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L’amorfismo della poesia: “nessuno sa dove inizi il suo corpo”

Note critiche su Elegie scalze (2018) di Giorgio Voltattorni

Nell’ormai lontano 1991 Giorgio Voltattorni, con l’elegante veste editoriale della rinomata Stamperia dell’Arancio di San Benedetto del Tronto, nella collana “Il portico dell’angelo” curata dal poeta Eugenio De Signoribus, dava alle stampe Bestiario umano, un’opera di limitata lunghezza che si “svolgeva” (quasi come una reale rappresentazione) in dodici momenti o stanze interamente dedicate al mondo personale e intimo circumnavigato mediante l’arcana e intramontabile isotopia degli animali. 

Un bestiario particolarissimo in cui ogni singolo componimento veniva dedicato a persone a lui particolarmente care. Queste stanze – da lui definite “agonie” – erano dedicate a Valeriano Trubbiani, il celebre artista locale (suoi i rinoceronti in bronzo in Piazza Pertini in Ancona, per intenderci, tra le tante meraviglie da lui sapientemente “forgiate”) al quale, nel corso del tempo, ha dedicato anche articoli, saggi e dissertazioni arricchiti da una pluridecennale amicizia ricambiata e dalla fortunata corrispondenza con lui.

Queste dodici stanze non raccoglievano l’opera prima di Voltattorni che, infatti, veniva alla luce una decina d’anni prima – esattamente nel 1980 – quando pubblicò Resti, Viversi e Pietre. Fondamentale per gli scambi interdisciplinari, gli apporti e le confluenze tra codici artistici differenti, si è rivelata la rivista «Hortus» da lui fondata che, seppur di breve durata, certamente dettò il passo se pensiamo che, da allora, esperienze agglutinanti e polifoniche analoghe, nel nostro contesto regionale, non mancarono.

Nel novembre del 2018, presso le Edizioni Ediland, Voltattorni, dopo un lungo ma mai definitivo “silenzio” poetico, è tornato con il libro Elegie scalze che si compone, al suo interno, di vari percorsi successivi, delle micro-sillogi. Vi troviamo l’acutezza di osservazione che gli è propria ma anche una passionalità tenue che si esplica ancor meglio in slanci ironici, domande perentorie a sé stesso, tentativi di fuga e attraverso l’esigenza continua di riconoscersi nel percorso fluente del tempo. Qui sono localizzate poesie – dovremmo forse parlare di liriche, data l’intenzione del cuprense di proporci delle elegie ovvero dei testi nati dal pensiero melanconico e dolente per chi non c’è più – dedicate alla figlia ritratta in alcuni momenti domestici apparentemente banali che l’Autore carica con grande espressività ed empatia e, nella parte finale, all’amorevole padre, abitatore ormai di un altro spazio in un tempo che non ha fine.

Di particolare impatto è la poesia che “si svolge” attorno all’immagine di uno sfortunato ciliegio (ma sono in via generale molto importanti nella sua produzione in versi gli alberi, queste presenze fisse, verticali, in sé rassicuranti, nell’opera del Nostro, si vedano i vari riferimenti a varie specie, ora i cipressi, ora i mandorli e, ancora, i salici) nel ricordo di istanti vissuti con la figlia.

Voltattorni dialoga con la natura, con gli altri – in forma presente e assente, come con le ombre, i misteri e le vacuità – e percorre questo viaggio nella sua interiorità. L’immagine cara a tanta poesia novecentesca e non solo (penso, ad esempio, a Montale ma, per giungere più vicini a noi, anche alla poetessa del Navigli, Alda Merini, nonché alla polacca premio Nobel, Wislawa Szymborska) del silenzio è oggetto di particolare interesse anche nel Nostro: “il silenzio possiede strade, balconi, / minute inferriate, e poi scale, / tante infinite piccole scale”.

Queste elegie sono scalze perché imperfette, mancanti, destinate a una considerazione provvisoria, da sottoporre a un esame “per sottrazione” per evidenziare il materiale di risulta, il mero dato residuale? Credo di no. Sono, al contrario, testi da leggersi proprio in punta di piedi, procedendo con un fare attento e parsimonioso, con una levità di temperamento oltre che – trattandosi di un mondo personale, quello in cui il Nostro in qualche modo si “denuda”, si “svela” – con grande rispetto. 

Antonia Pozzi, una delle maggiori poetesse italiane del secolo scorso che da una decina di anni a questa parte – soprattutto – anche grazie a un’accentuata attenzione editoriale risulta molto letta, apprezzata, discussa, nel dramma intimo della sua natura di donna il cui amore venne osteggiato (e reso impossibile) parlò di quella condizione di svelamento dettata proprio da un sentimento di nudità che – mutatis mutandis – è possibile incontrare anche nella poetica di Voltattorni.

Camaleontico e istrionico nel reale, il Voltattorni poeta è un’anima votata al verbo; la ricercatezza – non tanto lessicale e neppure contenutistica – dei suoi componimenti, quanto delle sue vedute e la profondità delle sue auscultazioni, ci consegna – attraverso le sue pagine dense di ricordo ma ricche pure di forti tensioni umane protese a un presente in divenire – il tracciato su carta dell’esperienza emotiva e sensoriale di un uomo, tra recondite ricerche a domande inesplicabili e sensi che riaffiorano nei contatti umani, negli squarci di luce, come pure nell’incanto del Creato.

L’autore viaggia sulla medesima linea d’onda di Federico García Lorca (al quale in passato ha dedicato un paio di testi poetici molto partecipati, oggetto di mio interesse e analisi in precedenti scritture) soprattutto lo si ritrova in perfetta simbiosi e consonanza di pensiero col Granadino che, in una celebre intervista – divenuta tale perché, fatta nel mese di giugno del 1936, sarebbe stata la sua ultima intervista – ebbe a rivelare: “La creazione poetica è un mistero indecifrabile, come il mistero della nascita dell’uomo. Si sentono delle voci, non si sa da dove provengono. È inutile cercare di capire da dove provengono”.

Gli fa eco Voltattori delle Elegie scalze quando, in relazione alla poesia, assertivo scrive: “Cosa sia o non sia, / è un grumo di scommesse, / è un silenzio condiviso / o forse un canto gravido d’attese / e disattese promesse”.

*Lorenzo Spurio, critico letterario e poeta