La fiaba oltre le fiabe
Risonanze della letteratura per l’infanzia nel romanzo contemporaneo
Nelle fiabe il senso della vita
La fiaba, lo sappiamo tutti per esperienza diretta, è un breve racconto fantastico di origine popolare nel quale agiscono non soltanto personaggi dalle caratteristiche umane, ma anche streghe, maghi, orchi, fate e altri esseri soprannaturali. Rispetto alla favola, la fiaba presenta un maggiore sviluppo narrativo, un carattere più marcatamente fantastico e non ha necessariamente un fine morale ed edificante.
L’averne assorbite tante da bambini, non deve farci ritenere che la fiaba sia frutto di futili fantasie. In essa, al contrario, riecheggiano miti antichissimi, che risalgono ai tempi in cui i popoli non sapevano darsi una spiegazione scientifica dei fenomeni naturali e li interpretavano in maniera simbolica. Oppure, permangono tracce dei rituali d’iniziazione attraverso i quali le antiche comunità tribali celebravano il passaggio di un individuo dall’adolescenza all’età adulta: l’allontanamento dal villaggio, la permanenza per un breve periodo nella foresta, il superamento di prove di coraggio, il ritorno tra gli adulti della propria comunità. Si spiegano, così, le situazioni, ricorrenti nelle fiabe, di bambini cacciati di casa, della foresta come dimora degli spiriti, del sacco in cui la strega chiude il bambino, della ricerca dell’acqua miracolosa.
La complessità, la trasversalità e l’universalità della fiaba si colgono appieno in Da genti e paesi lontani. La fiaba nel tempo tra canone, metamorfosi e risonanze (Marcianum Press, 2023), recente volume che raccoglie i saggi di Leonardo Acone, Susanna Barsotti e William Grandi e ci consente di fare il punto su altrettanti aspetti di questo fondamentale «architrave del narrare e del fare esperienza dell’umano», come lo ha definito Franco Cambi.
La persistenza della fiaba nella narrativa per adulti
L’elemento di maggiore novità negli studi sulla fiaba è introdotto dal saggio di Acone, docente di Letteratura per l’infanzia presso l’Università degli studi di Salerno. Egli osserva in via preliminare che alcune celebri opere della nostra storia letteraria, apparentemente ben lontane dal genere fiabesco, in realtà, se lette in filigrana, mostrano chiari segni della persistenza nelle loro pagine di archetipi narrativi propri della fiaba, la quale, dunque, mostra «capacità di elevare il proprio tasso di pervasività letteraria riaffiorando […] in termini di stupore, meraviglia, incanto e magia» anche in opere non più destinate all’infanzia.
Per dimostrare ciò, Acone muove la propria riflessione dal capolavoro di Carlo Collodi, non facilmente comprimibile in un unico genere letterario. Come sappiamo, infatti, Le avventure di Pinocchio, opera pubblicata in volume nel 1883, traspone in termini fantastici profonde problematiche sociali ed educative. Benedetto Croce ha definito Pinocchio «il più bel libro della letteratura infantile italiana» e lo ha collocato tra le grandi opere pubblicate in quell’anno, insieme a quelle di Carducci, Verga, Serao, D’Annunzio, Di Giacomo e altri. In anni più recenti, Pietro Citati ha sostenuto che il romanzo di Collodi è «il terzo libro di prosa del nostro Ottocento, dopo i Promessi sposi e le Operette morali».
Acone, in particolare, ricorda che l’Autore, nel concludere la prima parte delle avventure, aveva lasciato morire il suo piccolo burattino appeso al ramo di una grande quercia. Tuttavia, «la punizione estrema che Collodi aveva appena rinfacciato al buonismo di una società impreparata ad accogliere le istanze più sincere dell’infanzia, e cieca al suo sostanziale disvelamento attraverso il profilo di un bambino ‘vero’ (disobbediente, capriccioso, vivacissimo e… profondamente buono!), si rivelava alla fine inaccettabile per tutti». Pressato, dunque, da richieste di lettori ed editore di non fare morire il burattino e dare seguito al racconto con altre avventure, Collodi, nel marzo del 1882, «acconsente a tale ribaltamento narrativo non senza, però, levarsi molti sassolini dalle scarpe [attraverso] l’utilizzo provocatorio, sarcastico e volutamente stucchevole di tutto il materiale fiabesco di cui egli disponeva, per irridere e, sotto il punto di vista letterario, umiliare, mediante una concessione e un prosieguo che sorridono ai bambini e sbeffeggiano gli adulti».
