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Mordere la nebbia: mai perdere il coraggio

Qualche tempo fa ho incontrato brevemente Alessio Boni. Un rapidissimo scambio di battute: doveva essere intervistato per presentare il suo libro autobiografico, Mordere la nebbia, e l’ho incrociato velocemente fuori dallo studio televisivo.  Mi ha lasciato un’ottima impressione, quella di una persona di grande garbo, e ho trovato interessante l’intervista, così ho deciso di comprare il libro.

Come mi aspettavo è un volume che si legge piacevolmente, scritto in modo scorrevole. Attraverso le pagine si ricostruiscono l’infanzia e la giovinezza dell’attore, spiegando come sia approdato al mondo della recitazione, per poi alternare capitoli dedicati allo studio dei vari personaggi interpretati e spazi che raccontano dei suoi viaggi, spesso con diverse associazioni umanitarie, in Brasile, ad Haiti, in Mozambico, in Malawi, a Lesbo, tra lebbrosari, bidonville e campi profughi, ma anche più semplicemente nella periferia di Napoli, per incontrare le donne vittime di violenza domestica. 

Un percorso vario, mai noioso, in grado di toccare corde profonde nel resoconto di dolori e miserie di parti del Mondo spesso dimenticate, e altrettanto capace di stuzzicare la memoria del lettore, che facilmente ricorderà i personaggi di cui Boni spiega lo studio, come Caravaggio o il protagonista de La meglio gioventù, e i grandi nomi con cui l’attore ha avuto modo di lavorare e di stringere amicizia, da Strehler a Luigi Lo Cascio. 

Quello che non mi aspettavo, invece, è che mi desse lo spunto per riflettere su molti aspetti della rincorsa all’autorealizzazione che sono propri della nostra società.

Boni è nato sul Lago d’Iseo, in un paesino in provincia di Bergamo. Un’infanzia libera, trascorsa a contatto con la natura, in un ambiente estremamente pragmatico e concentrato sul lavoro. Il “[…] mondo del lavoro […], dove sono nato, all’epoca, si spalancava subito, appena terminata la scuola dell’obbligo, la terza media. Il lavoro, la professione è ciò che soprattutto definisce l’uomo occidentale e, potrei aggiungere, l’uomo bergamasco in particolare. «Lavoro dunque sono» potrebbe essere la perfetta massima applicata a quei luoghi.”1

Il padre era piastrellista e la madre gestiva il negozio di piastrelle. Un’occupazione considerata sicura e redditizia, in cui Alessio, tredicenne, viene coinvolto, come è scontato che sia.

“Tutto sembrava già scritto. La vita si dispiegava di fronte a me prosaica, senza sorprese, anche se ero poco più che un bambino. Non c’era neppure bisogno di frequentare le superiori: per quello che avrei dovuto fare un diploma non serviva. Anzi avrebbe soltanto tolto tempo prezioso. Entravo a tutti gli effetti nel mondo degli adulti, un mondo rigido improntato al dovere, in cui l’immaginazione era bollata come infruttuosa.”2

In queste parole ritrovo la mentalità che pervade anche il mio, di paese, sempre lombardo, sul confine con la Svizzera, simile in questo, credo, a molti piccoli centri del nord Italia e forse non solo. 

Un modo di intendere la vita in cui sono cresciuta, sebbene si tratti di una mentalità che non mi ha toccato completamente, perché la mia famiglia arriva dal meridione, da due città di mare che si guardano dai lati opposti dello stretto di Messina. 

Io sono nata oltre vent’anni dopo rispetto a Boni e tutti i miei amici si sono diplomati, ma l’idea del “lavoro dunque sono” intride ogni piega del pensiero di paesi come il mio. Il pragmatismo è imperante. I sogni e le inclinazioni esistono, naturalmente, vengono riconosciuti e rispettati, ma ci sono sempre valutazioni sulle prospettive, sugli sbocchi, imprescindibili prima di prendere una qualsivoglia decisione. 

