanità. Un metodo realistico, funzionale, nonostante le tante e gravi forme antitetiche. Non è contrapponendosi che la si combatte od elimina, ma accogliendola, incanalandola, regolandela.  

La logica della contrapposizione, come in una specie di neo-luddismo, è già finita da molto tempo, perché distruggere le macchine per bloccarne l’uso è una battaglia persa. Il progresso è inarrestabile. Ma deve essere a servizio dell’uomo, di ogni uomo. Non soltanto di pochi. Per di più già ricchi. Un vero progresso non può essere se non per tutti. 

Economisti come Amartya Sen e Joseph Stiglitz sostengono che la globalizzazione non è “né nuova, né una follia… e né possiamo tornare indietro dalla globalizzazione che deve andare avanti”.

 “Abbiamo l’esigenza di un’etica globale, così come di dubbi globali” afferma Amartya Sen. E continua: “Adam Smith, spesso considerato il padre della scienza economica moderna, era molto preoccupato dell’abisso esistente fra i ricchi e i poveri”. 

Sen, economista indiano, in una delle sue opere più famose, dal titolo “Lo sviluppo è libertà”, sostiene che lo sviluppo non può che essere “un processo di espansione delle libertà reali godute dagli esseri umani” e che  “lo sviluppo umano è, innanzitutto e soprattutto, un alleato dei poveri, non dei ricchi e degli opulenti”.

Già nel secolo XIX Auguste Comte aveva approfondito la tematica della solidarietà, affermando che consiste nella dipendenza reciproca degli esseri e delle cose legati in modo tale che ciò che capita ad uno di loro si ripercuote sugli altri. Comte sosteneva che “in ogni fenomeno sociale, soprattutto moderno, i predecessori partecipano più dei contemporanei”. Come in un orologio l’ago dei minuti trascina e conduce l’ago delle ore, in stretta continuità. Comte affermava che “ogni generazione deve rendere gratuitamente alla seguente ciò che essa stessa ha gratuitamente ricevuto dalla precedente”. 

Di qui la solidarietà come dovere morale di assistenza tra i membri di una stessa società, perché formano un solo tutto. Oltre ad essere un concetto, la solidarietà è il fondamento di un dovere ed è, e deve essere, un fatto. Appare strano e piuttosto deludente come la Chiesa Cattolica, definitasi spesso “società perfetta”, non abbia tentato di realizzare un simile progetto, liberato da ogni dogmatismo e fondato sul principio evangelico “amatevi gli uni e gli altri”. 

Oggi, più di ieri, e in modo ultimativo, bisogna chiedersi se sia ancora possibile pensare di sopravvivere umanamente in un’isola, se l’isola è collocata su una sfera che traballa ogni istante e che presenta situazioni sempre più terrificanti a causa di soprusi, vessazioni, violenze di ogni genere da parte dei suoi abitanti, d’un cambiamento climatico che ne coinvolge ogni angolo, d’una rincorsa vertiginosa allo sfruttamento delle risorse. 

Naomi Klein, nel libro “Una rivoluzione ci salverà, perché il capitalismo non è sostenibile”, presenta un’analisi accurata e precisa sullo stato della terra. Una diagnosi inquietante, ma profondamente vera. E non c’è bisogno del volto sorridente e preoccupato d’una bambina come    Greta Thunberg, per cercare di correre ai ripari, quando la situazione sembra ormai irreparabile. 

Ma l’attacco più diretto e puntuale contro le istituzioni del capitalismo internazionale, in particolare contro il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC/WTO) si ritrova in ogni pagina dell’opera di Stigliz, dal titolo “La globalizzazione e i suoi oppositori”. Le sue affermazioni non si fondano su preconcetti, ma sono frutto di esperienze dirette, quale rappresentante ed esperto di diverse organizzazioni internazionali. 

Stiglitz ricorda come uno dei grandi promotori del Fondo Monetario Internazionale, l’economista inglese Keynes, era stato rappresentante alla conferenza di pace di Parigi, dopo la prima guerra mondiale, e si era  opposto decisamente alle sanzioni punitive contro la Germania. La sua voce, allora, non fu ascoltata e il risultato fu la seconda guerra mondiale. 

Ma dopo quest’ultima tragedia, alla conferenza di Bretton Woods, le idee di Keynes ebbero maggior successo. Nacque così il Fondo Monetario Internazionale, con lo scopo di promuovere la cooperazione monetaria. Purtroppo, negli ultimi anni, le linee di condotta e i difetti di gestione sono andati peggiorando. “Il problema non è la globalizzazione – rileva Stigliz – ma come è stata gestita. […] Molto spesso queste istituzioni hanno affrontato la globalizzazione con una mentalità troppo ristretta, ispirata a una visione particolare dell’economia e della società”. 

Tutto il sistema di gestione della vita sulla terra è nelle mani di un’élite che guarda ottusamente  ai propri interessi economici e al proprio sciocco egoismo. Per la Klein la salvezza dell’umanità consiste nella trasformazione dello stile di vita di ogni componente, rivolto al benessere sia personale che generale. 

Ralf  Dahrendorf, ex-commissario europeo e uno dei maggiori osservatori critici della società moderna, ha cercato di riproporre, a livello teorico-politico, il progetto di Immanuel Kant,  ritenendolo di grande attualità. Il filosofo tedesco in uno scritto del 1784, dal titolo “Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico”, prima ancora dell’opuscolo “Per la pace perpetua”, pubblicato nel 1795,  esponeva le sue idee sul cosmopolitismo.  

