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‘Malavecchiaia’: stereotipo di adulti e figli giovani

Chi ha paura di invecchiare? Sicuramente gli anziani: meglio, gli adulti; ma anche i figli più giovani

Nella teoria della relatività non esiste un unico tempo assoluto, ma ogni singolo individuo ha una propria personale misura del tempo, che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo

(Stephen HAWKING)

Chi ha paura di invecchiare? Sicuramente gli anziani: meglio, gli adulti; ma anche i figli più giovani. Accomunati – magari, pregiudizialmente –  dalla stessa prospettiva di precarietà, che si attaglia all’apicalità dell’arco di vita. Non è, invece, così per i nonnini più attempati: soprattutto, se autonomi e seguìti in famiglia.  Sono le conclusioni di una recentissima ricerca di psicologi e sociologi dell’ateneo patavino (tra i quali: Alberta CONTARELLO e Diego ROMAIOLI): Eccezioni alla regola. Rappresentazioni sociali dell’invecchiamento nel contesto italiano contemporaneo. Studio, editato a Bologna per i tipi de’ il Mulino. 

I ricercatori hanno voluto accertare se a condannare l’invecchiamento sia particolarmente lo stigma di inefficienza – eufemisticamente detto: biologico –  che vi si lega. Insomma, lo studio ha inteso stabilire se l’equazione anzianità=decadimento è davvero uno stereotipo piuttosto che la conferma di un dato di realtà. E questo, alla luce della dibattuta questione-terza-età.

Adultità si è definita, distinguendola dalla yo-yoisation (neo-giovanilismo). Quest’ultima, connotata da una sorta di gioventù-anziana, caratterizzata, infatti, da un prolungamento socio-culturale della gioventù, ma con fenomenologia tipica dell’età adulta. Un mix fluido di comportamenti giovanili, in parte frustrati e inibiti, però, da un’assenza di prospettive tipiche della maturità, soprattutto in tema di lavoro; organizzazione dei tempi; capacità economica; dinamiche domestiche; autonomia residenziale; genitorialità. Novità, che hanno costretto i giovani a trasformarsi in autocostruttori di un proprio avvenire, saltate ormai – con la crisi economica globale; con l’inevitabile sottomissione a nuovi imperativi sociali e con l’adesione poco spontanea a nuovi modelli collettivi di sub-cultura mondialista –  le tradizionali forme del passaggio rituale dalla gioventù alla maturità. Un quadro, abitualmente marcato dalla progressiva realizzazione di condivisi disegni di affrancamento soggettivo dalle famiglie di origine, per l’ancoraggio a personali moduli domestici e gestionali, possibili grazie all’individuale capacità di creazione reddituale. Per cui, sopraggiunte forme di precarizzazione ad ampio raggio e a diversi livelli hanno aggredito scontati progetti di realizzazione del giovane, consegnato improvvisamente ad una maturità del tutto differente dal passato e inusualmente incerta. Insomma, l’emergere di una generazione sociale contrapposta alla più realistica generazione esistenziale: rappresentazione vs/ antichità.  Nel senso di quella nozione, cara al sociologo KARL MANNHEIM, di generational unit ovvero sistema del ciclo di vita, composto di diverse unità; sfaccettature; gruppi di persone, che, pur condividendo la stessa coscienza o rappresentazione sociale, reagiscono in modi distinti a seconda delle differenti posizioni sociali. Tanto da sfumare i confini giovane-adulto sulla dimensione autonomia-dipendenza, confondendone le doti, perché inadeguate a descrivere l’avvenuto forzoso détour da certezza del futuro a nebulosità del presente, peraltro da gestire ogni giorno, quest’ultimo, quasi sempre in forme originali, ha spiegato ANTONELLA SPANO’ in Dibattito sul corso di vita (‘2019) su “Quaderni di Sociologia”.     