Molti ragazzi del mio paese preferiscono frequentare istituti che diano loro un diploma immediatamente spendibile, come ragioneria o geometri (che dopo le svariate riforme degli ultimi anni hanno nomi che proprio non mi sovvengono). Tanti, anche se si dimostrano validi studenti, non si iscrivono all’Università, perché questo posticiperebbe il loro ingresso nel mondo del lavoro. E alcuni, terminate le superiori, optano per qualche scuola professionalizzante in Svizzera, istituti in grado di formarli per occupazioni sicure, pronti ad una vita da frontalieri che richiederà grande fatica, ma ripagata da un onesto e lauto guadagno, che consentirà loro di acquistare un terreno e di costruirvi una casa dotata di tutto quanto possa servire alla famiglia che intendono formare. 

Paesi come questi sono luoghi in cui il lavoro non spaventa, anche quando altrove sarebbe etichettato come “umile”. Perché il lavoro è lavoro, tutto. Il lavoro è guadagno, sicurezza, stabilità, dignità. Che si tratti di un impiego in banca o di un’occupazione stagionale come cameriere in qualche albergo svizzero, di un posto in uno studio notarile o come gessino oltre confine.

Naturalmente questo non significa che i ragazzi non possano perseguire i propri sogni. Molti, per seguire quella che sentono essere la propria strada, si iscrivono all’Università, magari scegliendo però una facoltà più “spendibile” di altre, perché quel pragmatismo connaturato non scompare mai.

Boni spiega che, nel momento in cui inizia a lavorare nell’attività di famiglia, la situazione comincia a stargli stretta. Il primo atto di ribellione è iscriversi alla scuola serale per prendere il diploma, ma questo non gli basta. “[…] sentivo, visceralmente, che al di là della piazzetta del paese, del bar con i suoi volti, dei portici in riva al lago, si stendeva un mondo infinito e variopinto di cui non sapevo nulla. Era là fuori che immaginavo se ne stesse accovacciata quell’inebriante libertà che avevo avvertito durante l’infanzia, ma che ora non sentivo più. Mi aspettava da qualche parte, pronta a travolgermi.”3 Sente che la vita non può ridursi a quei giorni che si ripetono tutti uguali, a quei “si è sempre fatto così”; è affamato di libertà e di diversità.

Questo slancio manca in molti giovani dei nostri luoghi. L’essere cresciuti in un paese piccolo, protetto, lontano, circondato dalle montagne com’è il mio, se in alcuni può generare quel senso di claustrofobia che Boni vede in molti suoi amici e che opprime anche lui, spingendolo a volersi allontanare, crea intorno a tanti un bozzolo di sicurezze, una comfort zone che è difficile abbandonare. Molti giovani hanno paura di uscire dalla valle, hanno paura di allontanarsi, di ritrovarsi senza la protezione incrollabile offerta da quelle montagne. Il paese viene idealizzato con la ricorrente espressione “a misura d’uomo”, mentre al contempo la città è quasi demonizzata, immaginata come un luogo caotico e pieno di pericoli in cui la vita è stressante e spaventosa. 

È una paura che capisco e che ho provato a mia volta, tanto che per un breve periodo a ridosso del diploma io, che non avevo alcuna propensione né interesse nel commercio, vaneggiavo di voler aprire un negozio di fiori pur di non iscrivermi all’Università a Milano, a 120 km da casa. Inutile dire che i miei genitori, che per lavoro si sono trasferiti a 1400 km da casa loro, mi hanno letteralmente riso in faccia, e che a Milano all’Università ci sono andata, e anche di corsa. 

