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Manifesto incerto sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin, Frédéric Pajak (Traduzione di Nicolò Petruzzella, L’orma, 2021)

Per il francese Frédéric Pajak – sessantesei anni ben portati – un libro è un oggetto da modellare intrecciando il disegno con la scrittura e fissando le esperienze attraversate in sequenze di immagini e di annotazioni che scaturiscono dai luoghi via via descritti, anzi ascoltati: quasi ritenessero ancora echi e luci di chi li percorse o li abitò. Ha fatto cento mestieri Frédéric, fino a soffrire la miseria più avara. A un certo punto ha cominciato a costruire con artigianale ingegnosità libri di originale struttura. I disegni vi hanno un identico formato: un quadrato. L’abbondanza dell’inchiostro di china conferisce loro una carica incisività xilografica. I primi tentativi di un genere che un critico ha definito “saggio grafico” non trovarono uno entusiastico sbocco editoriale. Alla ricerca di un’ideologia da dichiarare, afflitto da una solitudine che gli faceva balenare in testa persone e città in sogni e incubi, Pajak pensò di intitolare ognuna delle sue invenzioni Manifesto, qualificandolo però incerto per confessare l’inquietudine che lo dettava senza assestarsi in un ordine cronologico o in narrazioni organiche. La sua è, pertanto, una vagante flânerie, che convocava letture, citazioni, fantasmi, paesaggi alla ricerca, nel mare del passato, del senso del presente: «Il presente ha perso – spiega a premessa del suo itinerario – la presenza del passato, eppure il passato non è affatto scomparso: langue nello stato del ricordo, un ricordo immoto, privo di lingua, sostanza, realtà». Si tratta, allora, di riempire questo vuoto per ridare un significato a scene e momenti rimuginati in interminabili riflessioni. Così è nata un’opera – Manifesto incerto, appunto – concepita in dieci volumi. Ad oggi in Francia ne sono stati pubblicati nove – l’ultimo appena edito è su Fernando Pessoa –, ma in questa bizzarra enciclopedia personale non c’è continuità: ogni libro ha una sua autonomia. I primi tre hanno a scena Parigi. Successivamente verrà meno anche un fil rouge di luogo. Il primo libro è stato pubblicato in Italia l’anno scorso dalla giovane e dinamica editrice L’orma, sull’onda di un grande successo: era incentrato sui vagabondaggi europei di Walter Benjamin. Non sono mancati prestigiosi riconoscimenti, tra i quali spiccano il premio Médicis (2014) per la saggistica e il Prix Goncourt  (2019) per la biografia. Ed ecco ora il secondo volume (Manifesto incerto sotto il cielo di Parigi con Nadja, André Breton, Walter Benjamin, traduzione di Nicolò Petruzzella, pp. 224, € 28, L’orma, Roma 2021).

Il viaggio comincia dalla cimiteriale Venezia di San Michele, dove riposano scheletri di illustri protagonisti. Una sosta di meditazione e un balzo a Parigi, nelle irriconoscibili periferie popolate da nuovi abitanti. Che si scrutano, si guardano inerti con freddezza sospettosa. Nella dilatazione metropolitana la città non è più spazio di contatti autentici. Il diario dell’autore ripesca una citazione di Georg Simmel, che già aveva colpito Benjamin: «Prima dell’avvento degli omnibus, delle ferrovie e dei tram nel secolo decimonono, la gente non si era mai trovata in condizione di dover stare, per minuti e anche ore intere, a guardarsi in faccia senza rivolgersi la parola». I cittadini sono un gregge che evoca una massa da setacciare con controlli da romanzo poliziesco. In un teatrino di Montmartre ci s’imbatte in uno spettacolo allestito da surrealisti. Improvvisa l’apparizione enigmatica di un André Breton trentenne – siamo nel ’26 – alla vigilia di un incontro fatale. La ragazza che d’acchito l’attrae è una gracile fanciulla bionda, spersa e angosciata. Attaccano discorso. Due giorni dopo sono a passeggio su e giù per rue du Faubourg-Poissonière. Nel salutarlo lei si rabbuia perché viene a sapere che è sposato. Non è che l’inizio di una serrata serie di appuntamenti che si sgranano uno dopo l’altro senza dar luogo ad una storia vera. Scatta una furente passione erotica: lui la bacia sui bellissimi denti. Qualche giorno dopo eccoli gironzolare separati l’uno dall’altra. Fanno l’amore per la prima volta all’Hôtel du Prince de Galles. La passione – ahimè – svanisce con la rapidità con cui si era accesa. Agli occhi di André la donna diventa un personaggio letterario. Lui continuerà a incontrarla fino al febbraio 1927. Nadja trova l’ardire di rivelare la situazione a Simone, moglie del glaciale corteggiatore. Lo choc del distacco getta Nadja in uno stato di pazzia. La ragione si annebbia, è ricoverata nell’ospedale di Sainte-Anne per poi essere trasferita in un manicomio: «Sindrome di manierismo di mutismo alternati a mutismo ansioso e incoerente, deperimento e salute cagionevole»: la cartella clinica non lascia adito a speranze. Vivrà ancora a lungo, fino al gennaio 1941, quando la rapirà il tifo. Raccontato così, il rapporto pare un resoconto da graphic novel senza fumetto, tanto più che è accompagnato in parallelo da spettrali disegni. Breton chiosa il diario che la donna gli aveva consegnato con una frase impietosa: «Tutto il fascino che esercita su di me resta nel dominio intellettuale, non diventa mai amore». In una lettera di Nadja si legge una chiusa straziante: «Piove ancora. La stanza è buia. Il cuore è un abisso. La mia ragione muore». È il divario incolmabile tra mito letterario e soffocata esistenza. Nadja uscì nel 1928 e fu da subito un un’operetta di culto, che abbandonava le cadenze della scrittura automatica prediletta dal surrealismo agli albori per esplorare i risvolti sociali e interrogarsi sui dolorosi movimenti della psiche. Le conclusioni cui Breton approda schiudono una problematica che assilla: «L’assenza ben nota d’una qualsiasi frontiera tra la follia e la non-follia non mi dispose ad accordare valore differente alle percezioni e alle idee che si attribuiscono all’una e all’altra». Esiste un netto confine tra calcoli della ragione e impulsi della follia?

Appena un frammento, un episodio, ho ritagliato dal Manifesto di Pajak. Mi limito a commentarlo con un richiamo al pedinato Benjamin in perenne fuga: «Il passato ha due volti: il passato dei vincitori, che vive a pieno diritto nel presente, e il passato dei vinti, che nel presente non esiste: “Per la Storia nulla di ciò che è avvenuto dev’essere mai dato per perso”». Neppure la cosiddetta pazzia di una donna sventurata ansiosa di riscatto è andata perduta per sempre. La letteratura fa di questi miracoli quando scruta la figure in controluce e le proietta oltre la transitoria casualità del concreto quotidiano.

*Roberto Barzanti, scrittore