Perciò, come non richiamare alla memoria la celeberrima tela del Giorgione: Le tre età dell’uomo (1501)? E’ conservata a Firenze nella Galleria Palatina. Probabilmente, la versione dell’A. della stessa persona nelle tre distinte stagioni della vita. Al centro un adolescente con nella mano un foglio annotato con un pentagramma, da cui l’alias dell’opera, altrimenti nota come Lezione del canto; poi, guardando sulla destra un uomo maturo, che forse interloquisce. Infine, sulla sinistra, un anziano che sembra piuttosto rivolto all’osservatore. Per dirgli, che so?: “Tu, che guardi da lontano, non pensi poi di ritrovarti così?!” Quasi un monito contro la parabola fisica dell’arco di vita? Comunque la terza età è da decenni problema nazionale, rilanciato oggi da almeno tre evidenze sociali inerenti la stagione di crisi: economica; occupazionale; demografica. Un quadro di inquietudine e preoccupazione diffuse, che marcano, però, sostanziali differenze rispetto al passato: quando non si riconosceva ancora all’anzianità – con i soliti profili di debolezza –  anche il positivo salto in avanti dell’età. L’Italia è solo di una spanna, infatti, sotto al Giappone sul podio di Paese più longevo. Con vecchini, adesso pure più sani, per certi versi. Se non casserà tutto la riflessione demografica sui saldi della popolazione dopo la pandemia. Rimane, però, la letteratura monografica a confermare che alla terza età (adesso più ampia, con estremi tra 60 e 70 anni) si aggiungono come mai prima una quarta (di 70-90nni) e l’eccezionalità della quinta età di over 90. Quel che alimenta – va chiarito –  interrogativi su un invecchiamento, quando non apprezzabile come risorsa, inevitabilmente disturbante quanto ad investimenti; fungibilità; efficienza; competizione; attenzioni. Temi, invero, che già agli inizi del ‘2000 sollecitavano l’Organizzazione Mondiale della Sanità a campagne di informazione sulle cosiddette “piramidi della vita”, interpretandone i bisogni secondo programmi in grado di coniugare azioni politico-economiche con nuove risposte psico-sociali. E al successivo indebolimento di tali interventi è seguita immediatamente un’iniziativa dell’Ue con il programma “Horizon”. Occasione, per condurci nel presente ad una ridefinizione teoretica dell’invecchiamento come “ageism” (cfr.: Theodor Holm NELSON, ultraottantenne sociologo americano). Inquadramento, possibile con la leva di tre dimensioni nella percezione sociale della vecchiaia: genere; etnia biopolitica; età. Con quest’ultima categoria, socialmente la più diffusa; la più accettata e la più radicata. Tanto – rimanendo nella considerazione ageista –  da scrutinare i Paesi più caldi (spessissimo i più in sofferenza) come aree sociali in cui è quasi pervasivo lo stigma di vecchiaia zavorra, pur senza nessuna evidenza scientifica. E non cambia nemmeno se ci si affida alla cornice teorica dell’identità sociale, capace di integrare la variabile dell’arco di vita. In qualche modo, la messa in campo di un tentativo di mitigare il rigido schema protoageista (chiaramente biologista). Ma anche con la sussidiaria identità sociale non va meglio, nel senso che – ribadisco –  la declinazione benessere, lo stereotipo sulla salute dei vecchi, non risulta cassato, non viene superato. Ve lo ricordate il Giorgione di poc’anzi? 

Tutto confermato altresì nella più recente formulazione healthspan, ovvero della distanza tra estremi cronologici (durata), saggiata secondo la variabile salute. Novità, introdotta da una ricerca clinica della Stanford University, apparsa su Nature Medicine, in cui si classificano gli anziani in quattro ageotipi, tutti connessi a verifiche epigenetiche (trasmissibilità ed ereditarietà genica anche dal contesto ambientale) sulla relazione fisiologia-qualità di vita. Si individuano, perciò, le discriminanti: metabolica; immunitaria; epatica; nefrologica, che predisporrebbero a non-deterministiche condizioni di invecchiamento; dunque, con un malcelato, ineliminato stereotipo sulla vecchiaia come malanno. D’altronde, Umberto Eco nel ’93 vaticinava: «Si può fare l’ipotesi che lentamente l’età della morte si sposti verso i duecento anni. La cosa presenterà numerosi problemi, perché – qui l’illuminante giudizio del compianto semiologo bolognese –  tra gli ottanta e i duecento anni saremo vittime di chissà quali malattie inedite, a cui ci si dovrà lentamente abituare attraverso una graduale immunizzazione». 

