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La Resistenza Umanitaria

La guerra in casa 1943-1944. La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano

Ho sentito tanti racconti dell’Italia, dai prigionieri di guerra… 

gente la cui vita era stata spesso salvata dall’aiuto 

del tutto disinteressato di famiglie di contadini, 

che non avevano nessuna particolare ragione per soccorrerli 

se non quella della solidarietà umana. 

ERIC HOBSBAWM

Il concetto di resistenza  

Resistenza è una parola che deriva dal latino “re-sistere” composto dalla particella “re” = indietro, che dà l’idea di opposizione e “sístere” = fermarsi, non cedere all’urto, contrastare, fronteggiare. 

La storia dell’Uomo è una storia di resistenza o, marxianamente, di conflitto di classi. Dalla tragedia “Antigone” di Sofocle allo scontro tra cristianesimo e impero romano fino agli scontri di oggi la conflittualità è il filo rosso che sottende il cammino della storia. Ogni guerra, giusta o ingiusta che sia, implica resistenza. Di fronte ad ogni tentativo di dittatura di una parte, sorge il bisogno di resistere di un’altra parte. Il verbo resistere, in sé, ha significato neutrale. Assume senso in riferimento all’obiettivo che si pone. 

Nel secolo scorso, nella terminologia politica la parola, intesa come contrasto all’occupazione tedesca in Francia, viene usata in un famoso discorso di Charles De Gaulle il 18 giugno 1940 (L’appel du 18 juin) dai microfoni di Radio Londra e diventa l’inizio della resistenza francese ai tedeschi.

Ma già in precedenza, con la guerra civile spagnola 1936-1939, lo scontro tra franchisti e antifranchisti diventa scontro di quanti resistevano per difendere il governo legittimamente eletto e quanti cercavano di eliminare tale governo. Ma, spesso è la capacità e la quantità delle forze in campo che decidono il sopravvento dell’una o dell’altra parte. 

C’è un altro concetto, che andrebbe collegato a quello di resistenza, ed è il concetto di resilienza. Un termine che deriva dalla tecnologia ed è la capacità di un metallo di resistere ad altre forze. In psicologia la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici. Come dire, l’esatto opposto del detto latino “Frangar, non flectar”. La resilienza dipende anche da fattori caratteriali, ambientali, culturali che offrono la possibilità di resistere al male senza abbattersi completamente. 

Da una ricerca più che decennale, promossa e proseguita da docenti e studenti, presso il Liceo Scientifico Statale “Fermi” di Sulmona, è nata una collana di memorialistica sul fenomeno dell’aiuto ai POWs (Prisoners Of War), durante la seconda guerra mondiale. Roger Absalom, autore d’una accurata indagine dal titolo A Strange Alliance. Aspects of escape and survival in Italy 1943-1945 (Olschki, Firenze 1991), presentando l’edizione italiana del libro di William Simpson, A Vatican Lifeline. Allied Fugitives aided by the Italian Resistance, (Cooper, London 1995), tradotto e pubblicato a cura del Liceo Scientifico Statale “Fermi” di Sulmona con il titolo La guerra in casa 1943-1944. La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, scrive: «Il fenomeno dell’assistenza spontanea era generalizzato in tutta la Regione Abruzzese, con punte più alte nelle Province di L’Aquila, Chieti e Pescara. Sulla base di statistiche desumibili dai documenti conservati negli archivi nazionali di Washington, si può calcolare un coinvolgimento di decine di migliaia di persone nell’assistenza, sempre rischiosa, agli ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento, dopo l’8 settembre. In rapporto alla popolazione globale delle zone di montagna e di collina, censita nel 1936, la partecipazione si aggirerebbe intorno al 4-5%, cifra tutt’altro che trascurabile, se si pensa che i fuggiaschi alleati di passaggio e di stanza in Abruzzo non erano probabilmente più di 10.000. Altri elementi non quantitativi fanno pensare che la disponibilità a prestare tale assistenza fosse ancora più diffusa. »

