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La poetica dell’esaltazione della poesia nell’opera A viva voce di Enrico Taddei* (Edizioni Setteponti, 2021, pp.130)

Recensione letteraria a cura di Salvatore La Moglie

Enrico Taddei, giovane editore, poeta e operatore culturale aretino di notevole spessore intellettuale, è certamente una delle voci più interessanti della scena letteraria contemporanea. La sua ultima silloge A viva voce,con Prefazione di Lia Bronzi, rivela quanto l’arte poetica sia connaturata in una personalità che mostra una sensibilità non comune: è come se l’autore ci dicesse che senza la poesia non riuscirebbe a vivere. Già il sottotitolo (mutuato da un verso del grande Mario Luzi: Vola alta, parola, cresci in profonditàPer carattere la Poesia vola appare come una vera e propria dichiarazione di poetica, oltre che di amore, e lascia intendere, appunto, che l’intento del poeta è proprio quello di esaltare la Poesia che non solo riesce a volare alto ma anche a rimanere nel tempo, come ci ha insegnato Padre Dante per primo e poi tutti gli altri grandi poeti dopo di Lui. La Poesia vola alto e resta mentre noi, qui sulla Terra, passiamo e continuiamo a vivere tra qualche gesto di grandezza e molte piccole miserie. Ebbene, il Nostro ci vuol ribadire, e a viva voce (non solo metaforica, visto che al volume è allegato anche un CD-Rom con le poesie declamate), che la Poesia è la sola cosa che possa riuscire ad elevare gli uomini e a porli su un piano superiore rispetto alla banalità quotidiana e alla banalità del male che l’io narrante contesta e contro le quali oppone, appunto, la diga della Poesia, della parola scritta che protesta, urla e cerca di fare luce in mezzo al buio dell’orribile realtà e di restituire l’umanità e l’amore a un’umanità che sembra perderle ogni giorno di più.

A viva voce è il titolo del componimento che apre la silloge e la apre a mo’ di proemio (Apertura) con un’apostrofe al lettore: A voi…: a voi che leggete, a te lettore ti voglio dire, che siccome la Poesia per carattere vola, io avverto l’esigenza, l’urgenza di incidere su carta in quanto la parola rasserena / il cielo e più scava la terra / dentro i nostri sé: la parola poetica è salvifica, ci aiuta nello scavo interiore, nello scavare nelle profondità del nostro io e a farci conoscere meglio. Perché cantando il duol si disacerba ha lasciato scritto il sommo Petrarca, e il suo verso ci viene alla mente anche perché sappiamo quanto la Poesia lo abbia aiutato in quello scavo nella vita interiore dilaniata tra attrazione per la materia, per la terrestrità e attrazione per lo spirito, per l’Assoluto. La Poesia è rivelazione, svelamento, conoscenza più approfondita del nostro io, della nostra umanità e le sue strofe appaiono, pertanto, nel filo come le perle.

La preziosa raccolta è suddivisa in sezioni e, dunque, la prima (Avanretrò) si apre con la lirica Mortificatio nella quale  l’io poetico narrante lamenta e si mortifica per il fatto che, ormai, nel mondo reale come in quello virtuale, noi uomini sembriamo essere stati resi / inermi immemori… / vegetali virtuali  e che come la nera pece / viscosi ai sentimenti / marciamo interdetti ormai immersi nella putredine di una realtà allucinante e di un mondo alla rovescia. Intanto, nella poesia La frattura l’io poetico avverte che se non trova senso il verbo, cioè la parola poetica, il risveglio io voglio e il nulla io grido / se non trova voce il canto, perché solo il canto, la poesia può riempire il vuoto dell’esistenza e, quindi, riempirci la vita. Una vita che sembra fatta di cartongesso, come recita la lirica successiva, perché, nell’esplorazione interiore, affiora la consapevolezza della sveviana inettitudine alla vita e del senso di sconfitta dell’uomo moderno: Non riuscire a vincere / meno ancora a vivere…/ Non riuscire a volare / meno ancora a vivere, ripetono, come un ritornello, gli ultimi versi. (Sia detto per inciso, la tecnica del ritornello, del refrain, come nelle canzoni, è una tecnica ampiamente utilizzata dall’autore, il quale, a volte, riporta uguali le parole mentre altre volte ne cambia qualcuna).

