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Le due Napoli

Le due Napoli è un saggio di Domenico Rea incentrato su Napoli, e in particolar modo su come (e in che modo) viene raccontata la città dagli scrittori napoletani (ma non solo). La riflessione prende avvio da una impossibilità di fondo che attanaglia ogni scrittore intenzionato a scrivere di Napoli, perché il rischio di cadere nel folkloristico è forte. Ma, soprattutto, secondo Rea sono frequenti le narrazioni che tendono a rappresentare una città macchiettistica, con toni consolatori e soprattutto lontani dalla realtà quotidiana di molti napoletani. I loro drammi, le loro problematiche non vengono quasi mai raccontate, perché raramente gli scrittori sono scesi davvero nelle viscere della città. A questo punto Rea inizia a citare diversi autori, a partire da Salvatore Di Giacomo, il quale avrebbe adoperato, nei suoi testi, un napoletano patinato e oltremodo artificiale. Infatti Rea fa notare che Di Giacomo ha il vizio di avvicinare il suo dialetto all’italiano, resta fedele a un canone lirico toscaneggiante anche quando scrive in dialetto napoletano: le sue parole sono quelle utilizzate dalla buona borghesia napoletana e sembra che lui abbia paura di creare un mondo autenticamente dialettale. Successivamente Rea ricorda che nelle altre letterature dialettali è avvenuto tutto in modo efficace, sia con Carlo Porta a Milano che con Giuseppe Gioachino Belli a Roma. Ma a Napoli Salvatore Di Giacomo “non si vuole sporcare”, tant’è che anche le donne descritte da Di Giacomo non hanno nulla a che vedere con le realtà derelitte della città, anzi: Rea afferma che sarebbe un errore ritenere che quelle donne fossero popolane. Tutt’altro: per Rea le donne di Di Giacomo sono tutte timorate di Dio, vittime dell’uomo e traditrici. Donne che non credono in sé stesse, donne che non alzano la testa. La popolana napoletana ha paura di restare sola e quindi si sposa per evitare di rientrare nell’umiliante categoria di zitella. Nonostante la mancanza di lavoro le famiglie sono numerosissime e i figli vengono sfornati come fossero pizze. Un altro contributo discutibile è stato dato da Matilde Serao, che secondo Rea ha offerto, ne Il paese di cuccagna, un ritratto della miseria alquanto fedele, ma il suo volume più riuscito è Il ventre di Napoli, dove è riuscita a denunciare in modo aggressivo e giusto le istituzioni accendendo i riflettori sugli ultimi. Ma non è stata capace di rendere le cose nude e crude come fece Verga. Un altro bersaglio di Domenico Rea è Eduardo De Filippo, che con Napoli milionaria fa ridere invece di far riflettere, riprende i bassi napoletani senza consentire a chi ci vive di riscattarsi, irrobustendo ulteriormente il divario tra noi e quelli del Nord, che concepiscono quel pathos drammatico come segno di inferiorità. I forestieri, inoltre, sono sempre legati a quell’immagine vivace e allegra della città, ed è pronto a servirsi dell’allegria dello scugnizzo napoletano, lo fa cantare fin quando non lo liquida pensando che con la spensieratezza napoletana non si mangia. E il napoletano resta solo e altrettanto misero, una condizione che gli autori, finora, non hanno mai descritto. Una solitudine abitata dal letargo, dalla staticità, dalla monotonia. Rea si chiede, provocatoriamente, com’è possibile che un popolo così vivace abbia conosciuto la rivolta di Masaniello e quella del 1799: una risposta che non potrebbe mai giungere dalla letteratura su Napoli, superficiale e lontana dalla realtà. Un altro autore preso in considerazione da Rea è Francesco Mastriani. Mastriani è stato uno scrittore napoletano vissuto nell’Ottocento, ha scritto ben 107 romanzi e nei suoi libri ha raccontato la città in varie sfumature, anche quelle più dimesse. Infatti Rea dichiara che “la miseria è la musa di Mastriani”, e aggiunge che solo lui “può darci un’indicazione precisa, una topografia plastica e morale autentica della vecchia Napoli”. Intercorre una grande differenza tra il napoletano del basso e quello della città nuova: il primo viene visto dal secondo come un alieno o un pellerossa e il napoletano del basso non sa neanche se il principe Umberto sia un Borbone o un Savoia, a lui basta sapere che è un’entità superiore, un protettore, un mammone. In Mastriani i bambini sono creature e gli adulti sono “vermi” e ognuno di loro ha una tana e vive di espedienti, pronto a ripartire. Un altro scrittore che, secondo Rea, ha descritto meravigliosamente la Napoli plebea è Giovanni Boccaccio, in particolare la sua novella di Andreuccio da Perugia, nella quale troviamo l’astuzia delle meretrici, la violenza dei magnacci. Rea ricorda che Boccaccio “è uno dei pochissimi scrittori che abbia visto nei napoletani degli uomini concreti, positivi e abbastanza cattivi, preferibili agli uomini-macchiette”. Del resto va ricordato che Boccaccio ha trascorso molti anni della sua giovinezza a Napoli, dove ha avuto modo di assorbire il meglio e il peggio della città. Lui saprebbe descrivere un basso napoletano, dal quale invece tanti altri se ne tengono a debita distanza per snobismo. Per comprendere Napoli occorre scendere nell’abisso e venire a capo della vita psicologica dei personaggi.

*Emanuele Cerullo, scrittore