La poetica delle dolorose memorie e del rimpianto di ciò che è stato nell’opera Fiori di campo nel cuore di Lia Bronzi
Autrice di alcune notevoli raccolte di poesie, curatrice di tante altre, instancabile operatrice culturale nonchè saggista di grande valore, Lia Bronzi è certamente una delle voci poetiche più significative e autentiche della letteratura contemporanea e l’ultima silloge Fiori di campo nel cuore (Edizioni Helicon, 2020) conferma questo nostro giudizio.
Fiori di campo nel cuore si presenta, in buona parte, al lettore, come una sorta di cronaca familiare in cui a prevalere sono gli affetti familiari, le persone più care, ovvero le dolorose memorie di esistenze, di tranche de vie e di un tempo della nostra vita che sono stati, anche felici, ma che ora non sono più e la cui assenza viene rimpianta con struggente nostalgia. Al cuore dolente dell’io poetico narrante viene, però, in soccorso, come un faro nel cuore della notte, la poesia, l’ispirazione poetica che sublimando il dolore in versi, fa nascere dei meravigliosi fiori che sembrano, appunto, come fiori di campo – papaveri e fiordalisi – venuti alla luce spontanei tra zolle/ e grano maturo a far/ carezze al cuore dolente. Poesie che sbocciano dal letame (letame – laetare – allietare) della “terra desolata” ma ricca del nostro cuore e della nostra anima e che hanno proprio la funzione di alleggerire e allietare la nostra dolorosa esistenza. Lia Bronzi sa che anche volendo razionalizzare al massimo il nostro dolore e il nostro scontento, il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce e non capisce (ci ha insegnato Pascal) e che solo nella trasfigurazione letteraria, poetica riusciamo a dar loro una voce capace – ripeto – di alleviare e anche di allietare la nostra sofferenza e di eternare persone, immagini, momenti, ecc. che, altrimenti, andrebbero perduti e dimenticati per sempre.
E così troviamo poesie dedicate a Elsa, la madre generosa e altruista che nulla chiedeva per sé ma solo donava; poi, nello scorrere mutevole/ del tempo, in ricami di spazi, ci sono Lucio, Paolo e l’amatissimo fratello Sandro andato via la sera della vigilia di Pasqua/ una sera di felicità inquieta in cui lui, consapevole dell’imminente addio al mondo terreno, si era chiuso nei grandi silenzi/ che precedono il distacco dalla vita. Resta il rimorso per non aver capito, ma, nella notte di dolore, quando la speranza tace, ecco che sembra di sentire la tua voce carezzevole e di vedere la tua immagine che indica una via senza tempo/ verso spazi infiniti/ dove regna eterno il profumo delle rose e, con questa visione paradisiaca, l’angoscia si scioglie/e diviene poesia. E poi c’è la grande figura paterna, che riappare nella mente della poetessa come cosmica folgore/ dal baleno del sogno e resta il rimpianto per le parole che tacqui…/ le parole d’amore che tacqui ma il legame di sangue/ non teme il tempo e, in questo transitar d’inquiete ore non resta che inviarti parole…/ per darti l’appuntamento a fine vita. La speranza resta sempre quella di potersi rivedere poi in un altro mondo, un mondo di pace e di amore.
La cronaca degli affetti familiari prosegue poi con Grazia, la belladonna, e i figli per i quali l’amore è così grande tanto che per voi la vita andrà oltre la vita, cioè oltre la morte perché l’amore è così forte da vincere persino la morte. Seguono delicati versi per Rolando, per i nipoti Marta e Niccolò, figli dei suoi figli, e poi per Tommy (angelo biondo/ che trepidamente vegli/ su di noi), per il quale tace… la mia parola mentre l’anima più stupori non ha/ né tumulti, né consolazione,/ stretta com’è nel dubbio/ dove non abita il Signore; e ci sono versi anche la nonna comunista, madre della madre della poetessa, che sapeva come mandare avanti la famiglia ai tempi del fascismo e che lei ha sempre amato soprattutto per quel saper/ accontentarsi di niente.
Una parte della raccolta è dedicata alle quattro stagioni dell’anno (Sinfonia di stagioni) e ogni poesia è come un momento della nostra esistenza, un paesaggio dell’anima. Colpisce in modo particolare la lirica dedicata all’autunno: l’io narrante esprime il proprio dolore per la giovinezza che non c’è più e, nel rimpiangere il tempo passato che più non tornerà, esprime con versi di grande forza poetica la propria voglia di vivere, di sentirsi viva e succhiare tutto il midollo della vita (direbbe Thoreau) nel gesto di stringere, con avidità, gli acini, rossi d’uva, perché quel succo rappresenta anche la speranza: Oggi, che il tempo e l’ora/ ingrata segnano lo stanco/ stormir di foglie, vorrei/ a pugno strizzare acini, rossi d’uva, per suggere/ avida il succo, come fa/ con il nettare l’ape,/ che di fiore in fiore/ si posa, simile ad un’idea vaga, dentro la speranza.