In C’era la neve l’io narrante esalta l’amore attraverso il rimpianto di un amore finito, forse perduto per sempre: C’era la neve dove nasceva / questo maledetto amore: maledetto perché lo fa soffrire e, infatti, subito dopo dice: C’è che l’addio di un attimo / in pieno viso mi ha colpito: è stato peggio di un pugno in pieno volto quell’attimo che ancora brucia tanto che sembra averlo ucciso a poco a poco e, questo, lo dice nel refrain: C’è che l’addio di un attimo / piano nel tempo mi ha ucciso. E poi ricorda che la neve continua a cadere e a ricoprire memorie e, adesso che è solo, lo ricorda ancora di più ma sempre pensando a lei che non c’è, all’amore perduto…

Il nostro poeta canta più di una volta l’amore e lo esalta come fa nella lirica Morire d’amore e, infatti, scrive che mi annullo per te e più avanti: Morire d’amore / d’amore per te / una volta morirò e, rivolto all’oggetto d’amore, gli dice che fa male la fine della tua presenza / ibernata la scala dei sogni di ieri. E sono versi, come tanti altri, difficile da dimenticare e Taddei è maestro nel creare versi che restano in chi li legge. 

Nella stessa sezione leggiamo ancora un testo, alquanto visionario, che ci sembra di un certo impegno civile e comunque di contestazione di un mondo in cui la paura, il terrore e il male sembrano dominare la nostra vita: Nel terrore, un vivere, recita il titolo e, nel corpo della lirica leggiamo: Qua, la paura sbatte sulla libertà…/ In città coprifuochi e vittime innocenti / chi vuole l’innesco e perché ripetersi? / Nel terrore, un vivere / grida, ma  non si sente. / Non si vota mai la sequenziale guerra / le case sventolano la pacifica bandiera. / Logico male udire in fuse democrazie / guidate da gonfiate teorie finanziarie… E tutto questo nella consapevolezza che non c’è tempo…/ tempo la vita non te ne e che la vita va vissuta perché sacra è la vita / e sacramente la vivrò (In questa notte che non va).

Intanto siamo nella seconda sezione (Le rose in dicembre) e il Nostro cita Omero: …diceva parole alate, e non è citazione a caso ma ben diretta a quell’esaltazione della parola (la parola poetica) che già si è vista, la parola capace di mettersi le ali e di spiccare il volo per volare alto. In Personalmente leggiamo che le rose in dicembre sono come un miracolo e il poeta le fa parlare e loro, alla fine, dicono che in dicembre è come essere rinate e che sanno che questo non è altro che amore. Segue una poesia di protesta e di contestazione nei confronti della realtà e del mondo ovvero delle cose che non vanno: Tanto ti oltrepasso, recita il titolo e subito si legge che: In qualsiasi stato sviluppato tu vada /  vedrai ovunque rovine di quel che fu, / molto di più la gente malinformata.  E, più avanti: Tanto ti oltrepasso… issata muraglia, / per imposte dottrine e inutili guerre / non si giustifica Gerusalemme divisa. / Se volete credere, credete e basta… / Tanto ti oltrepasso… venduta libertà, / errando per le non identificabili città / questo mondo di sicuro non cambierà. / Ma puoi cambiare te, disperso essere… Se non è possibile cambiare il mondo, possiamo almeno cambiare noi stessi; l’uomo, essere ormai disperso e smarrito, può almeno provare a cambiare se stesso e il suo cuore; e questa conclusione appare come un grande nobile e umanissimo messaggio che il poeta vuole lasciare, tra tanti altri, ai suoi lettori di oggi e di domani.