Secondo i dati, rilevati da Absalom, al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943, in Italia vi erano circa 80.000 prigionieri di guerra. L’art. 3 dell’armistizio (short term) recitava testualmente: “Tutti i prigionieri e gli internati delle Nazioni Unite dovranno essere consegnati immediatamente al Comandante in Capo alleato e nessuno di essi potrà ora o in qualsiasi momento essere trasferito in Germania”. Una mappa della Croce Rossa inglese, (The Red Cross and St. John War Organisation, September 1943), evidenziava in Abruzzo la presenza dei seguenti campi: il n.102 a L’Aquila, il n.91 ad Avezzano, il n.78 a Sulmona, il n. 21 a Chieti. Un dato, per lo meno curioso, ma particolarmente interessante è rappresentato dalle numerose testimonianze, dirette o indirette, lasciate dagli ex-prigionieri in Abruzzo: Uys Krige, John Esmond Fox, Donald Jones, Jack Goody, John Furman, William Simpson, John Verney, Sam Derry, J P. Gallagher, Dan Kurzman, John Broad, Hans Catz, Tony Davies, Ronald Mann, Guy Weymouth, Joseph Frelinghuysen, John Miller, Martin Schou, Stan Skinner, Gladys Smith. Per questo, il fenomeno dell’aiuto ai prigionieri di guerra è stato definito “epopea”. Una pagina di storia, piena di episodi drammatici e toccanti, comici e romantici: ci furono ex-prigionieri nascosti per mesi nelle grotte, nelle cantine, travestiti da donne, fatti passare per sordomuti e quelli che, dopo la liberazione, contrassero il matrimonio con le figlie dei loro benefattori. Non è facile restare impassibili di fronte all’avventura di Denys Simmons, raccontata nel documentario 1943 – A Kind of Holiday di Franco Taviani o a quella di William Pusey, le cui figlie sono tornate in Abruzzo, a Castelvecchio Subequo, per spargere le ceneri del padre sulle montagne del Sirente, dove aveva vissuto “il più bel periodo della vita e incontrato l’amore”. Ma ci furono anche italiani imprigionati, condannati a morte, fucilati per aver dato loro da mangiare e ospitalità. Una forma di resistenza, in cui le donne hanno rivestito un ruolo fondamentale. Valga, per tutte, la storia di Iride Imperoli Colaprete, la staffetta che accompagnava i fuggiaschi da Sulmona a Roma, catturata e imprigionata prima in via Tasso e poi a Civitaquana, con decine di uomini e donne sulmonesi. Una sarta, Annina Santomarrone, di Roio Piano, processata per aver dato ospitalità agli alleati, deportata in Germania e morta in un lager, aveva detto: “Non li ho aiutati perché erano inglesi, ma perché sono una cristiana e anche loro sono cristiani”. Un comportamento, questo, evidenziato anche da un altro fatto tragico: la fucilazione di Michele Del Greco, pastore di Anversa degli Abruzzi, condannato a morte per aver dato da mangiare a numerosi ex-prigionieri, di passaggio. Dalla lettera alla moglie e dalla testimonianza del parroco, don Vittorio D’Orazio, che lo aveva confessato prima della fucilazione, nel carcere di Badia di Sulmona, emerge la stessa motivazione: “Sa perché mi ritrovo in questa situazione? Perché ho fatto quello che mi avete insegnato: dar da mangiare agli affamati”. Era stato arrestato il 22 novembre 1943, processato e condannato il 27 novembre, fucilato il 22 dicembre. Una figlia, Raffaella Del Greco, ne ha raccontato la storia nel libro Quei lunghi trenta giorni (Japadre, 2004).

Recentemente vari tentativi di ricerca storica hanno focalizzato questo aspetto della resistenza  abruzzese: dal volume E si divisero il pane che non c’era (1995), a cura del Liceo Scientifico Statale “Fermi” di Sulmona, con la relativa collana di memorialistica dei prigionieri di guerra, all’opera di Marco Patricelli, I banditi della Libertà (Utet, 2005), che trattando della Brigata Maiella, esordisce con le parole di Domenico Troilo: “Io non volevo cambiare il mondo: volevo solo vivere in pace”. 

