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Oltre l’Assurdo

Manlio Sgalambro e Friedrich Nietzsche sul senso dell’esistenza e il concetto di “Amor Fati”

Il confronto tra Manlio Sgalambro e Friedrich Nietzsche apre un dialogo filosofico affascinante su due visioni divergenti ma parzialmente complementari del senso dell’esistenza. Entrambi i pensatori, sebbene divisi da epoche e contesti culturali diversi, condividono una riflessione radicale sulla vita, l’individuo e il destino umano. Tuttavia, il loro approccio al concetto di amor fati, o accettazione dell’esistenza e delle sue contraddizioni, rivela significative differenze. Laddove Nietzsche celebra la vita con un’impennata di vitalismo eroico, Sgalambro si ferma su un terreno disincantato e oscuro, dipingendo un quadro crudo e spietato dell’esistenza. 

Friedrich Nietzsche sviluppa il concetto di amor fati come una delle colonne portanti del suo pensiero. Con questa espressione, che significa letteralmente “amore del fato,” Nietzsche invita ad accettare in modo incondizionato la vita in tutte le sue manifestazioni, anche le più dolorose e apparentemente insensate. In un’esistenza in cui Dio è morto e non esistono valori assoluti, l’uomo diviene artefice del proprio significato. L’amor fati è un invito a prendere atto della casualità e della crudeltà dell’esistenza senza volgersi indietro, senza rimpianti e senza nostalgie. 

Nietzsche elabora questa prospettiva come una risposta a quello che considera il nichilismo passivo della società moderna, afflitta dalla ricerca di un senso esterno alla vita stessa. Il filosofo, infatti, si scaglia contro l’idea di valori trascendenti, sottolineando come la vita stessa debba essere celebrata come l’unica vera realtà. Nelle parole di Nietzsche, “tutto deve ritornare,” ovvero l’eterno ritorno di tutte le cose è il banco di prova per verificare la nostra capacità di accogliere in modo assoluto l’esistenza, poiché solo chi è in grado di desiderare l’eterno ritorno delle proprie azioni può essere considerato un autentico amante della vita. 

Al contrario di Nietzsche, Sgalambro adotta una prospettiva nichilista ancora più radicale, che non concede nessuna possibilità di redenzione o elevazione attraverso l’accettazione del destino. In De Mundo Pessimo, Sgalambro articola una visione del mondo in cui il dolore, l’insensatezza e la mancanza di significato sono qualità ontologiche, non semplici accidenti della condizione umana. L’universo di Sgalambro è intrinsecamente crudele, un luogo dove ogni tentativo di trovare senso è destinato a fallire. Se Nietzsche intravede nella vita una danza di creazione e distruzione che va abbracciata, Sgalambro la vede come un incessante ciclo di sofferenza e vuoto. 

Per Sgalambro, quindi, la vita non è qualcosa da amare, ma un’esperienza da attraversare con freddezza e lucidità, consapevoli che ogni possibile spiegazione o senso ultimo è solo una consolazione auto-imposta. La sua è una visione che smaschera le “illusioni consolatorie” come tentativi di mitigare una realtà oggettivamente insopportabile. A differenza di Nietzsche, che celebra l’amor fati come un’accettazione gioiosa del destino, Sgalambro adotta una forma di rassegnazione senza slancio, una disillusione che non offre scampo. Egli definisce il mondo come “pessimo,” un luogo in cui non esiste una via d’uscita se non la totale accettazione della propria finitezza. 

Se per Nietzsche l’amor fati è il trionfo della volontà sulla sofferenza, per Sgalambro l’amor fati assume contorni più oscuri, simili a una rassegnazione che però non si trasforma mai in accettazione gioiosa. Il pensatore siciliano rifiuta l’idea che la vita possa essere elevata a valore assoluto. Egli guarda all’esistenza con un distacco che assume, a tratti, i toni di una gelida apatia, come afferma in diverse riflessioni. Per Nietzsche, accettare il destino è un atto di amore per la vita in quanto tale, in tutte le sue espressioni. Per Sgalambro, la vita non merita amore o odio: essa semplicemente “è,” come un fatto brutale, una serie di eventi senza scopo. 

