La violenza in famiglia: un allarme sociale
Succede più spesso di quanto si possa pensare che il “nemico” si nasconda proprio fra le mura domestiche
“La famiglia costituisce nella nostra cultura il più elementare e pregnante nucleo della socializzazione, il gruppo nel cui ambito si realizzano i primi modelli delle relazioni interpersonali che informeranno certi comportamenti destinati a perpetuarsi nell’intero corso della vita, ove vengono posti i primi cardini dei rapporti gerarchici e dove anche sorgono e si coltivano intensi legami affettivi” […] (Ponti, 1999).
I legami affettivi e di attaccamento che caratterizzano il rapporto tra i partner e tra genitori e figli costituiscono, nell’opinione comune, motivi sufficienti alla strutturazione di un ambiente sereno, protettivo ed emotivamente coinvolgente (Hirigoyen, 2000).
È entro i rapporti familiari che gli stessi eventi della vita individuale, come il nascere, il morire, il crescere, l’invecchiare che più sembrano appartenere alla natura ricevono il proprio significato e vengono consegnati all’esperienza individuale (Saraceno e Naldini, 2001). Donati definisce la famiglia come “un sistema vivente altamente complesso, differenziato e a confini variabili, in cui si realizza quell’esperienza vitale specifica che è fondamentale per la strutturazione dell’individuo come persona” (Donati e Di Nicola, 1996).
Infatti la famiglia, base delle vicende esistenziali, sede privilegiata per lo sviluppo della personalità dell’individuo, conserva un ruolo primario nella trasmissione dei valori e dei modelli di comportamento, pur in presenza di altre strutture educative.
Considerata da sempre un territorio protetto e luogo per eccellenza della solidarietà, non sempre è però in grado di svolgere adeguatamente l’impegnativo compito educativo e socializzante, soprattutto quando, incapace di gestire crisi e conflitti, diventa fonte di patologie. È nella famiglia infatti che spesso si originano anche molte conflittualità e non è arbitrario quindi pensare all’educazione familiare come un processo idoneo a condizionare tanto la salute quanto la malattia mentale delle persone coinvolte in esso.
Si può dunque sostenere, che accanto alle immagini della famiglia-rifugio intesa come luogo dell’intimità e dell’affettività, archetipo della solidarietà, vi è l’immagine della famiglia come luogo della inautenticità, dell’egoismo esclusivo, dell’obbligo, dell’oppressione, la famiglia come generatrice di mostri di violenza, la “famiglia che uccide” (Saraceno e Naldini, 2001). Coloro che decidono di unirsi con il chiaro intento di costituire una famiglia devono essere consapevoli dell’impegno assunto ed essere in grado di garantire ai diversi componenti che vanno a costituire i sottosistemi, un percorso conforme ai bisogni che si presentano nelle diverse fasi evolutive del ciclo vitale. In ogni fase del ciclo vitale può determinarsi un evento critico che la famiglia deve affrontare rivedendo la sua organizzazione, modulando le relazioni all’esterno con la famiglia d’origine e all’interno tra i sottosistemi, utilizzando risorse proprie o ricorrendo all’aiuto di agenzie di sostegno.
I conflitti che prendono vita nella famiglia forniscono l’alimento di molte condotte violente legate alle intense e strette relazioni che si realizzano nel ménage familiare e specificatamente connessi con la convivenza.
“La struttura dell’istituto familiare, i rapporti patologici che in esso si possono instaurare, i conflitti affettivi o materiali, i dissidi per il predominio, sono solo alcune delle infinite ragioni che possono originarsi nella convivenza, e che con una certa frequenza sfociano in aggressività delittuosa” (Ponti, 1999).