Il 23 settembre 1999, nella visita ufficiale in Abruzzo, il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ricordando la sua permanenza in Abruzzo, durante la guerra, aveva detto: «Sono stati ricordati i rapporti miei, antichi e recenti, con la terra d’Abruzzo. Sono rapporti che lasciano un segno. Vissi qui alcuni mesi particolarmente intensi. Posso testimoniare di persona, per esserne stato beneficiario, di quello che fu l’atteggiamento degli abruzzesi nei confronti di coloro che si trovavano in condizioni di bisogno, fossero essi prigionieri alleati, fossero essi ebrei, fossero ufficiali o soldati dell’esercito italiano. Io qui passai alcuni mesi con alcuni amici, in particolare con un amico ebreo, un vecchio amico livornese. E un episodio, in particolare, mi è rimasto impresso nella mente. Quando, camminando una sera per una piccola via di Scanno, da una finestra un’anziana scannese mi fece un cenno, mi invitò a salire nella sua casa e mi offrì un pezzo di pane e un pezzo di salame. Questo mi ricorda quel bellissimo libro che hanno scritto gli alunni e gli insegnanti di una scuola di Sulmona – e che io conservo gelosamente – il cui titolo, se ben ricordo, è E si divisero il pane che non c’era. » 

La gentilezza e la solidarietà degli abruzzesi, al di là della retorica o d’un abusato cliché, emergono dalle innumerevoli testimonianze degli ex-prigionieri che hanno posto in rilievo l’aiuto disinteressato, ricevuto dalla gente. Jack Goody, antropologo di fama mondiale, docente a Cambridge, allora fuggiasco sulle montagne della Valle del Sagittario, ha scritto: “C’era il pane, qualche volta era il pane di campagna fatto di farina e qualche altra era una specie di torta piatta di mais, con in mezzo il grasso di prosciutto” (Oltre i muri. La mia prigionia in Italia, Roma 1997). In una conferenza a Teramo, nel 2002, Jack Goody ha ricordato il suo breve periodo di fuga sulle montagne abruzzesi: «Non ho passato molto tempo in Abruzzo, ma il tempo che vi ho passato è stato molto intenso e mi ha segnato per sempre. » Ma, forse, le parole letterariamente più squisite e commoventi sono quelle di Alba De Céspedes, nascosta a Torricella Peligna, in attesa di oltrepassare la linea Gustav: «Entravamo nelle vostre case timidamente: un fuggiasco, un partigiano, è un oggetto ingombrante, un carico di rischi e di compromissioni. Ma voi neppure accennavate a timore o prudenza: subito le vostre donne asciugavano i nostri panni al fuoco, ci avvolgevano nelle loro coperte, rammendavano le nostre calze logore, gettavano un’altra manata di polenta nel paiolo. […] Del resto attorno al vostro fuoco già parecchie persone sedevano e alcune stavano lì da molti giorni. Erano italiani, per lo più: ma non c’era bisogno di passaporto per entrare in casa vostra, né valevano le leggi per la nazionalità e la razza. C’erano inglesi, romeni, sloveni, polacchi, voi non intendevate il loro linguaggio ma ciò non era necessario; che avessero bisogno di aiuto lo capivate lo stesso. Che cosa non vi dobbiamo, cara gente d’Abruzzo? Ci cedevate i vostri letti migliori, le vesti, gratis, se non avevamo denaro. » (AA.VV. Alba de Céspedes, Mondadori, Milano 2005).

Uys Krige, scrittore sudafricano, prigioniero al Campo 78 di Sulmona, dopo la fuga verso il Sud Italia e il ricongiungimento con gli Alleati, stabilisce rapporti di amicizia con Ignazio Silone, tanto che quest’ultimo, nelle pagine introduttive de L’avventura d’un povero cristiano racconta:  « Prima di lasciare Roma e tornarsene nel Sud Africa, nel 1945, Uys Krige mi prese a testimone di due suoi voti: avrebbe scritto un libro su questa contrada che egli chiamava “terra amica e prediletta”, e appena possibile sarebbe tornato portando con sé sua figlia, nella convinzione che avrebbe giovato all’educazione della ragazza conoscere quei posti e quella gente. » L’originale inglese del libro di Krige The way out, tradotto in italiano con il titolo Libertà sulla Maiella (Vallecchi, Firenze 1965) è dedicato ad un contadino di Bagnaturo di Pratola Peligna, Vincenzo Petrella, “to whom I owe my Freedom” (“cui devo la mia Libertà”). «Nel suo libro – scrive Silone – il Krige narra, in forma semplice e commossa, innumerevoli episodi della spontanea e temeraria solidarietà di quella povera gente verso lui e i suoi compagni di evasione. […] Fu in un nostro primo incontro a Roma, verso la fine del ’44 che il Krige mi parlò con le lagrime agli occhi dei pastori di Roccacasale, di Campo di Giove, di Castel Verrino, di Pietrabbondante, di Cupello. Egli non esitava ad affermare che il tempo passato fra essi era il più bello della sua vita, avendo allora intravisto, per la prima volta, la possibilità di relazioni umane assolutamente pure e disinteressate.» 

