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La “violenza” dell’Era digitale

Non tutti sono pronti o hanno gli strumenti per poter essere esposti a quelle luci della ribalta e possono ovviamente incappare in un punto di criticità, di rottura

Qualche giorno fa una comunità profondamente ferita ha dato l’addio – nella piccola cittadina di Sant’Angelo Lodigiano – alla ristoratrice 59enne Giovanna Pedretti.

Il suo corpo, senza vita, è stato ritrovato nelle acque del fiume Lambro. 

Un suicidio, denunciano i familiari, provocato dalla shistorm innescata sui social da alcuni post e da una recensione al suo locale.

La titolare della pizzeria “Le Vignole” era stata sentita dai carabinieri proprio nel pomeriggio di sabato, come persona informata sui fatti. Tutto comincia alcuni giorni prima del decesso, la ristoratrice era finita al centro dell’attenzione mediatica dopo la pubblicazione sulla pagina Facebook della replica ad una recensione omofoba e discriminatoria al suo locale da parte un cliente indignato, che si era lamentato dei “vicini gay” e di un “ragazzo in carrozzina”. 

La ristoratrice aveva definito la recensione di “cattiveria gratuita”, invitando il cliente in questione a non frequentare più il suo ristorante.

I post diventano virali e la ristoratrice diventa un simbolo, perché attenta a reagire davanti ad atteggiamenti discriminatori in difesa di gay e persone con disabilità.

Ma non tutti condividono.

Si innesca una tempesta di odio contro di lei in seguito a “dubbi” sorti sulla veridicità della recensione, sollevati da un noto chef, con tanto di telefonata alla diretta interessata, che ha suscitato un eco mediatico, arrivato anche in tv. 

E’ scoppiata una bufera mediatica, in molti hanno parlato di questa recensione, ci sono stati servizi al telegiornale ed è intervenuta pure la Ministra per la Disabilità. 

Giovanna Pedretti passa da eroina a bugiarda e “condannata” on line con un’onda di insulti.

Poco dopo più di 24 ore la povera donna è stata trovata morta.

Le indagini della Procura per chiarire quanto accaduto vanno avanti, ma il tragico caso della ristoratrice lodigiana ha puntato i riflettori ancora una volta sulla potenziale pericolosità dei social e l’inarrestabile frequenza di contenuti d’odio in rete, che fa discutere, ormai da diversi anni, sul “difficile equilibrio tra l’esigenza di arginare normativamente il fenomeno e quella di non pregiudicare la tutela di altri diritti e libertà fondamentali”,   sollevando molte questioni da tempo dibattute nell’ambito del rapporto tra diritto e realtà digitale. 

Se la potenzialità dei siti che costruiscono reti sociali online – i cosiddetti social network- offre la meravigliosa opportunità di un mondo virtuale, dando vita a occasioni di connessione personali e a uno scambio di esperienze (e ciò in qualsiasi momento e a prescindere dalla distanza geografica dei soggetti coinvolti) costituendo un fenomeno assolutamente positivo, dall’altro i social costituiscono un serio pericolo, tendente ad alimentare particolare disinvoltura nel loro utilizzo, in una smoderata corsa che fa perdere il senso del limite. 

La storia finita in tragedia di Giovanna Pedretti è solo l’ultimo esempio di questo allucinante meccanismo perverso.

La situazione in rete è diventata davvero “insostenibile” in quanto risulterebbe che alcune di queste recensioni non sono neanche reali, ma semplici vendette, solo per il gusto di parlare male dello specifico locale.

E’ ormai indifferibile un intervento per regolamentare l’attività delle recensioni, ma anche vincolare le piattaforme al controllo sui contenuti. 

Necessita un bilanciamento dei diritti, il diritto di libera espressione deve incontrare il limite di non ledere i diritti altrui. 

In questa, come in altre vicende simili degli ultimi anni entrano in gioco alcune caratteristiche umane che nei social hanno proliferato.

Alcuni post possono portare rapidamente alla ribalta chiunque e possono intercettare situazioni di fragilità o che diventino tali. 