Nella sezione Miscellanea si possono leggere poesie dedicate a Hiram, la cui esistenza era finita nel labirinto doloroso/ della malattia per trovare, alla fine, la pace nell’eterno abisso di luce che ci avvolgerà dopo e ci ripagherà di tanta sofferenza vissuta magari in solitudine. Ai suoi figli dedica la struggente lirica Camini di Poggio Asciutto, dove l’autrice ha vissuto e trascorso tante primavere ma ora sente che è sul viale del tramonto e non resta che il ricordo del tempo e dei momenti che sono stati e che più non ritorneranno; la stessa fiamma che finora ha avvolto le ferite del cuore e dell’anima sta perdendo la sua forza, la legna del caminetto non arde più ma si è fatta cenere bianca e a regnare non è che il silenzio, il silenzio anche sul dolore stesso: è giunto il momento di stare nella più completa solitudine, sola con le proprie dolorose memorie, alcune anche belle, fatte magari di piccole gioie, di sorrisi e commozioni che vorremmo come scolpire nella nostra mente e nel nostro cuore: Ora smuore la fiamma/ che leggera avvolge/ le ferite del cuore,/ la legna si fa cenere bianca/ regna il silenzio sul dolore./ È tempo di solitudine/ di mia vita.
Sempre con splendidi versi liberi, mai legati da una particolare esigenza metrica, la poetessa prosegue, in Il campo di grano falciato, con le antiche memorie e, con disincanto, conferma di trovarsi verso il quadrivio del niente, consapevole, sempre di più, che è ormai giunta l’ora dell’Amen,/ dove per tutti è destino/ ritornar per sempre. Dopo i silenzi incantati di neve in Rosa tea, l’attenzione lirica è ancora sul tema della morte che si avverte imminente e incombente e, così, ne Il giorno del Signore, si legge che percorrerà la via del non ritorno e metterà in fuga per sempre il dolore dei ricordi.
Non manca, nella silloge, una Sezione esoterica nella quale il verso si fa più difficile da decifrare e impone uno sguardo più profondo anche perché l’io poetico narrante sposta l’attenzione dalla propria dolente esistenza alla realtà del mondo, una realtà in cui dominano il Male e il dolore che gli uomini si fanno l’un l’altro e in cui Dio sembra essere, ormai da tempo, uno spettatore delle sciagure umane. In Ossimorico sillogismo la poetessa si rivolge direttamente a Dio chiedendogli perché a vincere oggi/ sono solo odio e perversione, ma poi c’è anche chi prega lo stesso dio sotto altri nomi (Javè e Hallah), da altri punti di vista… Mentre gli eredi laici di Voltaire e di Monod direbbero che basterebbe applicare lo slogan Libertè, fraternitè, egalitè con in più giustizia, pace e acqua/ per tutti con amore per creare un mondo migliore. Purtroppo, però, si tratta di una battaglia da tempo perduta…
Tra queste poesie rimane impressa quella intitolata “Sparsa colligere” et “Integrare lacerata” in cui la poetessa parla di realtà dissolte, moltiplicate/ in fragili pareti di frammenti/ che a pienezza colmai/ sol con l’amore per l’umanità, che è, poi, la cifra del grande poeta che non scrive in solitudine solo per sé ma soprattutto per l’intera umanità, perché il poeta scrive per amore degli uomini. Ridurre il poeta e la poesia ad un atto solitario, individuale ed egoistico sarebbe una grande sciocchezza e questo Lia Bronzi lo sa benissimo. Basterebbe pensare solo a quel capolavoro assoluto che è la Divina Commedia per comprendere quello che abbiamo appena scritto: la Commedia è un progetto di salvezza per l’umanità, pensato e scritto dal Sommo Poeta per amore dell’umanità.
Intanto, il tempo se ne va, recita il titolo di un’altra lirica. Vola incessante il tempo e non resta (…Eppure) che la speranza per poter allontanare per sempre la paura/ per nostra sorella corporale morte, come direbbe San Francesco d’Assisi. Alla fine, tuttavia, resta pur sempre l’enigma della vita (così il titolo) e il problema esistenziale di dare un senso alla nostra esistenza, se non vogliamo essere simili alle bestie. In questo enigma che è la vita, gli esseri umani appaiono all’io poetico narrante come simili a gravide spighe di grano e a pensieri fuggiaschi, appunto, alla ricerca di un senso di vita. E come le spighe spandono a terra gli inutili chicchi, similmente fanno le cellule grigie (della nostra mente) che muoiono ad una ad una per mai più tornare/ alla casa madre di sempre, portando via con loro pensieri, amori, ricordi,/ nel duro enigma della vita che, per fortuna – lascia sottintendere l’Autrice – è fatto di follia e magia che riescono a lenire il dolore dell’anima.