Come liberare, quindi, l’invecchiamento dall’asfissiante declinazione della salute malferma? Proprio la risposta cercata nell’indagine psicosociologica degli accademici padovani qui recensita. Obiettivo, perseguito anche con l’adozione di una metodica da storytelling. Una formulazione, capace di scoprire, cioè, tramite colloqui diretti, esperienze narrative o suggerimenti propositivi o comparazioni soddisfacenti una ristrutturazione concettuale ed esistenziale di un invecchiamento non-traumatico. Incipit dell’indagine di A. Contarello & Romaioli è, appunto, la constatazione che la teoria dell’identità sociale, rafforzata dall’attenuante ageista, apre al fattore autostima da parte degli anziani, ma sempre lungo l’asse dei processi di continuità esistenziale; differenziazione fisio-psichica e personale; confronto sociale e temporale: tutti, ipotetici oneri simil-biologisti a carico di chi, anziano, li utilizzi per rapportarsi a condizioni, solo presuntivamente, comparabili con la propria. La scelta, perciò, degli autori di sollecitare storie alternative di vecchiaia meno problematica, direttamente riferite, abbozzate, riannodate nei colloqui di case study. Utilizzati all’occorrenza due strumenti euristici: a) il parametro socio-costruttivista, per la comprensione – con calcolo lessicale pressoché oggettivo – di significati condivisi del campione; b) la dimensione pragmatica, per propiziare cambiamenti socio-culturali nei cluster considerati. 

Operazione, consentita dal ricorso alla teoria delle rappresentazioni sociali, offerta dall’omonimo trattato del compianto sociologo franco-romeno Serge MOSCOVICI, il babbo dell’economista Pierre, già presidente Ue. Questa teoria ritiene che un tessuto transitivo di credenze condivise – sulla cui base (individuale ed interpersonale) si fondano pregiudizi, atteggiamenti, istituti ecc. –  cooperano, implementandosi in codici di comunicazione e di relazionalità all’interno di gruppi più o meno stabili ed omogenei. Come se l’ordinaria dialettica del vissuto disegni piattaforme opzionabili di accordo socio-culturale di comunità, per condividere strategie sociali ed interpretazioni della quotidianità. Si può citare semplicemente la Bildung e la Kültur? Una conclusione, che consente – sottolineò S. MOSCOVICI –  di capire, ad esempio, come si supera la paura dell’ignoto. Come? con il ricorso, appunto, ad ancoraggio ed oggettivizzazione. Il primo permette di superare la diffidenza, sostituendo virtualmente la persona ignota con un volto noto. L’oggettivizzazione aiuta del pari a conferire forme esperite all’ignoto. Va da sé che più un oggetto sociale è complesso, maggiori saranno le difficoltà nella configurazione sociale. Ne deriveranno controversie e scambi sostenuti, per conclusioni, comunque parametrate sul posizionamento particolare dei diversi attori, coinvolti nella rappresentazione sociale. 

Un decennio fa la ricerca di S. MOSCOVICI è stata integrata dalle conclusioni di un’osservazione della sociologa francese Denise JODELET, intenzionata a superare possibili angustie particolaristiche negli sviluppi moscoviciani. La Jodelet ha individuato distinti livelli di rappresentazione sociale. Un piano soggettivo, proprio del pensiero autoreferenziale; un piano intersoggettivo, tipico del confronto a più voci e un piano transoggettivo, che delimita il contesto delle interazioni e che trova significato nello spazio sociale.