Non tutti sono pronti o hanno gli strumenti per poter essere esposti a quelle luci della ribalta e possono ovviamente incappare in un punto di criticità, di rottura” – afferma un noto psichiatra –  specialmente quando la situazione prende corpo in una piccola dimensione di piccola comunità, in cui si riscontra un senso più forte dell’identità e della propria integrità,  

L’esposizione della povera vittima lodigiana alla triste interazione on line può aver generato un attacco alla sua integrità e aver costituito un fattore scatenante per la sua fine.  

Non si può non pensare, infatti, alla trama delle relazioni che attraversa un piccolo centro come Sant’Angelo Lodigiano, provincia di Lodi, di 13 mila abitanti. 

Il paese è un luogo mentale, oltre che temporale e spaziale e in casi come quello di Giovanna Pedretti il pensiero di essere esposti ai dubbi della propria comunità – anche solo per il tempo di un servizio televisivo – ha comportato una reazione nel modo più estremo, da portare ad un gesto tanto definitivo.

Una donna che si toglie la vita perché incapace di reggere a critiche social ci mostrano l’ennesimo esempio di come il web, che a molti sembra un porto sicuro, effettivamente non lo è. 

Al di là della fragilità della vittima di turno, “il problema è che si scrive senza pensare che dietro il nickname c’è una persona reale” senza controllo, magari con una comoda e anonima postazione dell’online perenne, che occorrerebbe impedire, proprio per evitare che venga considerato un porto franco, in cui annegare le proprie frustrazioni.

Le persone si sentono molto colpite dalle violenze verbali online, in quanto le parole hanno un potere enorme e le parole cattive possono essere più violente di un virus e anche perché chi scrive di solito non pensa alle conseguenze. 

Peraltro e’ facile offendere qualcuno quando ci si nasconde dietro uno schermo.

Occorre frenare in corsa i leoni da tastiera in questa estrema e travolgente libertà, che costituisce uno spazio che sostiene una   strategia commerciale che sfrutta l’impulsività, riversando “impunemente il proprio odio e dimenticando nella deriva della espressione senza controllo, il potere distruttivo che possono generare anche semplici parole”.  

C’è poca consapevolezza delle insidie e delle trappole che genera l’ambiente virtuale, che diventa luogo di forte vulnerabilità per le persone, dove l’abuso assume continuità tra virtuale e non, come del resto i suoi effetti.

Occorre essere consapevoli della “potenziale pericolosità” di ogni singola interazione on line, che non dando il tempo di riflettere e di censurare gli impulsi negativi, spesso degenera in minacce e auguri di morte, con una negativa emotività.

Se esistono, come esistono, gli errori giudiziari gli errori nelle sentenze mediatiche improvvisate via social sono molto più pericolose, come ci racconta la vicenda andata in scena, con rapidissima sequenza nelle ultime ore della ristoratrice.

Bisogna ricordare che l’art. 21 della Costituzione riconosce il diritto di manifestare il proprio pensiero che incontra limitazioni in quanto non può pregiudicare diritti di pari rango, qual è quello della dignità umana sancito dall’art 3 della Costituzione.

Sono proprio gli utenti del web a disporre del delicatissimo ago della bilancia dell’utilizzo della Rete, su come difendersi da questi nuovi pericoli, dove i più vulnerabili rischiano di farsi male, molto male, come è accaduto in questo caso.

Nel 2015 l’autore inglese Jon Ronson ha scritto un libro dal titolo “I giustizieri della Rete”, il testo è stato un caso letterario che ha riportato all’attenzione diversi temi connessi al web ed alle dinamiche della folla che lo abita. 

Raccontava lo scrittore come Facebok e Twitter, i social network più popolari dell’epoca alimentassero i peggiori “istinti  moralizzatori” delle persone, dando vita ad una versione moderna  della violentissima “gogna pubblica”. Ronson ha spiegato un punto cruciale del problema. La gogna pubblica  sui social media  è tanto allettante perché consente di distruggere qualcuno senza provare nessuna sensazione negativa a riguardo. Restando a distanza..

