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Lo specchio di Luigi Pirandello: attualità di “Uno, nessuno e centomila”

Cosa portava sempre con sé Luigi Pirandello? Aveva una sterminata possibilità di scelta tra i numerosissimi ospiti delle duecentoundici “Novelle per un anno”, gli indimenticabili personaggi teatrali delle “Maschere nude”, le figure centrali dei propri romanzi, dall’esclusa Marta al bibliotecario redivivo Mattia Pascal, dal cameraman Serafino Gubbio al banchiere Vitangelo Moscarda.

Ebbene, nella tasca della giacca, nelle valigie da montare in treno o in nave, nella cartellina da viaggio, pare non mancasse l’inseparabile libro “Les altérations de la personnalité” (1892) di Alfred Binet: lo psicologo francese, collegato a Henri Bergson, a Georg Simmel, spiegava come il soggetto e il reale risultassero deformati, frammentati in spazi combattivi, distinti, individuali. Di sicuro, presupponendo la teoria di Sigmund Freud (non sappiamo, però, se il drammaturgo siciliano possedesse notizie dirette a riguardo) e il conseguente scomporsi dell’Ego, l’universo di trama-intreccio del repertorio pirandelliano potrebbe coincidere con un maturo, coerente esito poetico della psicoanalisi, proprio allora ricca di brillanti scoperte. 

Tuttavia, l’interesse di Pirandello per la psicofisiologia del tardo Ottocento, incline a una dimensione grottesca, evoca un’originalissima comunità coraggiosa, afflitta da un “essere-apparire” spietato, all’altezza di indurla, a volte, a un cristallizzarsi passivo a favore del relativismo conoscitivo. Oppure, come accade al protagonista Moscarda, soprannominato Gengè, del romanzo “Uno, nessuno e centomila”, l’unica via di scampo, per evadere dalla gabbia di una continua finzione, sembra consentita dalla follia: non in forma velleitaria, né grandiosa, ma vissuta nella ribellione solitaria, totale, di un ospizio, dichiarato incapace di intendere e di volere. Nondimeno, tale famiglia umana è lontana da qualsiasi eco di immobilità stantia o patologica, riflessiva, magari sentimentale: essa è immersa altresì in un potente, affascinante flusso vitalistico il quale prende possesso della salvifica scissione (imposta o spontanea) rendendola energica, carnale, direi alternativa, non in oziosa chiave intellettuale o di cliché. 

Poco frequentato da cinema, radio, televisione, di “Uno nessuno e centomila” ricordiamo notevoli audio-book, la lettura di Veronica Salvi a RadioRai nel dicembre 2014 e il reading collettivo davanti alla villa romana di Pirandello (situata in una traversa della Nomentana), animato, nel 2015, da una trentina di studentesse in una maratona notturna. Libro in mano, le giovani lo hanno recitato in circolo, camminando in fila ordinata, in una cornice di fantasia ricalcata sulle “lezioni all’aperto” inventate dallo sceneggiatore Tom Schulman per il professor John Keating nel film “L’attimo fuggente” di Peter Weir. 

Limitando i richiami al teatro degli ultimi anni, Giuseppe Manfridi lo rielabora nel 1997 per l’attore Flavio Bucci: ma lo spettacolo è limitato nelle repliche a causa della diffida dei cugini Maria Luisa e Pier Luigi, nipoti ed eredi dei diritti pirandelliani. Nel 2016 Annig Raimondi, con la Pacta, allestisce un singolare progetto registico annettendo la mise en scène a un training riabilitativo assieme al Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale di Lodi. Uno degli ultimi esiti consiste nell’one man show di Enrico Lo Verso con adattamento e regia di Alessandra Pizzi, in una lunga tournée partita nei mesi conclusivi del 2016, nella ricorrenza degli ottant’anni della morte dell’autore.

La prima bozza del romanzo risale al 1909, annunciata in completamento per il 1910: in una missiva a Massimo Bontempelli, l’opera, definita «più amara di tutti, profondamente umoristica, di scomposizione della vita», è chiamata “Moscarda uno, nessuno e centomila”. Promesso per il 1913 a “Nuova Antologia”, il testo propende non tanto per l’«uno», quanto per il «nessuno». Slitta così in un angoscioso “frantumarsi” del divenire con la pubblicazione nel 1915 nella rivista “Sapientia” in pochi brani intitolati “Ricostruire”

Nello stesso anno il figlio Stefano, volontario nella Grande Guerra, viene catturato; l’anziana madre Caterina Ricci-Gramitto è da poco deceduta. La moglie Antonietta Portulano aveva cominciato a soffrire di gravi crisi nevrotiche di gelosia, accusando il marito di coltivare sentimenti illeciti per la figlia Lietta, poi allontanata dalla famiglia. Allorché la follia, con allucinazioni sdoppianti, avanza impietosa nell’alternarsi di albe in tramonti, l’autore conserva nel cassetto, immutato, il brogliaccio incompleto. Lo affronta nel 1916, trascurandolo sino al 1917 quando, riprendendolo in mano, aggiunge e corregge un po’ ovunque come, magari, vorrebbe sperare di fare con i problemi del momento. 