Ma al di là delle mie scelte personali, ho visto moltissimi miei coetanei rinunciare a proseguire gli studi anche per questo motivo, o scegliere Pavia piuttosto che Milano perché la credevano più vicina, per dimensioni, al paesello, o iniziare un’isterica routine di costanti avanti e indietro in cui rimanevano a Milano lo stretto indispensabile per poi fuggire di corsa a casa ogni weekend, privandosi della possibilità di vivere davvero quella nuova realtà, di immergervisi sul serio, almeno per quei pochi anni di studio. Perché anche questo va detto. La maggior parte dei giovani che lascia paesi come il mio, in realtà non si stacca mai e ci torna immediatamente appena finito di fare ciò che è obbligato a fare altrove.

Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, non sarebbe giusto. Ci sono anche nel mio paese di origine, come ci saranno in quello di Boni, i sognatori, ragazzi che hanno ambizioni artistiche, velleità bizzarre, desideri rischiosi, e che non temono tutto questo. 

Sognare è concesso, solo che spesso si sogna in modo contingentato, in una sorta di recinto mentale delimitato dai paletti della convenienza e dell’opportunità, nel senso di ciò che conviene e di ciò che è opportuno. Perché di compaesani che si sono iscritti in Economia ne ho tanti, in Lettere qualcuno in meno, al Conservatorio decisamente pochi.

Non c’è però da meravigliarsi, perché in fondo questa è una tendenza tipica della società occidentale ipercompetitiva, in cui affermarsi nel mondo del lavoro è sempre più difficile e dove le carriere artistiche sono considerate giocoforza poco realistiche, incerte, rischiose.

Da questo punto di vista la storia di Alessio Boni può dare un filo di speranza, una boccata d’ossigeno e un po’ di fiducia.

All’inizio non sa nemmeno lui cosa voglia fare nella vita. Sente semplicemente questa spinta verso la libertà, verso il lontano, il diverso. Entra in polizia, poi capisce che non fa per lui; trascorre sei mesi negli Stati Uniti mantenendosi con qualsiasi tipo di lavoro trovi; alla fine torna in Italia come animatore turistico. 

Il suo capo animatore gli suggerisce di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, perché vede in lui un’attitudine alla recitazione, così Boni parte, impreparato, alla volta delle selezioni e arriva undicesimo (purtroppo vengono ammessi solo dieci candidati). Alcuni amici lo invitano ad assistere a una rappresentazione della Gatta Cenerentola di Roberto De Simone: è la sua prima volta a teatro e rimane travolto dalla passionalità dello spettacolo. S’iscrive allora all’accademia privata Alessandro Fersen, per potersi preparare alle selezioni dell’Accademica Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, mentre lavora come cameriere per mantenersi.

Leggendo la sua storia non ci si sente in difetto per il semplice fatto di non sapere quale sarà il nostro obiettivo di vita sin da quando abbiamo cinque anni. Lo si può scoprire man mano, anche dopo aver compiuto scelte che non si sono rivelate le migliori. 

C’è un’immagine, in particolare, che Boni utilizza e in cui mi sono ritrovata. 

“A tormentarmi era la sensazione del tempo che scivolava fra le dita, la percezione di essere in ritardo su un treno che avrebbe dovuto portarmi dove desideravo.”4

Una sensazione che ricorre, in un contesto in cui l’autoaffermazione diventa quasi una lotta con se stessi e con gli altri, che sembrano sempre un passo avanti, perché quelli che sono un passo indietro non li guardiamo neppure, non davvero; una fatica che sembra destinata a non finire mai, in un contesto lavorativo che ci vede tutti pieni di lauree, master, specializzazioni, che ci costringe a perderci in una rete sconfinata di stage e precariato, che ci fa spesso perdere di vista l’obiettivo, perché la ricerca di quella stabilità (anche economica) che serve per vivere è talmente difficile da prendere il sopravvento, da diventare mira primaria a scapito, a volte, di quello che era l’obiettivo iniziale: riuscire a fare quello che avremmo voluto davvero fare. 

Una sensazione che è difficile non provare quando il sistema è strutturato in modo tale da farci ritrovare spesso “alle prime armi” quando abbiamo già 26, 27, 28 anni. 