Con questi riferimenti la ricerca degli accademici patavini ha preso le mosse per capire come viene costruendosi la rappresentazione sociale dell’invecchiamento (cfr. Moscovi, cit.); e ciò, a seconda dei differenti livelli interpretativi sociali (cfr.: D. Jodelet, cit.). Tanto, per enucleare contesti propositivi della rappresentazione dell’invecchiamento, facendo ricorso a scale di identificazione sociale del vecchino. Operazione, che ha coinvolto nello studio, con gli anziani, adulti e giovani, evidentemente inseriti nel contesto della crisi; anzi, tra le molteplici forme di svantaggio e debolezza sociali, pur senza esserne particolarmente bersagliate.  Almeno quattro i principali sentieri, battuti dall’inchiesta, volta a domandarsi: 1. C’è un prototipo condiviso, un idealtipo di invecchiamento? 2. Si individuano differenti accezioni di idealtipo a seconda delle quote cronologiche interpellate ovvero giovani, adulti, anziani? 3. Quali fattori, stili di vita, condizionamenti di contesto possono influenzare il pensiero sociale sull’invecchiamento (es.: orientamento politico; composizione del nucleo familiare, se con anziano a carico o meno; credo religioso ecc.)?; 4. Emergono alternative all’idealtipo, di cui al precedente punto 1., in modo da costituire nuovi trend di rappresentazione sociale dell’invecchiamento? Ciò, per contestare o piuttosto rilanciare quei modelli sedimentati di pregiudizio e stereotipo quanto a vecchiaia come malattia, decadimento cognitivo, isolamento, dipendenza da caregiver. Il campionamento si è concentrato su un target reddituale tradizionalmente non depresso; preferibilmente, in salute e con discreta relazionalità quotidiana. L’indagine si è, infatti, consegnata ad un’area (Nord-Est) del nostro Paese comunque tonica, nonostante differenti modalità di crisi nelle tre regioni considerate: Lombardia; Veneto; Emilia-Romagna. 68 i soggetti coinvolti nell’analisi (M n° 39; F n° 29), distribuiti su un arco di vita suddiviso tra 18 e 49 anni, a loro volta raggruppati in tre diversi cluster di età. Tra 50-74nni si è dato vita a due sottogruppi. In formazione compatta, invece, il campione dell’arco di vita sia degli over 85 che, in precedenza, dell’intervallo 75-84 anni. Nella prima fascia cronologica si è scelto di dar voce ad una stessa quota di giovani e adulti. Successivamente il cluster è stato definito con un minor numero di anziani; questi ultimi, maggioranza nella coda della citata graduatoria temporale. Al campione sono stati somministrati items, per lo più, diretti e dichiarativi, ma anche aperti, ancorati a vissuti reali o supposti. Il proposito è stato il conseguimento di veri e propri schemi di rappresentazione personale dei processi di invecchiamento. Ci si è arrivati pure tramite dialoghi chiarificatori, per definire ricostruzioni prive di annotazioni ridondanti, contraddittorie, opache, reticenti; in pratica, facilitando il campione nella descrizione, ma senza interpolazioni imperative e, dunque, con soli contributi esterni coerenti al racconto, ma disambiguanti. Perciò, le domande sono state formulate e proposte in modo da propiziare resoconti personali più o meno dettagliati ed esaustivi, stimolando negli intervistati riferimenti a situazioni di senescenza note o supposte. Successivamente, si è chiesto di associare le opinioni al quadro dell’invecchiamento, percepito personalmente come precarizzazione della salute; accresciuto disagio personale; turbamento familiare. Le interviste si sono svolte nel Dipartimento FISPPA (Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia) d’ateneo, a Padova. Ogni intervista ha impegnato per un’oretta. 80 ore la durata complessiva di tutto il materiale fonoregistrato, ma anche trascritto in versione digitale. Per scrutinare le risposte si è utilizzato il software IRaMuTeQ (acronimo di Interfaccia per le Analisi Multidimensionali di Testi e Questionari), adottato nel 1983 dal clinico Michael REINERT. Si basa sulla classificazione (graficamente evidenziata in un dendrogramma [riduzione visiva e rappresentativa di cluster]) delle risposte agli items secondo moduli  – detti: mondi lessicali –  composti da cooccorrenze di parole (ripetitività) e porzioni di testo misurati con il metodo del x² (che permette di accertare se la differenza tra due percentuali è casuale; e, se non lo è, di considerarla statisticamente significativa ovvero euristicamente consistente e tendenzialmente affidabile e realistica). Quel che fa stagliare i tòpoi ovvero – ci spiega M. Reinert –  le tracce lessicali, sottese al testo come espressioni o frasario latente, e gli stessi lemmi di un ipotetico vocabolario per la rappresentazione sociale dell’invecchiamento. L’armamentario così tratteggiato ha portato a ricavare, con il soccorso IRaMuTeQ, 5 diversi classi di piani semantici dei testi scrutinati dai ricercatori patavini. L’operazione ha permesso di acclarare, per ogni classe, le salienze lessicali. Sono state rintracciate con il metodo del x², volto a considerare, nel caso, i termini con un valore di probabilità, identificato con p < 0.5 ovvero con discreto tasso di significatività; cioè, con buona dose di approssimazione al vero.  

