La realtà immersiva svela i segreti del faraone più misterioso d’Egitto
Una mostra a Padova celebra i cento anni dalla scoperta della tomba di Tutankhamon
Rompiamo il sigillo. Attenti ai gradini! Scendiamo. Qua e là i primi reperti fanno presagire che siamo sulla strada giusta. Un muro. Prendi il piccone. Abbattiamolo. Meraviglia. Una stanza tutta affrescata. Al centro, un sepolcro. Via il coperchio. Un sarcofago, poi un altro, un terzo tutto d’oro. Solleviamo anche questo coperchio. Eccola. La mummia di Tutankhamon con sul volto la meravigliosa maschera d’oro. Forse il reperto più famoso dell’Antico Egitto. Che emozione! Se è un’emozione per noi che stiamo vivendo un’esperienza virtuale, chissà cosa avrà provato l’archeologo britannico Howard Carter. Benvenuti al viaggio virtuale che permette di rivivere la scoperta della tomba di una delle figure più celebri della storia egiziana. Dodicesimo sovrano della XVIII dinastia del Nuovo Regno Egizio, Tutankhamon è anche conosciuto come il “faraone bambino”, perché salì al trono a otto anni e morì a diciotto (Amarna 1341 a-C. – Menfi, 1323 a.C.), in circostanze ancora discusse. Sicuramente, visto il suo breve regno, egli deve la sua fama più alla sua tomba che alle sue gesta.
L’esperienza immersiva, grazie ad appositi occhiali tridimensionali (progetto di Unsquare Life), è la “chicca” della mostra “Tutankhamon – La tomba, il tesoro, la maledizione”, organizzata da Discovery Time e promossa dall’Assessorato alla cultura del Comune di Padova. Partita dal Messico nel 2011, dove ha ottenuto un successo strepitoso, la mostra due anni fa è approdata in Italia, a Firenze (oltre quarantamila visitatori in tempo di pandemia), Napoli, Torino e, dall’11 novembre, appunto, a Padova, inaugurata nell’ex Macello di via Cornaro (fino al 12 marzo 2023), alla presenza dell’assessore alla Cultura, Andrea Colasio.
«Ci sono varie teorie relative alla morte di Tutankhamon – spiega l’egittologa Clarissa Decembri, curatrice della mostra -. Qualcuno parla di un incidente col carro, qualcun altro di una ferita al ginocchio, procuratasi in battaglia, e poi curata male e, quindi, infettata. I miei studi trentennali mi portano a dire che invece sia stato ucciso dal successore, il sacerdote Ay, perché non rispecchiava la stessa idea di religione di Stato. Non entro nel merito perché sarebbe un discorso troppo lungo. Fatto sta che Ay che, con un Consiglio di reggenza, aveva amministrato l’Egitto mentre Tutankhamon era in età minorile, alla morte di quest’ultimo, ne divenne il successore. Mai prima di allora un sacerdote era diventato faraone.
Pertanto, tutte queste “coincidenze” mi portano a pensare che un ragazzo di diciotto anni non fosse più malleabile o suggestionabile come quando era bambino. A diciotto anni Tutankhamon sapeva bene a chi apparteneva il trono. Forse iniziò a dire dei no e forse stava diventando scomodo, per questo si decise di toglierlo di mezzo».
Il connubio classico-moderno nella mostra padovana continua con un sistema di QR code: inquadrati con il proprio telefonino, permettono di “far materializzare” Howard Carter quale guida virtuale personale, a cui presta la voce l’attore Bruno Santini. Il 4 novembre 1922, cento anni fa, fu proprio Carter, con la sua spedizione, finanziata da George Herbert, conte di Carnarvon, ad entrare nella tomba KV62 nella Valle dei Re, l’odierna Luxor. Era il coronamento di un sogno, dopo cinque anni di scavi risultati vani. Quasi sul punto di desistere, perché Carnarvon minacciava di chiudere i rubinetti dei finanziamenti, il tenace Carter decise di fare un ultimo tentativo; l’impresa si protrasse per ventidue giorni. E finalmente si aprì una fessura nella via di accesso alla tomba. Da quel momento, prima di arrivare alla mummia, passarono altri due anni. All’apertura dell’ultimo sarcofago, comparvero la maschera funeraria e un meraviglioso corredo di oltre 5.000 fra gioielli, amuleti, armi, abiti, letti, catafalchi, e accessori vari. Nel suo viaggio verso l’al di là, il faraone era accompagnato da altre tre mummie, una di dimensioni adulte, probabilmente la moglie Ankhesenamon, e due piccole, probabilmente, i feti delle figlie. Questa scoperta portò luce sul periodo in cui Tutankhamon visse, sul suo regno, sulla sua durata e sulla genealogia della sua famiglia. Un ritrovamento epocale per la storia dell’archeologia, e che rese il faraone bambino immortale.
Ma torniamo alla mostra di Padova. «Va subito detto che gli oltre 120 reperti presenti sono delle repliche, perché i pezzi originali non possono viaggiare in quanto sono in attesa di essere tutti riuniti nel Grand Egyptian Museum, che sarà inaugurato a breve a Giza, città distante pochi chilometri dalla capitale egiziana – spiega Giacomo Cantini, responsabile della mostra, e socio della Discovery Time -. Sono però delle repliche fedelissime agli originali – la camera funeraria ripropone esattamente le dimensioni di quella di Luxor -, vengono dal Cairo, dove sono state autenticate dal Ministero delle Antichità Egiziano. Rendere questa mostra itinerante significa far conoscere la fantastica avventura di Carter anche alle persone impossibilitate a sostenere un viaggio in Egitto». Originali o copie, quando si parla di cultura egizia, in tanti accorrono, adulti e bambini. «L’Antico Egitto continua ad affascinare innanzitutto perché è una civiltà misteriosa, e il mistero da sempre incuriosisce – spiega la dottoressa Decembri -. Da questo punto di vista, gli egiziani sono sicuramente la civiltà più misteriosa che esista. A tutt’oggi non sappiamo neanche come hanno fatto a costruire le piramidi. Se lo chiedono anche gli ingegneri, che dovrebbero saperne abbastanza. E poi per Tutankhamon c’è un mistero nel mistero, quello legato alla presunta maledizione che avrebbe colpito inaspettatamente tutti coloro che parteciparono alla spedizione di Carter, come castigo per la violazione del luogo di sepoltura. La verità è che l’Egitto affascina perché è la madre di tutte le civiltà». In mostra c’è anche la riproduzione della testa di Tutankhamon bambino, un oggetto speciale per la dottoressa Decembri. «Lo preferisco tra tutti, perché è l’unica immagine che abbiamo di Tutankhamon piccolo, tutte le altre rappresentazioni sono di lui adolescente. Il viso è perfetto, i lineamenti sono unici. Vederlo così bello veramente mi spalanca il cuore. Ma io sono di parte. Avevo sette anni quando mi sono innamorata di Tutankhamon. Da allora non ho mai smesso di amarlo. Questo mi ha spinto a studiare la civiltà egizia profondamente. Finché, nel 2020, gli organizzatori mi hanno chiesto di curare questa mostra. Un caso o un destino? Io credo al secondo, ad un filo sottile che mi lega a lui da ormai 3.000 anni».
*Romina Gobbo, giornalista