L’archeologia dei profumi antichi
Dall’Oriente alla Campania Felix un mistero tutto da scoprire
C’è un patrimonio invisibile che emerge dallo studio delle società antiche e attraversa il tempo, un’eredità profumata che racconta realtà complesse fatte di viaggi e terre lontane, di mani operose e di braccia rivolte agli dei. La storia dei profumi antichi ha radici ancestrali ed è ricca di connessioni storiche, culturali, simboliche, religiose, politiche e sociali. Una molteplicità di aspetti che s’intersecano con la pratica delle coltivazioni, la lavorazione dei metalli e delle ceramiche, le rotte commerciali, l’organizzazione della società e del sapere, il rapporto con il divino, e rendono una materia ineffabile, uno scrigno d’informazioni preziose per comprendere l’evoluzione umana. Protagonista il Mediterraneo e le sue vie, da quelle esotiche della Penisola Arabica, a quelle che da Cipro e dal Levante portavano alla Grecia, a Corinto e a Rodi e all’Opicia, dall’Egitto al mondo etrusco e poi a quello romano. La natura effimera dei profumi rende difficilmente leggibili le tracce di questa pratica e solo una ricerca archeologica interdisciplinare, permette, attraverso l’analisi archeometrica sui residui chimici, e l’indagine letteraria, antropologica e filologica, di recuperare nei reperti e nei testi antichi la varietà delle essenze e la descrizione degli strumenti, le metodologie di produzione e gli usi, l’origine dei termini. E’ grazie a scrittori come Teofrasto e Plinio il Vecchio che possiamo conoscere le tecniche di macerazione delle resine, delle cortecce, dei petali, prevalentemente in olio d’oliva o nel vino, la rappresentazione delle piante più usate e pregiate quali l’incenso, la mirra, il cinnamomo, la rosa. Gli scavi e le scritture ci forniscono indizi sull’utilizzo dei profumi che va oltre il mondo femminile, l’uso cosmetico o le pratiche di seduzione tante volte cantato dai poeti greci, da Archiloco e Saffo, e da quelli latini, con Ovidio e Properzio. Gli studi fanno emergere il carattere cerimoniale e simbolico della profumazione, riconducendolo al rapporto con la divinità e con la morte. Nelle culture antiche le essenze profumate sono un’emanazione del divino ma anche espressione del potere e del rango, custodi di magiche proprietà medicamentose. Alfredo Carannante e Matteo d’Acunto, nel loro saggio Il profumo nelle società antiche, non a caso, insistono sullo stretto rapporto tra gli odori e la specie umana, sulla storia e sulla fisiologia del nostro olfatto e “sulle basi biochimiche dei profumi che ne determinano lo straordinario – e quasi magico – potere evocativo e seduttivo”. Gli odori persistono nella memoria, risvegliano ricordi, sensazioni di solito positivi legati ad atmosfere piacevoli come dimostrano le caratteristiche di molti composti ritrovati, sostanze con effetti rilassanti e calmanti per il sistema nervoso, o dotati di misteriose capacità eccitanti. Lo studio della fisiologia dell’olfatto e della sua evoluzione nell’uomo suggerisce che alle radici dell’arte dei profumi vi siano delle profondissime ragioni biochimiche e neurologiche. “Più antiche sono le memorie olfattive, più profonde risulteranno le emozioni che esse risvegliano. La stessa struttura neuronale del cervello olfattivo spiega il legame tra odori, ricordi lontani ed emozioni. Il sistema limbico – e soprattutto l’amigdala, tra le strutture più arcaiche del cervello umano, connesse alle dinamiche emotive più profonde, agli stati d’animo inconsci, agli istinti primordiali – è l’area maggiormente coinvolta nell’elaborazione delle informazioni provenienti dal naso, insieme ad alcune aree della corteccia frontale”. Incenso, mirra, timo, ambrosia, sericato e poi gelsomini e rose; nel corso del tempo le note dei loro profumi sono state combinate sapientemente, trasformandosi in una vera e propria arte, preziosa e segreta. Olii e unguenti profumati sono diventati elementi fondamentali dell’igiene e della cura del corpo: oltre ad avere proprietà antibatteriche, hanno reso morbida, setosa e luminosa la pelle inaridita dagli agenti atmosferici, hanno curato malattie, tramutandosi in strumenti di salute, di prosperità, di energia vitale. Gli dei, dunque, non potevano che emanare fragranza: il profumo è una delle manifestazioni della loro presenza. I templi, in cui le divinità risiedono sotto forma di statua, non solo sono impregnati del profumo effuso dal nume, ma sono anche costruiti con legni