Di seguito le conclusioni classificatorie

Nella prima classe, che gli autori hanno definita della perdita e del decadimento, l’invecchiamento è stato connotato lessicalmente come fine delle opportunità; deperimento biologico; pensiero del fine-vita. E, contiguamente, gli intervistati, che hanno ammesso, in particolare, di avere pochi o nessun hobby, hanno insistito su una rappresentazione della senescenza come isolamento sociale; indisponibilità, anche quando solo limitata, di cura da parte dei familiari; repentino aggravamento della morbilità ecc. Si è constatato che alla classificazione – gerarchizzata statisticamente come prioritaria –   hanno per lo più concorso adulti e giovani (ovvero over35 e altri fino ai 64nni). Accomunati dalla riflessione prolettica sull’invecchiamento come stagione di preoccupazioni conclusive del ciclo di vita, pur se nessuno degli intervistati aveva esperienza diretta degli svantaggi opzionati per la classifica. Insomma, le considerazioni di questo campione sono caratterizzate sorprendentemente dalla presenza in famiglia o tra i conoscenti di anziani in salute. Il che ha mostrato una correlazione diretta buon invecchiamento e conoscenza di anziani più o meno sani. Opportunità, per anticipare – paura dell’ignoto? –  concettualmente e psicologicamente preoccupazioni non vissute.

Nella seconda classe, riconosciuta dai ricercatori come del dinamismo motorio, l’invecchiamento è stato interpretato dai resoconti in rapporto alla condizione di autonomia domestica e individuale e anche alla disponibilità di tempo libero, per lo più riempito dalla compagnia di familiari o conoscenti e da gratificanti attività spontanee e d’elezione. L’analisi quantitativa ha indicato negli adulti, ma soprattutto tra gli over85, la marcata tendenza a privilegiare questo segmento cognitivo del processo di senescenza. Si è appurato, inoltre, che ad agevolare nei più datati l’assegnazione a questa classe ha fondamentalmente concorso – grazie ad una visione complessivamente ottimistica –  il fatto che gli adulti intervistati stavano sostanzialmente bene e che coltivavano interessi amicali ed occupazioni volontarie.

Nella terza classe, identificata dagli autori della ricerca come della relazionalità familiare ed amicale, si sentivano parte operosa adulti positivi, reattivi, solidali e coinvolti. Soggetti, realmente propensi ad iniziative di altruismo, filantropia, prossimità, a conoscenza di coetanei in stato di disagio, solitudine, dipendenza personale. Accertata la prossimità di figli e nipoti come precipua caratteristica del campione molto anziano, auto inseritosi in questa classe di rappresentazione sociale dell’invecchiamento. A conferma praticamente della sostanziale convergenza nel profiling della classe tra contesto dell’opzione teorica dell’identità sociale e condizione reale dell’anziano

Per la quarta classe i ricercatori hanno scelto la nomenclatura di saggezza e consapevolezza: dunque, di fattori prevalentemente cognitivi. Difatti, la piattaforma identitaria della sezione è stata costruita per lo più su emergenze mnestiche; perdita o impoverimento dell’udito; incertezze motorie; farmacodipendenza o quasi; generici deficit dell’età. Il campione ha messo a nudo soggetti realmente in difficoltà, non specialmente economiche; molto religiosi; propensi ad una lettura bipartita della realtà, pur tendenzialmente orientati a considerare la metà piena del bicchiere mezzo-vuoto.