Acone passa, quindi, a rivelare quanta fiaba resti o si nasconda o riaffiori anche in altre opere di Italo Calvino e di Dino Buzzati. Nelle Cosmicomiche (1965) di Calvino e, ancor di più nella trilogia de I nostri antenati (Il visconte dimezzato, 1952; Il barone rampante , 1957; Il cavaliere inesistente, 1959), che si colloca tutta nello stesso decennio in cui egli s’immerse nel recupero delle Fiabe italiane. Di Buzzati, che, al contrario, non ha mai pubblicato fiabe, né come autore né come ‘riscrittore’, Acone recupera Montenero 66, pressappoco una fiaba (1945): struggente racconto in cui si confrontano il desiderio infantile e la più adulta disillusione, attraverso la vicenda di un bambino che abita tra le rovine di una casa bombardata in viale Montenero 66 e scrive una letterina a Babbo Natale nella speranza di ricevere qualche regalo o anche soltanto un sacco di carbone.
Una prospettiva d’indagine, quella aperta da Leonardo Acone, innovativa e dotata di un potenziale euristico che va ben oltre i sondaggi proposti. Essa, infatti, apre la strada a ulteriori ricerche e approfondimenti. Inquadrabile in quest’ottica è, ad esempio, anche l’epilogo di Ninfa plebea, il romanzo di Domenico Rea, vincitore del Premio Strega nel 1993. Assodato che la denuncia degli abusi sessuali perpetrati a danno di una bambina, per il solo fatto d’essere figlia di una prostituta, è nucleo genetico e motivo dominante del romanzo, resta il problema di spiegare le ragioni del lieto fine di esso. In altre parole, cosa può avere indotto Domenico Rea ad attenuare la propria disincantata e pessimistica rappresentazione di rapporti sociali cinici e prevaricatori, che non lasciano scampo alle proprie vittime, anche le più innocenti, in una favola bella in cui la povera e sfortunata bambina, dopo tanti abusi patiti, trova un principe azzurro che la salva e la sposa?
È possibile, dunque, che le ragioni del lieto fine di Ninfa plebea vadano rintracciate proprio nel riaffiorare, consapevole o meno in un Domenico Rea ormai avanti negli anni, dei i moduli della fiaba, che implicano il lieto fine, e nel loro prendere il sopravvento sui i canoni del racconto sociale, i cui epiloghi sono spesso tragici.
La struttura della fiaba
Ad approfondire lo sguardo sugli aspetti costitutivi della fiaba, la sua struttura e il suo sviluppo nei secoli, ci conducono gli altri contributi, offrendo un quadro aggiornato degli studi oggi disponibili. In particolare, William Grandi, che insegna Pedagogia della narrazione presso l’Università degli Studi di Bologna, richiama le ricerche che hanno messo in luce la struttura morfologica della fiaba e, al contempo, le radici antropologico-culturali di essa. Ineludibile, dunque, il riferimento agli studi del russo Vladimir Ja. Propp, autore di Morfologia della fiaba (1928) e Le radici storiche dei racconti di magia (1946), il quale, operando su un corpus di circa un centinaio di fiabe russe, ne ha individuato gli elementi costanti, cioè le trentuno azioni (Propp le chiama ‘funzioni’) che, al di là dell’infinita varietà di nomi e attributi dei vari personaggi, ricorrono in tutti i testi, nello stesso ordine: all’eroe viene fatta una proibizione; la proibizione viene violata; il cattivo arreca un danno o una lesione a uno dei membri della famiglia; l’eroe viene messo alla prova; l’eroe riesce a entrare in possesso del mezzo magico. E così via, fino a quando l’eroe e il cattivo si battono in uno scontro diretto; il cattivo è vinto e l’eroe viene proclamato re. E ricorrenti, seguendo l’analisi di Propp, sono anche i ruoli principali assunti dai vari personaggi: l’eroe, il cattivo, il donatore dello strumento magico, l’aiutante, l’oggetto del desiderio (la figlia del re ecc.), il destinatore (colui che indica all’eroe la missione da compiere), il falso eroe.