Sgalambro scardina così anche il concetto nietzschiano di “superuomo,” l’individuo che, padrone della propria volontà, riesce a rispondere al caos del mondo con la sua creatività. Per Sgalambro, questa visione risulta ingenua, poiché la realtà umana è caratterizzata da una impotenza radicale di fronte all’universo. Se Nietzsche invita a “dire sì alla vita” con orgoglio, Sgalambro sembra suggerire che l’unico atteggiamento autentico sia una consapevolezza distaccata, quasi cinica, in cui si riconosce l’inutilità di ogni tentativo di trasformazione. 

Nietzsche e Sgalambro condividono una critica feroce alla modernità e ai suoi valori di progresso e ottimismo. Nietzsche la considera una “decadenza” che affievolisce la volontà umana e produce un “ultimo uomo” incapace di grandi ideali e passioni. Sgalambro, invece, osserva che la modernità ha eliminato la capacità di soffrire, sostituendo il senso dell’esistenza con una ricerca costante di distrazioni superficiali. Entrambi, pur con approcci distinti, vedono nella modernità una forza che riduce l’uomo a un essere che evita il confronto con la realtà. 

Tuttavia, se Nietzsche propone una reazione attiva alla modernità attraverso la filosofia dell’eterno ritorno e la volontà di potenza, Sgalambro si limita a un nichilismo contemplativo. In questo senso, il pensiero di Sgalambro rappresenta una forma di nichilismo “post-nietzscheano” che accetta il mondo per quello che è senza cercare una via di fuga o di redenzione. Il suo nichilismo si distanzia dall’impulso vitale nietzschiano, proponendo un mondo in cui ogni tentativo di attribuire un senso all’esistenza è vano. 

Un ulteriore elemento di confronto tra i due filosofi riguarda il rapporto con l’infinito e la trascendenza. Nietzsche sviluppa l’idea del “dionisiaco” come principio di vita che si manifesta nel caos e nella vitalità, un’ebbrezza che trascende le limitazioni della morale e delle convenzioni sociali. Il dionisiaco nietzschiano celebra la vita in tutte le sue manifestazioni, spingendo l’individuo a confrontarsi con le forze primordiali dell’esistenza. 

Al contrario, Sgalambro utilizza la metafora del “cielo” come simbolo dell’aspirazione umana verso una trascendenza che, tuttavia, si rivela un’illusione. Per lui, il cielo è una promessa irrealizzabile, una sorta di miraggio metafisico che rappresenta il vuoto e l’indifferenza dell’universo. Non c’è nulla di eroico o di vitale nel cielo di Sgalambro, solo un inesorabile vuoto che riflette la condizione di insignificanza umana. Se il dionisiaco di Nietzsche è una celebrazione della vita, il cielo di Sgalambro è una constatazione del nulla. 

Nietzsche e Sgalambro rappresentano due percorsi divergenti all’interno della filosofia contemporanea. Nietzsche, con il suo amor fati, offre una visione che incoraggia l’uomo a immergersi nella vita, abbracciando la gioia e il dolore con un entusiasmo eroico. Sgalambro, invece, ci lascia una visione cupa e distaccata dell’esistenza, nella quale l’uomo è chiamato ad accettare la propria finitezza e l’assenza di un senso ultimo, ma senza mai arrivare a un atto di amore nei confronti della vita. Nel confronto tra questi due pensatori, emerge una dialettica complessa tra affermazione e negazione, tra vitalismo e rassegnazione, tra celebrazione e disincanto. Nietzsche e Sgalambro, sebbene distanti nelle conclusioni, condividono l’aspirazione a liberare l’uomo dalle illusioni, anche a costo di confrontarsi con le verità più dure. Nietzsche ci invita a danzare sulle rovine, Sgalambro a contemplarle in silenzio; entrambi, però, ci ricordano la necessità di confrontarci con l’assurdo della condizione umana.

*Stefania Romito, giornalista e scrittrice