La quinta classe gli studiosi di Padova l’hanno definita del privilegio e delle incertezze. Così i soggetti riconosciutivisi – in prevalenza, tra i 50 e i 64 anni; con figli in età produttiva ed occupati; anche, scarsamente coinvolti in eventi religiosi –  hanno configurato un invecchiamento che sia al riparo da malanni, cronicizzazioni e scarsità di risorse economiche; insomma, pienamente incapsulato in un’area securitaria. Si tratta di adulti, poco sensibili al richiamo di fede, determinati nell’apprezzare una vecchiaia come privilegio, che non sia compromesso, quindi, da insufficienti disponibilità economiche, inconsistenza del caregiver domestico o dell’interessamento amicale, mancanza di autonomia motoria. Il campione di quest’ultima classe mostra di guardare con preoccupazioni di natura eminentemente biologica alla vecchiaia. Ad essa tende, infatti, ad associare il destino, stimato ingrato, dei giovani nella prospettiva di una dura senescenza; perciò, in ansia per una futura condizione di complessiva fragilità, aggravata da una crisi persistente, perché ancora attuale. Si rileva una situazione analoga a quella descritta nella prima classe: più che paura dell’ignoto, pessimismo non giustificato da contesti personalmente esperiti nell’attualità, ma soltanto ipotizzati e precauzionalmente esorcizzati. Valutazioni in chiaroscuro per la configurazione sociale dei processi di invecchiamento: qui come nelle descrizioni della prima e della quarta classe.

Nelle interpretazioni a consuntivo dell’inchiesta, gli autori invitano ad enucleare alcune emergenze. Ad esempio, i soggetti più vecchi si mostrano più positivi. Sia rispetto agli anziani, i quali si basano su considerazioni di prospettiva per prefigurare uno statuto della senescenza. Ma anche in rapporto agli adulti, che argomentano in maniera astratta e secondo princìpi, culturalmente sedimentati, più difficilmente aperti a giudizi meno deterministici e, pertanto, favorevoli ad una vecchiaia non più zavorra se non propriamente risorsa. Gli anziani, scrutinati come più preoccupati, per lo più, non hanno figli né nipoti. Anche se nella quarta classe si intuisce un campione più orientato alla vecchiaia come sfida, perciò rappresentando una novità di un certo interesse sociologico. Le rilevazioni – è vero –  marcano condivise considerazioni per una vecchiaia come decadimento, ma soprattutto per colpa dell’Alter ovvero di quel Sé introiettato come costruzione di un giudizio in rapporto a ciò che terzi pensino che io debba ritenere. Ciò nonostante, questa stessa cornice di pensiero condizionato non riesce a strutturarsi in un’aneddotica ben organizzata e logicamente consistente, inchiodando le considerazioni a meri point of view, magari riconosciuti eccezioni negative ad una regola di rappresentazione favorevole dell’invecchiamento. D’altronde, più ci si imbatte in anziani deboli più si ipostatizza un invecchiamento positivo come rappresentazione sociale, sempre per quella tensione anticipatrice di scenari desiderati. Per contro, tra i giovani, l’ottimismo nella configurazione sociale della senescenza è quasi sempre connesso ad esperienze dirette di vecchini positivi nel proprio nucleo familiare. Però, anche in questo quadro le narrazioni si connotano come opinioni personali, ipotesi particolari e giustificate, senza guadagnare un livello di aneddotica alternativa ben strutturata. Conferma di un autodafé o quasi, proclamato dall’Alter, che restringe ad opinabilità una basica stima cognitiva. Certo, gli autori non negano che la metodologia dell’analisi gerarchica discendente per classi, appunto, può viziare la neutralità formale della rilevazione quantitativa. Ciò a causa della parzialità della stima lessicografica, di necessità rigida nell’operativismo del metodo, utilizzato dagli studiosi. Quel che può portare ad una perdita di sfumature narrative e, conseguentemente, a possibili forzature ermeneutiche delle rese testuali del campione esaminato. Ma il ricorso al p< ovvero allo statisticamente significativo dopo verifica probabilistica, con il x² autorizza conclusioni fondate. Che invocano, però, soluzioni alla vexata quaestio di una rappresentazione sociale anziana tradizionalmente e fortemente biologista. Che fare? Concludono gli autori della ricerca. A giudizio dei quali, occorre una svolta assiologica, possibile accrescendo l’acquisizione di storie positive di invecchiamento. Al fine di moltiplicarne l’eco, disseminando tali narrazioni in milieu sempre più credibili. Perché, scriveva Marco Tullio Cicerone (De senectude, VI 229): «I vecchi conservano vivacità intellettuale, purché persistano in loro interessi ed operosità». Difatti, cos’è più vero oggi, a prescindere dall’affidabilità dell’Ageing Society? Basta rimuovere lo stereotipo, chiosano nella summary alla ricerca gli autori. Non una cosina da nulla, conoscendo le scorie, che finiscono nella costruzione di un’identità sociale o di una rappresentazione sociale. Ma questo non può essere un gravame per l’inchiesta. “Sapere sociologico e sapere di senso comune si differenziano solo per il diverso tipo di organizzazione delle conoscenze”, ha osservato Emanuela MORA in Comunicazione e riflessività. Simmel, Habermas, Goffman, Milano, Vita & Pensiero 1994, pag. 22. Dunque: «(…) gli attori sociali, intendendosi su qualcosa in un mondo, prendono contemporaneamente parte ad interazioni, mediante le quali  – ribadisce Jürgen HABERMAS in Teoria dell’agire comunicativo –  formano, confermano e rinnovano la propria appartenenza a gruppi sociali, nonché la propria identità». Quale identità? Solo qualche mese fa nel più grande meeting antiaging d’Europa, ospitato a Roma, queste le conclusioni (Panorama anno LIX, n° 14, p. 62) di Antonella Di LEO, ceo di Wise Society: «I giovani in salute oggi saranno adulti e anziani più sani domani, con ricadute positive per tutti, non solo a livello sanitario, ma anche socio-economico». Tutto vero, tutto giusto… secondo la scontata declinazione biologista della terza età contro cui congiura in Italia l’aumento concentrato da record europeo di ingravescenti comorbilità, causa di una scadente qualità di sopravvivenza. Ed è proprio questo paradigma efficientista che la ricerca degli studiosi di Padova ha sviscerato, ma che opportuni aggiornamenti impongono di convertire da dimensione sanitaria in considerazione più latamente socio-culturale. Con ciò davvero si riuscirà ad assegnare alla vecchiaia un patentino verde di valore sociale più che un fascicolo sanitario di cronicità. Secondo le risposte, oggi fornite  – in base alle procedure del crowdsourcing –  da strumenti telematici (piattaforme digitali) di sviluppo collettivo di un progetto, in grado di profilare scenari accurati e tempestivi su dinamiche sociali di vasto interesse. 