Il tono polemico e di contestazione dell’io poetico narrante lo ritroviamo nella terza sezione dal titolo emblematico: Piove lava e tira vento. La prima poesia che troviamo è polemica già nel titolo: Che teatrino il mondo! I primi quattro versi contestano e protestano contro l’inquinamento generale delle menti, una sorta di consapevole intossicazione mentale che fa riflettere sulla tristezza del mondo: Piove lava e tira vento sull’umanità / inquinamenti nelle consce menti / mastica e sputa come potrà bastare / a calmare la tristezza del mondo. E questo lo urlavo forte… / ma non serviva a un bel niente… Resta il fatto che il mondo è un teatrino e che ci sono cose in queste società (occidentali) / da non dovere e da non dire / se vogliamo poi salva la pelle / tra noi pronti a correre il rischio. E pensare che (Dio) quell’architetto lo progettò bene e bello / il teatrino del mondo. Nonostante tutto, però, la conclusione è speranzosa: si vivrà unendo il micro al macrocosmo, / intreccio valido al pianeta Gea.

Nella lirica Solitario l’io poetico narra di ennesimo dolore e di cosmico gioco con uomini ridotti a sopravvivere mentre, sfogliando la sezione, più avanti, nei versi de L’ossesso, ad essere contestato e rifiutato come animalesco, come gesto meccanico, da arancia meccanica, è chi chiede il rito d’animale, l’atto sessuale; / un darsi ossessivo senza il sentimento, perché senza sentimento, dopo l’atto bestiale c’è soltanto il deserto: Il deserto del sesso, per citare il titolo di un libro di Leonida Repaci. Nella lirica successiva (Alle madri mute) il tema affrontato è quello della violenza sessuale, di genere e la relativa paura di tante madri di reagire e denunciare la violenza subìta dalle figlie e l’io narrante protesta contro la vile accettazione / del mondo come appare. E poi c’è la Maledetta provincia che, soprattutto ai più giovani, rende la vita agra, amara, grigia e scialba: Maledetta provincia / non liberi mai / i sognanti figli / schiacci fantasie / innalzi ritrosie…/ Maledetta provincia / colonia metropolitana / opprimente inferno / sei deserto ed angolo / in diluviante siccità… E pensare che: C’erano una volta…/ veri incontri di individui / attirati dalla conoscenza / e persone non alienate / nella falsità omologate

Certamente di impegno civile e di grande contestazione è la poesia che segue: Diritto dovere: i cittadini hanno il diritto-dovere di protestare e di ribellarsi contro i governi che, con cattive leggi,  calpestano la bellezza del paesaggio d’Italia e contro chi specula in maniera criminale e violenta per il proprio particolare interesse, per denaro: Nostro diritto dovere / contraddire ai governi / qualora essi legiferino / come han fatto e fanno / contro la costituzione / della bellezza d’Italia / a favore di chi specula / con criminale violenza.

La prima poesia della quarta sezione (Canto e controcanto. Per la ricostruzione della socialità) si intitola, emblematicamente, La costruzione dell’umanità. Questa volta, pur con linguaggio ed espressioni piene di simbolismo, i versi si fanno meno ermetici, forse perché il poeta avverte la necessità di parlare più chiaramente al suo lettore, affinchè il suo messaggio nella bottiglia venga compreso bene e fatto proprio. Per la costruzione dell’umanità (non ricostruzione: per il poeta siamo ancora alla preistoria dell’umanità…) occorre che la cattività,  cioè l’essere prigionieri, sia messa in fuga insieme alla malvagità, perché si deve prendere atto che la realtà non va bene per nulla ormai da tanto tempo, da tempo immemorabile; bisognerebbe far risorgere la coscienza, riuscire a far stare bene insieme la gente, in pacifica rivoluzione con l’amore che ritorna a dominare i cuori degli uomini; occorrerebbe che a prevalere fosse anche la pietà e non la crudeltà, la cattiveria, l’egoismo: l’uomo potrebbe rinascere nel proprio intimo, nella sua anima e rinnovarsi con un nuovo sorriso sulle labbra; la libertà, la sapienza e la serenità dei cuori dovrebbero essere le nuove bandiere di questa lotta per la costruzione dell’umanità: Canto che la cattività vada via / e che la malvagità la segua, / da spersi tempi la realtà non va. / Canto per i giorni della coscienza / e per la riunita gente, / canto per la pacifica rivoluzione, / che l’amore ritorni. / La costruzione dell’umanità / si impasta con la pietà / e bisogna sentirla nostra. / Rinascita in noi esseri umani, / che il sorriso cambi. Solleviamo in alto la libertà / destiamo di sapienza la mente / riempiamo di serenità il cuore / perché tocca a noi di lottare.