La rete di sdoppiamento o negatività, rafforzata da se stessa in un analogo iter di crescita, prosegue ancora a febbraio del 1919, nell’intervista al “Messaggero della Domenica”, dove leggiamo: «Sto ora ultimando un romanzo che avrebbe dovuto uscire prima di tutte le mie commedie. Si sarebbe forse avuta una visione più esatta del mio teatro». Un’esigenza giusta, al contempo – è ormai in effetti la norma – smentita in unità contraddittorie del vero, poiché, nel 1922, il testo rimane, nella realtà, inedito. Nel settimanale “Epoca”, Pirandello addirittura afferma: «Avrebbe dovuto essere il proemio della mia produzione teatrale e ne sarà invece quasi un riepilogo». Permette però al critico Adriano Tilgher di consultarne le bozze mentre, in una lettera all’attore Ruggero Ruggeri, stimandolo interprete ideale del suo repertorio, confessa di trovarsi impegnato nella stesura della pièce “Tutto per Bene”: «Vuol dire che metterò da parte il romanzo che sto per finire, “Uno, nessuno e centomila”, promesso per il prossimo gennaio al Bemporad, e scriverò la commedia». 

I brani dati alle stampe nel ’15 confluiscono, con alcune modifiche, nei capitoli VI-XI della stesura ufficiale del 1925, quando sarà divulgato – a puntate, forse per non “smentirsi”, in una organica dis-unità – nella “Fiera Letteraria”, con un appassionato commento del figlio Stefano. La lotta tra il bianco della carta e il nero dell’inchiostro della Underwood standard portable typewriter terminerà, at least, nel volume stampato nel 1926 (con dedica autografa a Marta Abba: «Una e unica»). 

 Da ragazza, a essere sincera, ho confuso il tragitto frastagliato della scrittura pirandelliana di questo romanzo interpretandolo quasi fosse disinteresse, dimenticanza, trascuratezza: anzi, citando una celeberrima novella, semplice distrazione. In breve, comunque, la riconobbi – anticipata nel titolo – come indizio di un risoluto messaggio costruito per confutare le categorie globali dello svolgimento fenomenico, del pensiero: insomma, coincidente con una sorta di presenza ossessiva del lavoro vasto o scandito (in genere, assai sistematico) di Pirandello; quasi egli volesse, lasciando l’opera incompiuta, moltiplicarla in abbondanti stralci di immediato scambio, da destinare a componimenti ulteriori, con il risultato di potenziarne la diffusione assegnandola a vari insiemi narrativi e non a uno solo. 

D’altro canto, l’intento era di svuotare la struttura logico-semantica sino a bloccarne l’indipendente esistenza materiale, l’impatto ispirativo originale. A costituirne la prova sono i duecentoventi – non proprio “centomila” – foglietti manoscritti su pagine quadrettate, con abbozzi, episodi eliminati, o spesso dirottati sull’orizzonte di nuove storie, in una pratica di “travaso” contigua all’“auto-citarsi”. In un genuino gioco delle parti, i “foglietti”, simili a “foglie” di un albero, a decine e decine, entrano ed escono nel mosaico al pari di tessere selezionate lungo diversi itinerari creativi. 

Nell’ottima edizione uscita nel 1994, Giancarlo Mazzacurati lo valuta un «più o meno consapevole esperimento di autoterapia». Del resto, Luigi Pirandello ha precisato: «In questo romanzo c’è la sintesi completa di tutto ciò che ho fatto e la sorgente di quello che farò». Detto dal Maestro, non credo, con immenso rispetto, sia troppo attendibile. Il primogenito Stefano, in occasioni ripetute, suggeriva al padre: «Non hai scritto un libro, hai esercitato il tuo spirito, come in atti di vita…», e poi: «Certo, è stato per quindici anni un rifugio del tuo spirito. Per carità! Un rifugio di pace? Rifugio tormentoso. Anche evitato, talvolta, e temuto, lo so». 

Nella mia esperienza privata di lettrice prima e studiosa poi di Pirandello, non dimentico una versione di “Uno, nessuno e centomila” dell’editore Bemporad cercata in biblioteca, dove avevo letto le righe di esordio delle traversie in agguato ai danni di Moscarda: 

«Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. 

«Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.» 

Mia moglie sorrise e disse: 

«Credevo ti guardassi da che parte ti pende.» 

Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: 

«Mi pende? A me? Il naso?» 

E mia moglie, placidamente: 

«Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.»

Da lì, il futuro del protagonista, snaturato da un «dolorino» nella narice, mi sconvolse non poco, nonostante avessi seguito, nel saggio “L’umorismo”, per mezzo di quel dettaglio anatomico del viso, un viaggio nel labirinto di vari tragitti incrociati, tramite i quali erano rinnegate, potenziate, o forse impoverite, le consuetudini avvalorate dalla routine obbligata. La vicenda complessiva del naso irregolare, all’improvviso fatale nell’agiata società siciliana, per un periodo non breve causò in me, comunque, un discreto disorientamento nel sostenere qualsiasi “doppio” speculare: mostrandomi per altro convinta dell’eccezionale ricchezza, nonché impazienza della biografia “mentale” dello scrittore, propenso a rielaborare e travasare, non a ritardare, né ad iniziare da capo. 