Non meno significativo il richiamo alle ricerche antropologico-culturali che hanno individuato la matrice originaria della fiaba nei riti iniziatici a cui erano sottoposti i giovani nelle antiche comunità tribali. In questo senso Italo Calvino ha potuto affermare che «le fiabe sono vere», poiché nel loro insieme offrono una spiegazione generale della vita. Una spiegazione nata in tempi lontani e giunta fino a noi attraverso i racconti tramandati oralmente nelle famiglie contadine. Esse, afferma sempre Calvino con diretto riferimento al patrimonio fiabesco nazionale, «sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna […] dalla nascita che sovente porta con sé un auspicio o una condanna, al distacco dalla casa, alle prove per diventare adulto e poi maturo, per confermarsi come essere umano. E in questo sommario disegno, tutto: la drastica divisione dei viventi in re e poveri, ma la loro parità sostanziale; la persecuzione dell’innocente e il suo riscatto come termini d’una dialettica interna ad ogni vita; l’amore incontrato prima di conoscerlo e poi subito sofferto come bene perduto; la comune sorte di soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinato da forze complesse e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso come un dovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, anzi non potersi liberare da soli, il liberarsi liberando; la fedeltà a un impegno e la purezza di cuore come virtù basilari che portano alla salvezza e al trionfo; la bellezza come segno di grazia, ma che può essere nascosta sotto spoglie d’umile bruttezza come un corpo di rana; e soprattutto la sostanza unitaria del tutto, uomini bestie piante cose, l’infinita possibilità di metamorfosi di ciò che esiste».
Breve storia della fiaba
Sulla fenomenologia della fiaba, cioè sul suo concreto dispiegarsi e modificarsi nel tempo e nei luoghi, si sofferma, invece, lo studio di Susanna Barsotti, professoressa di Letteratura per l’infanzia presso l’Università degli Studi Roma Tre. Dopo una preliminare riflessione su oralità e scrittura e su come il passaggio dalla prima alla seconda abbia inciso sullo statuto della fiaba, Susanna Barsotti attraversa una serie di celebri raccolte, a partire Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de’ peccerille (o Pentamerone) del napoletano Giovan Battista Basile. Si tratta dell’opera più rappresentativa del gusto per il fantastico e il fiabesco di matrice popolare che, in alternativa al dominante realismo laico, si afferma con più forza nel Seicento, a riprova del desiderio di evasione dalla realtà, proprio della civiltà barocca. L’opera, iniziata nel 1615 e pubblicata postuma (1632-1636) per interessamento della sorella del Basile, raccoglie cinquanta fiabe (di cui la cinquantesima costituisce anche la cornice dell’intera raccolta), tutte scritte in dialetto napoletano. Il richiamo alla raccolta di novelle di Boccaccio, il Decameron,è evidente nel titolo Pentamerone; nella suddivisione della raccolta (cinque giornate costituite da dieci novelle ciascuna); nella scelta dei personaggi che narrano le singole novelle, sia pure con un sarcastico capovolgimento: dieci donne brutte e ripugnanti. Tuttavia, sul piano della narrazione, il Pentamerone si caratterizza per la presenza di storie magiche, di fantasmagoriche invenzioni che, insieme alla lingua dialettale vivace, popolaresca e dissacrante, sono l’espressione più genuina di quello che Benedetto Croce definì il “barocco gaio”.