Alla costruzione dell’umanità – vera e propria rivoluzione – occorre dedicare tutto il coraggio e dunque, il poeta, nella sua visionarietà, prosegue dicendo che: Canto per le virtù in estensione / e per i ripuliti affluenti, / canto per l’invocata rivoluzione, / che mutamento sia. E, alla fine, di nuovo un grazie alla vita con la promessa di svolgere il proprio compito, anche  fino alla morte, se ciò sarà utile alla costruzione dell’umanità e, poi, anche un grazie al verbo, alla parola, perché è proprio grazie alla parola, al logos che esiste l’uomo, l’uomo che, pertanto, si distingue dalle bestie e afferma la propria dignità e la propria superiorità sugli esseri inferiori: Grazie a te vita / adirò al mio compito / finchè la morte mi consumi / in qualche modo sarà utile / alla costruzione dell’umanità. Grazie a te verbo / tramite te esiste l’uomo.

Ma quest’uomo dotato di parola e di intelligenza più che costruire è portato a distruggere, a fare le guerre e quant’altro e, così, nella lirica successiva, Canto contro (Controcanto), la voce polemica e contestataria dell’io narrante si leva contro tutto quello che non va, contro le incongruenze e le contraddizioni di questo assurdo e pazzo mondo che si presenta come incapace di emendarsi. E,  dunque: Canto contro il falso difendersi / contro le missioni di pace, / le speculazioni su su fermentate. / Canto contro lo spanto marciume / contro la voluta ressa, / canto contro l’indotta involuzione, / l’odio tornerà a crescere. / La distruzione dell’umanità / si impasta con la crudeltà / e sentitela colpa vostra. / Perdita di voi esseri umani, / che mentite alla gente. / Sollevate in alto le muraglie / destate di violenza la mente / riempite di rabbia il cuore / perché siete voi ad inquinare…/ No all’involuzione dell’umanità! / Canto contro l’inutile burocrazia / contro la finta meritocrazia, / canto contro l’agitata involuzione, / le teste vantate d’ignoranza. E, in conclusione,  il messaggio finale in cui si esalta la resistenza dell’esistenza come barriera all’involuzione dell’umanità per dire un no secco e definitivo al razzismo e all’ingiustizia che domina nelle nostre attuali società: Il controcanto che io canto / è la resistenza dell’esistenza, / senza mezzi e modi brutali / in qualche modo sarà d’ostacolo / all’involuzione dell’umanità. / Canto contro il razzismo / contro l’ingiustizia sociale.

Il primo componimento che si legge nella quinta sezione (Prime celebrazioni) si intitola E il sole l’accendo io. Qui l’io poetico narrante ci dice che lui disfa il non esistere e che sarà lui ad accendere il sole coll’incontro dell’essere / capace d’amare l’umano e lo farà volando e osando parole / attorno alla forgiata mente / libero d’incarnare me stesso: perché è nel cuore la vera luce che ci può illuminare e farci dire: ti amo. E se sono io ad accendere il sole, allora si schiarisce la mia notte.