Dribblando, ad esempio, le conclusioni, magari stupefacenti, sulla funzione della cura e sulla consistenza della morte, fatte proprie dal pensiero filosofico più prospettico. Come nel caso di HANS-GEORG GADAMER in Dove si nasconde la salute (Milano 2014). Momento, per sancire l’inaccettabilità del salto qualitativo (iperspecialistico e disorganico nel giudizio dell’ermeneutica gadameriana), che il metodo scientifico, propriamente cartesiano, avrebbe imposto al progresso attuale della medicina, tanto da allontanarla dalla cornice cosiddetta umanistica, precipitandola, specialmente nell’area psichiatrica  – condanna senza appello di H. G. GADAMER –   ad una deriva prassologica: solo tecnica ed esperienza, avulse, cioè, dalla tradizione clinica ed accogliente. Quel che produrrebbe, stando al pensiero gadameriano, la considerazione della morte come prolungamento della vita in altre forme, determinando sul fine-vita solo pensieri di affanno e tormento, magari da proporre alla consolazione della religione. Questo, perché si riporta l’uomo unicamente al suo corpo, espungendo apprezzamenti di autenticità nel comportamento e di originalità nella riflessione: tratti, evidentemente dell’essere umano, non dell’animale. Come tali da vagliare olisticamente, rinunciando al particolarismo scientista e alla definitorietà aristotelica, chiosa GADAMER, per denunciare la contraddizione tra la missione operativa della scienza e la fallacia di trattarla solo come metodo, pratica esperienziale. 

Insomma, una severa censura, pionieristica, anche di quel “biologismo”, che, nella ricerca sociologica qui presa in esame, discriminerebbe il ciclo di vita (le stagioni concettuali dell’età anagrafica) tra autoconsapevoli delle proprie condizioni di salute e naufraghi del destino ovvero i più dubbiosi nel prefigurare il domani della terza età.

*Paolo Rico, scrittore