La violenza di genere è la manifestazione di un rapporto di disuguaglianza storica tra uomini e donne che ha condotto gli uomini a prevaricare e discriminare le donne e che ancora oggi risulta uno dei meccanismi sociali che costringe la donna ad una posizione subordinata. Nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1993 sull’eliminazione della violenza contro le donne, all’art. 1 la violenza viene descritta come “ogni atto legato alla differenza di sesso, che provochi o possa verosimilmente provocare un danno fisico, sessuale o psicologico o una sofferenza della donna, attraverso la coercizione o privazione della libertà, comprese le minacce, sia nella vita pubblica che in quella privata.”
Nel 2002 l’OMS ha dichiarato che “per violenza deve intendersi l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o effettivo, contro sé stessi, un’altra persona o contro un gruppo o comunità, da cui ne derivi o sia altamente probabile che derivi un danno fisico, psicologico, la morte, un deficit nello sviluppo o situazioni di deprivazione”.
Alcune ricerche statunitensi evidenziano che la maggiore causa di richieste di cure rivolte al pronto soccorso, da parte di donne di età fra i 15 e i 45 anni, è proprio la violenza e una ricerca della Harvard University ha stabilito che nel mondo, la violenza e la brutalità degli uomini è la principale causa di morte o invalidità per le donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni, anche più di malattie, incidenti o guerre.
Ma la violenza sulle donne è un fenomeno antico, presenta cifre impreviste e solo da poco è uscito allo scoperto. Nei paesi industrializzati circa il 30% delle donne subisce, nel corso della vita, violenze fisiche e/o sessuali da un partner o ex-partner e la prevalenza delle violenze psicologiche è ancora più elevata.
Anche per le donne in gravidanza la violenza domestica sembra essere altrettanto frequente, e in questo caso è la gravidanza stessa che può essere a rischio.
Le violenze hanno delle conseguenze negative sulla salute e sul benessere delle donne. Infatti le donne che hanno subito violenze sessuali da bambine soffrono più spesso di problemi di salute mentale, di disturbi dell’alimentazione, sessuali, ginecologici e gastrointestinali ma anche i maltrattamenti fisici e psicologici ricevuti nell’infanzia comportano conseguenze in parte simili. Le donne che hanno subito aggressioni sessuali o fisiche, oltre a soffrirne le conseguenze immediate, come ferite, lesioni, gravidanze non volute, AIDS e altre malattie a trasmissione sessuale, presentano, a medio e a lungo termine, disturbi psicofisici legati al vissuto dell’esperienza traumatica e incorrono più spesso in dipendenze da alcol o da droghe.
Una stretta correlazione tra violenza domestica e suicidio è stata individuata grazie a studi compiuti in diverse parti del mondo (Bangladesh, India, Isole Figi, Nuova Guinea, Perù, Sri Lanka e Stati Uniti). Una donna che ha subito gravi vessazioni ha dodici volte più probabilità di tentare il suicidio rispetto ad una donna che non ha subito violenze (Violence against Women in the Family, United Nations – ST/CSDHA/2, New York, 1989).
La violenza diventa però allarme sociale in occasione di eventi eclatanti, come nel caso della violenza sessuale da parte di sconosciuti, soprattutto se extracomunitari singoli o in gruppo, della violenza domestica quando culmina nella morte della vittima, della violenza contro i bambini (pedofilia o infanticidio), della scoperta di siti internet dedicati alla pedopornografia, ancor più se accompagnata da episodi di sadismo contro i minori.
I mass media in questi casi svegliano le coscienze e creano un clima di straordinarietà rispetto al fenomeno ma l’attenzione nel tempo si abbassa, si ristabilisce la quiete e si ritorna alla rassicurante ignoranza. La violenza, che tutti condannano come un crimine da punire, torna tendenzialmente invisibile, specie quella quotidiana che si consuma nella sfera privata contro donne e minori, drammi quotidiani che si consumano nel silenzio delle pareti domestiche, pareti che dovrebbero “avvolgere”, proteggere e rassicurare da ogni minaccia esterna. Succede invece, più spesso di quanto si possa pensare, che il nemico si nasconda proprio fra quelle mura.
*Maria Pia Turiello, criminologa Forense – esperta in violenza di genere