Il tono simbolicamente e anche alquanto ermeticamente visionario e sognatore prosegue nei quattro versi di Promemoria, come dire che sta per pronunciare cose memorabili, da tenere ben custodite nella mente: Ai sogni non appesi alle stelle / ci credo e dedico giuste ore, / in calibrati progetti ed azioni / vedrò quelli accendersi veri. Sognare è bello e un uomo senza sogni non vale nulla e il sognatore, sembra dirci la poesia successiva (Il volatore), assomiglia al volatore che, infatti, non spreca la vita: sognare e volare alto col pensiero è già vivere e impiegare bene l’esistenza, immaginarla su e in dimensioni fuori dalla banalità quotidiana che uccide. E poi, oltre al sogno e al volare alto magari con le parole, c’è sempre l’amore (Amore uguale) come àncora di salvezza, l’amore che è toglimento di morte, l’amore che è vita, valore universale da difendere, bastione contro l’odio e la violenza.

In Dea madre l’io narrante lamenta che sulla Terra: Sono tempi in cui si tira a campare / in assalto da reiterate alienazioni / ma vivo l’odore di scambi di gesti, / parlando scarto macchiate carte / e dico ciò che vedo e sento verità, nella consapevolezza che non siamo dei sopravvissuti / noi abbiamo sperato e lottato ma anche che la parola scelta, / eterna il necessario seme / e rende vacua la morte (Nel giardino della regina). E se la mente vola e non viene deriso il sogno, allora l’io si sente non più prigioniero  e, quindi, più libero (Non più prigioniero) e se siamo consapevoli che siamo solamente di passaggio, provvisori ed effimeri, all’ora l’imperativo categorico dev’essere costruire felicità (Imperativo), forse perché siamo alberi noi, / tutti quanti in contatto…/ fratelli d’un’unica semina, in piena fratellanza universale.

L’io poetico narrante, proiezione del poeta che lo fa cantare, nella sua tensione verso un nuovo umanesimo e una vera fratellanza universale fatta di pace e di solidarietà, continua a lanciare i suoi messaggi in bottiglia e, nella sesta sezione (Non è l’inferno se restiamo umani), troviamo subito una lirica in cui si contesta e protesta: Di questi nostri tempi, tempi di maledetta pandemia da Coronavirus e di lockdown che ha mietuto tante vittime ignare e ha generato ulteriori diseguaglianze: Grande fu il sacrificio / delle genti ordinate con civiltà / per arginare il contagio…/ Noi sospesi al cielo ripulito / di questi nostri tempi, / così piccoli e sensibili / alle diseguaglianze in evidenza, / al vostro nero che offende / l’appalesata fratellanza / fosse stata perfino cecità. Ma l’io narrante, alla fine, lancia quasi un urlo disperato: …rivogliamo la viva parola / di lei si nutre l’essere umano, come dire che l’uomo non può fare a meno del logos, della parola e se qualcuno pensa di togliergliela o di togliergli la possibilità di pensare, di comunicare, di scambiare un dialogo con il proprio simile ebbene, allora, si ribellerà con tutte le sue forze e, infatti, in Fiorita mente esprime ancor più chiaramente il concetto quando si avverte che:  Veramente io vivo lo stesso / la libertà di pensiero non si reprime / neppure in carcere, figurati se in casa! E l’io poetico, con orgoglio, sottolinea che con il pensiero critico dubito, / una fiorita mente utilizzo… E, alla fine, lancia l’accusa contro chi utilizza la crisi come alibi per far  lavorare a basso costo e, dunque, via via natura maligna dell’uomo. Se la pandemia (L’oro diurno) ci catapulta improvvisamente nel non tempo di lasciare tutto, allora si fa forte l’esigenza della salvezza e della bellezza di fronte ad una realtà davvero poco attraente: …ma noi la salvezza ritorneremo a seguire…/ ma noi la bellezza ritorneremo a toccare. Anche in Notti di pandemia si avverte pure l’esigenza cogente di dare senso a stracci di vissuto e, magari, si potrà vedere l’essenza in un istante, mentre ondeggia il cuore nella stanza / sudario del non quieto spirito / se i sogni sono solo profezie. E, poi, rivolto alle notti assurde e inquiete a cui il Covid-19 ci ha costretti nella sua prima tragica fase, domanda come a se stesso: Ditemi, notti di pandemia, / il corpo valica il limite metafisico / e la pietà piega ancora l’umano? Ci stiamo disumanizzando o, peggio ancora, postumanizzando? No, non può essere così, non deve essere così perché: La vita è strada e incontrarsi / la realtà virtuale non esiste / oggi è già libertà il capirlo. La vita è quella che si vive nella realtà, per le strade e la realtà virtuale è quella che è, pura illusione e alternativa che non soddisfa più di tanto e, comprendere questo, è già avere come la mente libera e non prigioniera. Per fortuna, però, c’è l’amore (Inevitabile imprevisto), questo grande sentimento che riesce a farci resistere al male e adattarci al peggio: È resistenza l’amore… / È adattamento l’amore… e: Se non dimentichiamo la bellezza / il convivere ridona la sapienza / che vincerà ogni cosa con la forza, sottinteso, con la sua particolare forza, con la sua particolare virtù. Alla fine, quel che più conta è ritrovarsi vivi, soprattutto vivi dentro di noi e con più consapevolezza (Ancora vivo) dopo tanto male e tanto dolore, dopo la bufera direbbe Montale, dopo la penombra che abbiamo attraversato direbbe, dal canto suo, Lalla Romano: Dopo l’ineffabile male subito / al momento io ancora vivo, / e più conscio e più amo… / Dopo l’insondabile dolore visto / al momento io ancora vivo, / e più conscio e più spero… / e pretendo un’era migliore dopo un tempo che ha mietuto tanti innocenti.