Al di là, quindi, delle utopie ottimistiche (Platone, Moro, Marx) o pessimistiche (Orwell, Huxley), secondo Kant, bisogna cercare, realisticamente, di raggiungere qualche obiettivo positivo per il benessere dell’umanità. Obiettivo che consiste, innanzitutto, nella costruzione di una società cosmopolitica, fondata su una Costituzione Universale. Quindi né EU, né USA, né altre Unioni più o meno fittizie. Non Est od Ovest, Nord o Sud, ma il pianeta Terra. A livello giuridico l’ONU dovrebbe diventare un solo Stato, una sola Costituzione, una vera Unità Mondiale, di cui ogni terrestre sarebbe cittadino. Il mondo, casa comune.

Jacob Taubes, ebreo, ex-docente a Gerusalemme, ad  Harvard  e a Berlino, ha sostenuto che la chiave d’una corretta visione politica mondiale si trovi  nelle lettere di San Paolo. “Nietzsche fu il mio migliore maestro per Paolo” ha affermato Taubes (“La teologia politica di San Paolo”). Quello stesso Nietzsche che, in “Anticristo”, definisce Paolo “tipo opposto alla buona novella, il genio in fatto di odio… un disangelista”. Ma nella “Seconda Lettera ai Tessalonicesi” (2,6) Paolo lancia una parola, misteriosa e sconvolgente, dal punto di vista politico: “katékon”, la forza frenante. Un  “qualcuno” o “qualcosa” che eviti all’umanità di precipitare nel caos. 

Per Carl Schmitt, che fu presidente dell’associazione dei giuristi tedeschi durante il regime nazista, processato e assolto dopo la caduta di Hitler, il “katékon”  è la forza della Legge. Schmitt e Taubes vedono nella  “Lettera ai Romani” di Paolo un attacco al Potere di Roma e ai suoi Cesari.  Solo la Legge può assumere un rilievo dominante, perché solo la Legge può trattenere, frenare un Potere Assoluto. Sembra l’anticipo millenario delle carte costituzionali: la “Magna Charta libertatum” (1215), la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789), l’ONU (1945). 

Massimo Cacciari, trattando di Schmitt, si sofferma sul tema del “katékon”, ritenendo che “Il potere che frena” (Adelphi, 2013) può sempre trovare un compromesso mentre, a suo parere,  i due poteri politico e religioso sono sempre con-fliggenti anche se inseparabili, ricorrendo perfino alla frase “Il papa deve smetterla di fare il katékon”. 

È stato Jack Goody, docente a Cambridge, ex prigioniero di guerra in Italia, che  ha girato il mondo in qualità di antropologo e storico di fama, autore di numerose opere tradotte in varie lingue, a pubblicare un libro dal titolo volutamente polemico e intrigante, “The Theft of History“ (“Il furto della storia”), cioè l’appropriazione della storia compiuta dall’Occidente. 

L’autore sferra poi una critica serrata nei confronti dell’analisi storica di Marx e di Max Weber sul capitalismo e nei confronti di intellettuali come Joseph Needham, Norbert Elias e Fernand Braudel. Riconosce la serietà e la profondità delle loro opere, ma ne contesta la visione eurocentrica. Il “furto della storia” si è verificato anche per valori universali come l’umanesimo, la democrazia e l’individualismo. Sottolinea: “I parallelismi tra la cultura cinese e l’umanesimo del nostro Rinascimento sono sbalorditivi”.  Anche “l’amore romantico” è stato rubato alle altre culture, perché l’Europa ne ha rivendicato l’esclusiva. Probabilmente “il Cantico dei Cantici” della Bibbia ebraica potrebbe aver avuto l’ispirazione dalla letteratura sanscrita, in cui si evidenziano tracce di amore romantico. In alcune espressioni della cultura islamica, l’amore è visto separato dalla religione tanto da incontrare detti come questo: “Non sono né cristiano, né ebreo, né musulmano… l’amore è la mia religione”. Secondo Goody l’Occidente ha rubato il Cristianesimo, messaggio d’amore rivolto a tutta l’umanità, facendone proprietà privata delle chiese. 

Come si può notare da queste brevi note, il libro di Jack Goody innesca una serie di riflessioni, autocritiche, valutazioni, che inducono a ri-leggere e ri-scrivere la storia con nuovi e più validi   strumenti di analisi, basando la ricerca sulla connessione tra particolare e generale, microstoria e macrostoria, storia d’un popolo e storia dell’Umanità. In ultima analisi, sempre più storia a livello mondiale e non storia da dimenticare o, addirittura, da sopprimere. Anche Marc Bloch sosteneva che l’oggetto della storia è «“l’uomo”, o meglio “gli uomini” e più precisamente “gli uomini nel tempo”» (Jacques Le Goff, prefazione a Marc Bloch, “Apologia della storia”). 

Come ricorda Yuval Noah Harari nel suo ultimo libro: “21 Lezioni per il XXI secolo”, anche Mark Zuckeberg, il 16 febbraio 2017, ha lanciato un manifesto sulla necessità di costruire una comunità globale, ricorrendo all’uso di Facebook, con oltre due miliardi di utenti. Ma se la filosofia aziendale di Facebook è quella di stimolare la gente a passare sempre più tempo online, rischia di deformare intelligenze e coscienze. Mentre sarebbe opportuno incoraggiare le persone a connettersi quando necessario e per un tempo  limitato alle reali esigenze. Uomini e macchine non possono non essere strettamente collegati, perché non si potrebbe sopravvivere se non connessi alla rete. L’uomo, quindi, dovrà appellarsi all’intelligenza in quanto capacità di risolvere i problemi e alla coscienza in quanto capacità di provare sentimenti.

*Mario Setta, giornalista