odorosi, hanno arredi come bruciaprofumi, incensieri, preziosi balsamari. Le offerte di profumi sono particolarmente gradite al mondo divino e al re che ha con gli dei un rapporto privilegiato. Il prestigio dei potenti si misura anche con la loro capacità di approvvigionarsi di beni di lusso con i quali adornare palazzi e templi. Le essenze aromatiche provenienti dai doni cerimoniali scandiscono le relazioni diplomatiche, il commercio a largo raggio, le conquiste militari sotto forma di tributi o bottino. La Campania Felix ha avuto un ruolo egemonico nella produzione e nel commercio degli unguenti profumati. Nel libro XVIII della Naturalis Historia, Plinio scrive che la regione produce più profumi di quanto le altre producano olio e che le rose di campo fioriscono due volte l’anno. Altri due aspetti hanno reso questo territorio il più grande centro di produzione del tempo, in Occidente: l’esistenza di ampi scambi commerciali con l’Oriente e la presenza di artigiani qualificati, spesso provenienti da quei luoghi remoti. E’ a Pozzuoli che arrivavano le gomme e le resine della Palestina e dell’Egitto, attraverso il porto di Alessandria, la dogana di Coptos e il Deserto Orientale, l’incenso e la mirra d’Arabia, le spezie dell’India. Un commercio fiorente che giustificava l’invio di agenti commerciali, come Laudanès, schiavo di Calpurnius Moschas, o Lysas, schiavo degli Annii Plocami di Pozzuoli, che incisero il loro nome nella grotta del Wadi Minay, in pieno deserto, che richiedeva il noleggio di navi come la “Hermapollon”, di cui il papiro di Vienna indica il carico, nardo gangetico, avorio e altri aromi provenienti dall’India, per la considerevole somma di sette milioni di sesterzi. Numerose iscrizioni menzionano profumieri e officine della Campania. La strada che costeggia il lato Nord del Foro di Pompei, la cosiddetta “Via degli Augustali”, doveva essere il mercato dei profumi: una scritta elettorale, ancora leggibile nel XIX secolo, indicava la presenza dei profumieri e, in alcune botteghe sono stati ritrovati torchi verticali che potevano essere utilizzati per l’estrazione di oli profumati. Roma ha restituito ventuno iscrizioni che citano produttori di unguenti liquidi e venditori di profumi da bruciare: cinque a Capua, due a Napoli, due a Pozzuoli, tre a Pompei e uno a Ischia. I profumi avevano spesso anche un ruolo medicinale ed è verosimile che i seplasiari che prendono il loro nome da Seplasia, l’antica piazza di Capua, sede della corporazione dei profumieri e dei farmacisti, avessero anche un ruolo di fornitori di medicamenti. In tempi in cui la farmacopea non aveva molte ricette per tentare di guarire i malati, le mescolanze di olio e di sostanze aromatiche costituivano un importante strumento curativo. Non a caso, le uniche formule di profumi che ci sono pervenute si trovano in un’opera medica, il I libro del De materia medica di Dioscoride. Il profumiere era spesso di origine servile, schiavi o liberti ma l basso status sociale non ne impediva i profitti. Tuttavia, erano i proprietari di uliveti e giardini di rose, i padroni delle botteghe e gli importatori all’ingrosso di spezie che realizzavano i maggiori introiti. In Campania, la produzione di rose per il profumo era, per i possidenti, un’importante fonte di reddito. Apollonio indica che il miglior olio di rosa proveniva da Phaselis in Licia così come da Napoli e Capua. Sembra che, accanto ad una moltitudine di artigiani locali, solo alcune grandi famiglie, con molti liberti e legate a personaggi importanti quali, nel I secolo a.C., P. Granius di Pozzuoli, Gessius Florus, procuratore della Giudea sotto Nerone, L. Faenius Rufus, prefetto del pretorio nel 62, abbiano prodotto le più grandi quantità e abbiano commercializzato i profumi su lunghe distanze. Un traffico nient’affatto secondario che si associava alla fabbricazione e al trasporto dei contenitori, dai più semplici in terracotta a quelli in vetro soffiato, alabastro, oro e argento. E quando non ci si poteva permettere profumi costosi e ricercati, si creavano adulterazioni e falsi. Pare che alcuni profumieri invece di mettere le essenze più preziose a macerare, le spruzzassero solo negli unguentari, risparmiando così sui costi. Insomma, “l’archeologia dell’evanescente” ci racconta un mondo complesso, ricco di nessi sorprendenti tra passato e presente, tra genti e culture differenti, accomunate da un’arcana inclinazione al bello.
*Fiorella Franchini, giornalista