La sezione si conclude con altre due liriche. In L’Italia muore il poeta protesta e contesta una realtà che sembra voler mortificare e umiliare l’uomo: Non facile guadagnare il pane / chiediamo la dignità di lavorare / di mantenerci da noi stessi, / la libertà di silenziare il telefono / la domenica per vivere all’aperto. E in Per rivedere le stelle (titolo mutuato dal celebre verso dantesco a chiusura dell’Inferno) si legge che dopo tante giornate di quarantena e di morte non resta che un messaggio di speranza, la speranza che sarà l’amore ad aprire la finestra che ci consentirà di rivedere le stelle, la luce dopo la tenebra della pandemia assassina, assassina anche delle nostre psicologie: Il messaggio che voglio scrivere / si impasta tra i cinque sensi, / i sentimenti e la spiritualità, / è l’amore che aprirà la finestra / per rivedere le stelle.

Questa tensione alla speranza e alla luce dopo il tunnel della pandemia universale ritorna nella settima sezione (Innestando) dove, a mo’ di frontespizio, è riportato il verso terminale dell’Inferno di Dante: E quindi uscimmo a riveder le stelle. La prima poesia che si incontra è intitolata Libero il mio spirito e i versi che si leggono sono alquanto ermetici ma tuttavia vi si legge quella tensione vibrante di fare qualcosa per l’umanità, anzi per l’anima dell’umanità che merita salvezza nell’uguaglianza degli esseri umani: Il mondo resta fermo qua / ed io passo e me ne vado / a dare vita all’anima dell’umanità. / Libero il mio spirito, / ribelle d’impulso alle disparità… Più avanti Con gioia (così recita il titolo) l’io poetico narrante ci dice che non rinuncia al sogno, anzi è il sogno che gli dà il coraggio di continuare nella quotidiana convivenza tra uomini e di mettere in fuga, di spazzare via le incertezze di sempre: Il sogno mi suggerisce il coraggio / per vedere il quotidiano convivere / per  spazzare via le solite incertezze, / almeno per adesso riesco e riuscirò… La poesia successiva (I fuochi della festa di San Giovanni) è dicotomica, cioè si dibatte tra i due fondamentali poli, tra le due essenziali dicotomie cioè quella del particolare e quella dell’universale, del microcosmo e del macrocosmo in cui siamo da sempre gettati, direbbe Heidegger, e sappiamo che quel microcosmo che è l’uomo non è altro che una proiezione del macrocosmo che è il mondo: Continueremo a camminare domandando / esistono il bicchiere d’acqua e il mare / esistono l’universale e il particolare. / Il particolare un ritaglio dell’universale / l’universale un gran contenitore, / guarda con critica la conoscenza / e la cultura si sublima in sapere. / Laddove il microcosmo si rispecchia / nel macrocosmo e viceversa… E più avanti, in Pietra viva, l’io narrante conclude che lui era da sempre alla ricerca del vero, della realtà e della verità mortale attraverso la trascendenza per poi poter giungere, lui microcosmo, all’universale in cui si riconosce: Cercavo il mortale vero / sintesi di diecimila esseri / per la via trascendentale / e adire all’unversale.