Nonostante questi precedenti italiani, il consolidamento della fiaba come genere letterario si ha a fine secolo in Francia. Celeberrimi, infatti, sono i Contes, raccolta realizzata da Charles Perrault nel 1697. Si tratta di undici racconti di fate e altri soggetti ripresi dalla tradizione popolare orale ed elevati a prodotto letterario, subito divenuto di moda alla corte di Versailles. Tra le fiabe più celebri di Perrault ricordiamo, La bella addormentata nel bosco, Cappuccetto rosso, Il gatto con gli stivali, Cenerentola, unanimemente apprezzate per la semplicità e la naturalezza dello stile.
Nel Settecento, il francese Antoine Galland traduce la raccolta araba Mille e una notte (secc. XII-XVI) che si diffonde in tutta l’Europa e ottiene un successo superiore a quello riscontrato nei paesi d’origine, dov’è ritenuta un prodotto letterario mediocre. Il vero secolo d’oro della fiaba è, tuttavia, l’Ottocento. La cultura romantica, infatti, è particolarmente interessata a ricercare le radici della creatività popolare e incline al gusto per il magico e il fantastico. È in questo secolo che comincia la raccolta sistematica e lo studio delle fiabe popolari: in Germania i fratelli Jakob e Wilhelm Grimm raccolgono, rielaborano e pubblicano le Fiabe per bambini e famiglie (1812), e altre raccolte sono realizzate da Hans Christian Andersen (Fiabe, in varie raccolte a partire dal 1835-37) e Lewis Carroll. Alla fantasia del primo si devono La sirenetta, L’intrepido soldatino di stagno, La pastorella e lo spazzacamino, Il brutto anatroccolo; al secondo Alice nel paese delle meraviglie (1865). Uno scenario all’interno del quale Susanna Barsotti mette a confronto Perrault e i fratelli Grimm sul caso di Cappuccetto rosso e scandaglia la fiaba del russo Aleksandr N. Afanasjev.
Non manca, nel saggio di Barsotti, uno sguardo al nostro Paese, filtrato attraverso Fiabe italiane (1956) di Italo Calvino. La raccolta costituisce la manifestazione più alta dell’impegno critico-letterario volto a recuperare, selezionare e rielaborare il patrimonio fiabesco della nostra tradizione. Si tratta di fiabe, spesso in dialetto, che Calvino ha rintracciato in vecchi libri, riviste specializzate, manoscritti inediti conservati in musei e biblioteche e che, poi, ha scelto, rielaborato e trascritto in un italiano popolare, cioè capace di incorporare immagini e giri di parole che vivificano l’espressione dialettale.
Come già sottolineato, le fiabe sono molto simili dappertutto. Le loro radici sono così lontane nel tempo e le loro varianti sono così numerose e diffuse che è difficile attribuirne l’origine geografica in modo certo. Tuttavia, il concreto scavo filologico e antropologico operato da Calvino dimostra che la circolazione internazionale delle fiabe e le conseguenti contaminazioni realizzano una comunanza la quale, tuttavia, non esclude un certo grado di diversità. Essa può manifestarsi nella scelta o nel rifiuto di alcuni ‘motivi’, nella creazione di certi personaggi, nell’atmosfera che avvolge il racconto. In altre parole, Calvino ha dimostra che la fiaba, indipendentemente dalla propria lontana origine, è destinata ad assorbire anche qualcosa del luogo in cui è narrata. In questo senso ha, dunque, significato parlare di fiabe italiane, distinguendole da quelle nordiche o slave, e, all’interno delle fiabe italiane, è possibile distinguere anche la provenienza regionale di ciascuna. Ad esempio, egli osserva l’esistenza di un modo diverso di parlare dei re nelle favole toscane e in quelle siciliane. In Sicilia, grazie alla particolare esperienza storica di quelle popolazioni, il re, la corte, la nobiltà sono istituzioni ben precise, dotate di una rigida gerarchia interna e di un determinato cerimoniale di cui anche le vecchiette, contadine e analfabete, che raccontano le favole rivelano una minuziosa conoscenza. Al contrario, in Toscana, dove l’esperienza storica della monarchia non è radicata, il re delle favole resta un termine generico che non richiama una precisa realtà istituzionale, ma si limita a indicare una condizione di ricchezza economica e di prestigio sociale.
*Raffaele Messina, scrittore