Un contesto duro, complicato, in cui purtroppo essere bravi non basta e dove per farcela serve un fortuito mix di capacità lavorative, doti caratteriali, coincidenze. Bisogna dribblare la concorrenza, aggirare la fantomatica e onnipresente categoria dei “raccomandati”, non lasciarsi schiacciare da referenti o superiori che alle volte sembrano decisi a frenarci solo perché ai loro tempi qualcuno ha bloccato loro. E poi si deve avere la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto e, naturalmente, quella di fare i giusti incontri perché, come afferma lo stesso Boni, la vita è fatta di incontri.

Insomma, riuscire a farsi strada è un’impresa spesso sfiancante e a volte si ha la sensazione che ci riesca solo chi è disposto a vivere col coltello perennemente fra i denti e a non porsi troppi scrupoli o dilemmi etici. 

Sicuramente bisogna sapersi adattare, ma non troppo, o poi ci si adatta al punto da finire col fare tutt’altro rispetto a ciò che ci piacerebbe. 

E si deve essere pieni di determinazione.

Questo è un altro aspetto che emerge chiaramente dalla storia di Boni: un carattere impetuoso e determinato, che una volta prefissatosi un obiettivo impegna tutto se stesso per raggiungerlo. 

Una vita vissuta all’insegna del “mola mia” bergamasco, il “non mollare”, e del “volere è potere”.

Questo è forse l’unico punto con cui non mi trovo del tutto allineata, quel “volere è potere”. Che non si debba mai mollare è vero, la perseveranza è fondamentale, però credo che molti di noi abbiano scoperto con grande sofferenza che non è sufficiente. Volere non sempre è potere. 

Questo nulla toglie all’importanza del provarci, perché ovviamente se nemmeno ci si prova è pressoché impossibile riuscire.

Tuttavia la mentalità occidentale del volere è potere rischia talvolta di arrivare al punto di divenire un ulteriore fattore di stress, quasi come se il non riuscire ad ottenere qualcosa, pur a fronte di impegno e capacità, dipendesse da un nostro non averlo voluto abbastanza, da un non essere stati abbastanza determinati, decisi, “cazzuti”. Specie quando si ha la percezione distorta che tutti quelli intorno a noi ottengano di più, magari meritando meno. Non c’è spazio, al mondo, anche per i miti? Per chi desidera in modo più discreto? 

Questo non lo so. Forse no. 

Quel che è certo è che non a tutti va bene, anche se siamo meritevoli, ci impegniamo al massimo e lo desideriamo con tutti noi stessi.

Una delle immagini più belle che Mordere la nebbia regala, a mio gusto, è quella di Don Chisciotte, che in sella al suo ronzino insegue il sogno per molti impossibile della giustizia. 

“[…] Don Chisciotte è quello che la società, con la consueta spietatezza, definisce un fallito. […] <<Colui che perde la salute perde molto; colui che perde un amico perde di più; ma colui che perde il suo coraggio perde tutto>> afferma l’hidalgo, ricordandoci quale sia il valore centrale della sua vita, quello che lo spinge a <<sognare il sogno impossibile>> e <<raggiungere la stella irraggiungibile>>”5.

Per Alessio Boni il “volere è potere” ha funzionato, e magari ci conviene farci semplicemente ispirare, con una buona dose di ottimismo e abbracciando anche l’evenienza di trasformarci in dei moderni Don Chisciotte.

Perché al di là del risultato, forse davvero la cosa più importante è non perdere il coraggio.

*Monica Siclari, dottoressa in Comunicazione

1. Boni, A. Mordere la nebbia, Solferino, p. 14

2. Boni, A. Mordere la nebbia, Solferino, pp. 14 -15

3. Boni, A. Mordere la nebbia, Solferino, p. 15

4. Boni, A. Mordere la nebbia, Solferino, p. 25

5. Boni, A. Mordere la nebbia, Solferino, p. 123