La silloge si chiude con la sezione Chiusura e cita Eraclito: L’intima natura delle cose ama nascondersi. Si legge una sola poesia: Rispondimi. L’io poetico narrante si rivolge al suo amore e gli dice: Leggimi seguendo il tuo vivere…/ Il futuro è dietro in agguato / saremo come sposi quando accadrà, / la passione sia nel lavoro / la curiosità nel tempo libero / e sempre viceversa. / Rispondimi con lettere scritte / in corrispondenza con viva voce, / bagliore di lucentezza nell’oscurità / ci appelliamo al vero dialogo… / ci appelliamo al vero incontro. Poesia che è tra le più ermetiche, simboliste ed oscure di tutta la raccolta, una raccolta in cui Enrico Taddei riesce poeta convincente, giunto ormai al possesso di un proprio stile dopo tante letture, tanti maestri (i classici del passato come quelli dell’800 e del 900) e tante prove che un poeta fa prima di pervenire a certi livelli. E il livello a cui è pervenuto il nostro giovane poeta è davvero alto. Noi lo attendiamo con fiducia a nuove prove, certi che non saremo delusi e che, anzi, egli si mostrerà capace di superare se stesso e sempre più in alto, a viva voce, insieme alle sue alate poesie. In volo verso l’eternità.

*Enrico Taddei, nato nel 1985 a Figline Valdarno (FI), vive attualmente a Castelfranco di Sopra (AR). Si è laureato alla Facoltà di Architettura di Firenze e ha esordito con il libro di racconti Gli amori dell’altopiano (2013). La sua opera prima di poesia, nella lingua della gente di Firenze e del suo contado, è Viottole fiorentine (Masso delle fate, 2014). Tra le sue opere successive il primo libro di versi in italiano Delle favole da durare (Masso delle fate, 2014), il volumetto di poesie e prose poetiche in dialetto veneziano Caminàde có ón veneziàn (Edizioni del Faro, 2015), un saggio sul valore poetico dei testi delle canzoni di Mia Martini (edito per BastogiLibri, 2016) e la raccolta di poesia dal titolo Canti Umani (Edizioni Helicon, 2018). Come operatore culturale è stato membro del Consiglio Direttivo dell’associazione culturale “Montevarchi Arte” e Presidente, dal 2018, del “Giglio Blu di Firenze” per il quale dirige la rivista italiana di arti varie Luogos e, inoltre, organizza letture collettive di poesie, presentazioni di libri e concorsi internazionali letterari ed artistici, di cui si ricordano il “Premio Giglio Blu di Firenze” e il “Premio Città di Montevarchi”. È membro di giuria in vari premi letterari tra i quali i concorsi “Molteplici Visioni d’Amore – Cortona Città del Mondo” del Lions Club di Cortona, “a Vento e Sole” di Asciano (SI), “dai Monti ai Laghi” di Varese, “Isola d’Elba – Ascoltando i silenzi del mare”. Sue note critiche sono apparse su alcune raccolte di poesia delle Edizioni Helicon e nel Dizionario degli Autori della BastogiLibri. Collabora con l’Editoriale Giorgio Mondadori, come redattore e grafico per singole pubblicazione di alcuni Autori. È dal 2019 che fonda e dirige la casa editrice Edizioni Setteponti, portando avanti, con passione e dedizione, il suo lavoro di editore.

*Salvatore La Moglie, poeta