Oggi, vivendo i tempi maturi e complessi del sistema dei mass-media, denso di controlli tormentosi sul look individuale, riconosco come il reale odierno sia spietatamente sintomatico delle intuizioni pirandelliane, dalla moda dei selfie su Facebook alle immagini di Instagram, dal fanatismo visibilista dei social all’invasione televisiva di volti più o meno noti.

Compiendo un passo indietro nelle epoche, nel “Trattato della pittura” del 1436, Leon Battista Alberti sintetizzava la teoria della prospettiva su alcuni fondamenti della visione. Ai pittori contemporanei, il geniale architetto e umanista consigliava di porre le opere dinanzi a uno specchio, allo scopo di appurarne la bontà: l’artista, infatti, “familiarizzava” a tal punto con il prodotto ultimato da non essere più in grado di scrutarlo con occhio obbiettivo, “estraneo”. Osservare il quadro “sdoppiato” in una superficie riflettente è rimasto a lungo costume dei pittori, intenti a indagare sul rigore o la perdita della simmetria, ad accertare l’esattezza del centro prospettico, a scovare eventuali vizi di misura, colore, chiaroscuro. 

La fisionomia “restituita” dal riflesso contamina arbitrariamente la figura: se diseguale, ne accentua anomalie, sproporzioni, asimmetrie, rovesciando la situazione alla quale lo sguardo è incline; al contrario, se il disegno è ben attuato, l’inversione non lo modificherà: «Saratti a conoscere buono giudice lo specchio», asseriva il saggio Alberti, «cosa meravigliosa come ogni vitio della pittura si manifesti difforme nello specchio».

In età moderna, la coscienza dell’Ego posseduta da Vitangelo Moscarda viene annientata ex abrupto da una scoperta accidentale e catapultata in una crisi gravissima. Specchiandosi, viene persuaso, grazie a un insignificante difetto fisico – un naso non “uniforme” – dell’autorità immensa dei resoconti concreti proiettati dall’“Io” all’esterno: antagonisti, nemici insidiosi di noi stessi. 

L’apparenza del protagonista, sempre corrisposta di sé, non aderisce in realtà agli innumerevoli suoi profili osservati dalla gente. Ciascuno lo coglie in un’angolatura speculare intima, distinguendone tratti inediti. Lontana dal fornire una dimensione ontologica accrescitiva sul “lato nascosto”, il moltiplicarsi di zoom (per utilizzare un lessico tecnico-fotografico) disgrega l’individuo, innescando il terrore della precarietà e del caos: l’«uno» cede il posto a «centomila» che, invece di costituire un fattore moltiplicante, tende al «nessuno». 

Nella sterminata novellistica pirandelliana spuntano qua e là requisiti fisiognomici di scarsa rilevanza, come il leggero strabismo di Mattia Pascal, all’altezza di inserire un risvolto sconosciuto, ignoto, della personalità in campo. In una prospettiva più ampia, Blaise Pascal scriveva nei “Pensées”: «Il naso di Cleopatra: se fosse stato più corto, tutta la faccia della Terra sarebbe cambiata»; un episodio del “Tristram Shandy” di Laurence Sterne, circolato nell’Italia dell’Ottocento nella traduzione di Carlo Bini, portava il titolo “Il naso grosso”; infine, segnale di una classica risorsa umoristica è il racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol’ “Il naso”

Ricordo in chiusura alcune solenni battute del protagonista: 

«M’ero creduto finora un uomo nella vita. Un uomo, cosí, e basta. Nella vita. Come se in tutto mi fossi fatto da me. Ma come quel corpo non me l’ero fatto io, come non me l’ero dato io quel nome, e nella vita ero stato messo da altri senza mia volontà; tant’altre cose m’erano state fatte, date da altri, a cui effettivamente io non avevo mai pensato, mai dato immagine». 

E poi: 

«La storia della mia famiglia nel mio paese: non ci pensavo; ma era in me, questa storia, per gli altri; io ero uno, l’ultimo di questa famiglia; e ne avevo in me, nel corpo, lo stampo e chi sa in quante abitudini d’atti e di pensieri, a cui non avevo mai riflettuto, ma che gli altri riconoscevano chiaramente in me, nel mio modo di camminare, di ridere, di salutare». 

Ora, purtroppo, considerata l’emergenza mondiale, è giusto concludere i nostri ragionamenti guardando noi stessi allo “specchio” di oggi: lì, di fronte all’immagine riflessa, dovremmo cercare con tutte le forze di cancellare il termine di “nessuno”, tentando – nella lotta contro il male – di passare a ogni costo da “uno” a “centomila”. E anche più.

*Ringrazio Adriano Camerini per collaborazione alla stesura del testo.

*Cinzia Baldazzi, critico Letterario, Teatrale e Musicale