La storia delle traversate, dal nord al sud, e in particolare da Sulmona a Casoli, attraverso il Guado di Coccia, rappresenta un momento decisivo nella vita dei fuggiaschi. Era la via più conosciuta e più comune. Ma richiedeva l’assistenza di guide locali. E molte furono le guide sulmonesi che si misero a disposizione per questo compito. Compito rischioso, perché i tedeschi controllavano i valichi di montagna. John Esmond Fox, nel libro Spaghetti and Barbed Wire (Spaghetti e filo spinato), tradotto a cura del Liceo Scientifico Statale di Sulmona, affronta la traversata il 13 gennaio 1944, arrivando a Casoli il 15 gennaio, dopo trentasei ore, alle undici del mattino. Arrivarono in 47, ma erano partiti circa 100. «Il libro di Fox – scrive Ottaviano Giannangeli – è realistico, circostanziato, un taccuino non privo di situazioni thrilling, che ci tengono col fiato sospeso e che spesso sfociano in dramma per questo prigioniero più volte evaso dal campo e altrettante volte ricatturato e definitivamente sfuggito alla presa dei tedeschi. »

Anche Donald Jones descrive le peripezie della sua vita da fuggiasco in Escape from Sulmona (“Fuga da Sulmona”) e finalmente, raggiungendo Campo di Giove, attraversa il Guado di Coccia e arriva alle linee alleate. 

Carlo Azeglio Ciampi, rifugiatosi a Scanno, dopo l’8 settembre, insieme all’amico Pasquale Quaglione e a Beniamino Sadun, ebreo di Livorno, affronta la traversata il 24 marzo 1944. Il diario di quel cammino e di quel breve periodo (marzo-aprile) è stato donato personalmente dal Presidente Ciampi al Liceo Scientifico Statale di Sulmona e pubblicato nel volume Il sentiero della libertà. Un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi (Laterza, Roma-Bari 2003). Il libro è nato dall’esigenza di offrire un supporto storico alla marcia da Sulmona a Casoli, Il sentiero della Libertà / Freedom Trail /Freiheitsweg / Chemin de Liberté /Camino de la Libertad, proposta dalle Associazioni degli ex-prigionieri di guerra, inaugurata  nel 2001 dal Presidente e proseguita  in questi  anni dall’Associazione culturale “Il sentiero della libertà/Freedom Trail” e dal Liceo Scientifico Statale “Fermi”di Sulmona, come lezione di storia lungo i sentieri del passato, ma anche come metafora del cammino dell’uomo verso la liberazione da ogni forma di schiavitù del presente e impegno per costruire un mondo fondato sui valori della Giustizia, della Solidarietà, della Pace. Il libro, che vuole essere soprattutto un vade-mecum per giovani studenti, delinea non solo la biografia di Ciampi in Abruzzo, durante la guerra, ma presenta anche brevi cenni sui principali testimoni di quel periodo: Gobetti, Rosselli, Ginzburg, Rossi, Capitini, Calogero e sulle teorie politiche di Giustizia e Libertà, del Socialismo liberale e del Liberalsocialismo.  «Un libro originale – ha detto Gabriele De Rosa – con intelligente impostazione, in linea con lo spirito d’uno storico come F. Braudel. Il vero protagonista al centro delle pagine è uno solo: il desiderio della libertà».  E Claudio Pavone ha aggiunto: «Una meritevole iniziativa nata nella scuola… Il protagonista del libro, Carlo Azeglio Ciampi, sente profondamente la responsabilità di non cedere, unificando i concetti di patria e di libertà, con schiettezza e realismo. Idee per le quali molti testimoni hanno dato la vita ed è bene che i giovani le conoscano e sappiano per quali valori valga la pena di vivere.»

*Mario Setta, scrittore