Oggi che a Twitter e a Facebok si sono aggiunti  Instangram e Tik Tok  la situazione è ulteriormente peggiorata.

Occorre utilizzare in modo adeguato, prudente e costruttivo i potenti mezzi tecnologici, per evitare che motivi troppo superficiali portino a conseguenze tragiche e si trasformino in killer persino delle proprie vite.

La lettura della valanga di commenti delle prime pagine dei quotidiani che hanno parlato del caso della sfortunata ristoratrice lodigiana ci impone anche una riflessione più ampia sulla necessità urgente di disciplinare in maniera puntuale la materia dell’utilizzo dei profili social da parte dei giornalisti. 

I mezzi di informazione professionale, la stampa, le radio e le televisioni che in questi tempi si interrogano sul proprio futuro tra l’infosfera e l’intelligenza artificiale che avanza, forse dovrebbero tornare ad una informazione qualitativamente più elevata.

In un periodo storico – come quello che stiamo vivendo – segnato da contrapposizioni e soprattutto da una forte involuzione delle relazioni sociali, è ancora più  importante una comunicazione sana.

Il dovere del giornalista è quello di  estrema cautela, giudicare se la notizia, vera o falsa, sia di pubblico interesse, selezionare ciò che va pubblicato da quello che non va pubblicato, 

Non dobbiamo dimenticare che i mass media hanno grandi responsabilità, hanno il  dovere di una informazione corretta, scevra da illazioni e libera da distorsioni dell’immaginario.

Un cronista può commettere errori, come pure un avvocato, un medico, ma se rinuncia al suo dovere primario non può fare il giornalista, in quanto la verifica è l’essenza stessa del giornalismo.

Una buona comunicazione non riguarda solo gli operatori dell’informazione, dovrebbe riguardare chiunque usi una piattaforma di comunicazione digitale.

Il diritto possiede in parte gli strumenti per combattere questi abusi, perchè la sfera di privacy delle persone che finiscono sul web  è assai problematica, se non impossibile.

Si tratta di strumenti che intervengono ex post e che certamente non sono idonei a riparare le conseguenze drammatiche  sulla psicologia delle vittime ed arrestare il continuo processo di condivisione della messaggistica  nella rete. 

Al di la delle opportune azioni di contrasto e delle opportune iniziative legislative tendenti a predisporre una cornice di norme da rispettare, l’unico strumento utile per prevenire fatti drammatici come quello di Giovanna Pedretti è la prevenzione, che è sempre la politica più efficace, in questo caso il termine “prevenzione” assume il  significato di “cultura del rispetto della persona e delle diversità”. 

La cultura del rispetto è rispettare le differenze, siamo diversi uno dall’altro ed è proprio la differenza che rappresenta l’unicità della persona umana e la sua forza.

E’ indifferibile, ormai, un’educazione civica digitale in cui va ricalibrata la nostra attenzione per un uso corretto e responsabile delle nuove tecnologie, nel rispetto della normativa vigente  e della salvaguardia dei beni comuni.

Il punto è stabilire cosa diventi pubblico e non fare delle opportunità democratizzanti dei social media una occasione per buttarsi come squali per non perdere il trend. nella consapevolezza  di ciò che introduciamo  nel web riguardante la nostra vita privata  e  nel rispetto della dignità altrui. 

Piu’ che pensare a leggi punitive per le piattaforme la politica dovrebbe  coinvolgere tutti in una battaglia di affermazione della civiltà giuridica.

Solo questo intervento  può contribuire a svelenire il clima  in rete e rendere più sicura la navigazione, specialmente delle persone più deboli. 

Solo prendendo pienamente la misura di questa evoluzione digitale possiamo garantire i diritti umani, la libertà di espressione e la democrazia, per trasformare internet in uno strumento che sia veramente al servizio del pubblico e che contribuisca a garantire il diritto alla libertà di espressione, un diritto che include l’altro diritto di chiedere e ricevere informazioni.

*Ada Marseglia, avvocato