Infine, un’altra parte della silloge – Parola poetica in altro modo detta – la poetessa dice che da sempre muovo/ in sentieri di rose: rose bianche, rosse, tee, dorate… e, oggi, mentre l’ora tarda avanza,/ solo le spine tengo/ di rose/… e stringo in pugno/ una rosa nera…/ da regalare a te/ nell’ora estrema che conduce/ al nebuloso vortice/ del nulla. In Paesaggio aretino, alla fine, l’io poetico narrante ci offre l’immagine di un paesaggio che è soprattutto un paesaggio dell’anima in cui a dominare è il silenzio che parla più di ogni parola: Svetta nel suono muto/ del tempo, il dondolio/ commosso del cipresso nero,/ che vigila la mia casa/ di pietra, mistico/ spazio, abisso di silenzio/ dove si consuma/ l’anima mia.
Il sentimento del tempo che scorre inesorabilmente mentre per noi giunge la sera, ovvero la morte col suo profondo mistero e, insieme, il sentimento dell’eternità che solo possiamo racchiudere e fissare con la parola poetica, sono temi presenti nelle poesie di Lia Bronzi e si fanno sempre più struggenti e dolenti man mano che l’io poetico narrante avverte l’urgenza di opporre al dolore, al male di vivere e alla morte che tutto dissolve la forza della parola poetica che, pertanto, diventa unica via di salvezza pur nella speranza che dopo ci possa essere un campo di fiori in cui la nostra anima possa finalmente vivere in una pace e in una quiete che sulla terra non riesce a vivere e in cui la forza dell’amore appare trionfare in eterno nei pascoli del cielo (direbbe John Steinbek). E, così, nella lirica Per sempre, rivolgendosi probabilmente al compagno di una vita che non c’è più, scrive che per sempre da me/ ritornerai nel sogno/ a lenire dissolvenze/ e smarrimenti dell’anima/ mia dolce alterità/… e dal vasto silenzio/ mi sorridi, lieve/ mi sfiori in un bagliore/ d’eternità e disperdi il dolore/ che tutto mi appartiene/ e amaro dentro mi brucia…
Pantarei, ovvero l’eracliteo tutto scorre, tutto diviene, è una delle liriche più belle di questa raccolta. L’io narrante dichiara il proprio sgomento di fronte al divenire, allo scorrere inesorabile del Tempo che tutto travolge e fagocita, mentre noi, così fragili e consapevoli della nostra finitezza, restiamo come impietriti e impotenti di fronte alla forza e alla potenza del Tempo che sembra trascinarci in un frenetico e irreparabile correre verso la morte e il nulla: Mi sgomenta il divenire della vita/ come un limaccioso fluir d’acque,/ tra rovi, irti di spine, feriti travolti/ in un balletto sfrenato verso la morte,/ nel gelato silenzio invernale. La stagione invernale, con il suoi gelidi silenzi, si presta a certi cupi pensieri e, così, l’io narrante prosegue dicendo che vorrebbe poter fermare il tempo quand’è primavera, perchè la primavera è la stagione dei fiori, del verde e del tripudio dei colori, ma anche la stagione in cui di più spende il sole, in cui c’è più luce e in cui di più trionfa l’amore e tutto sembra, come d’incanto, rinnovarsi, rinascere a nuova vita ed è, questa, un’ebrezza che riempie il nostro cuore e la nostra anima dolenti e che, proprio per questa sofferenza, guardano con estrema speranza, fiducia e amore nella primavera: Vorrei fermare il tempo in primavera,/ in un tripudio di verde e di colori,/ vivere ancor la stagione d’amore,/ nell’incanto del sole e della luce,/ e rincorrere l’argento degli ulivi/ sulla collina della vigna rossa,/ nell’ebrezza della vita che rinasce. Ma, mentre si sogna di poter per sempre vivere l’ebrezza della vita che si rinnova, ecco che si fanno avanti i più tristi pensieri che lo scorrere lento ma inesorabile del Tempo pone e impone, ricordandoci che, su questo mondo, siamo esistenze precarie e passeggere, spinte, finchè il tempo ci attraversa, verso una meta incerta, dove, alla fine, a prevalere, nel nostro cuore, sono il silenzio, il vuoto, il mistero, qualcosa di indefinibile e inconoscibile e soltanto la polvere e il nulla: il giorno, per noi pietoso, cede il passo all’oscurità della notte, cioè alla morte, che spegne per sempre la luce e la bellezza dei nostri sogni: Ma intanto il tempo lentamente va…/ verso una strada incerta e di silenzio/ dove c’è nebbia e vuoto nel cuore,/ e polvere solo polvere vedo/ là dove pietoso il giorno,/ si avvicina alle tenebre oscure/ della notte, che spenge la lucerna/ dei miei sogni.
Insomma, mentre come Andrew Marvell, Lia Bronzi sembra dire che sempre odo dietro di me il/ cocchio alato del Tempo che mi incalza/ e là davanti a noi si stende immenso il campo deserto dell’Eternità, alla fine con Joseph Conrad sembra dirci che si vive come si sogna: perfettamente soli. È forse questo il destino dell’uomo, e la nostra poetessa lo sa ed è per questo che con le sue poesie, con i suoi fiori poetici, nati dal suo cuore dolente e anche sanguinante, vuole dirci ancora una volta che la Poesia è più forte della morte, la sola capace di farci sognare e di aiutarci a vivere in questa valle di lacrime e soprattutto di eternare pensieri, immagini e momenti della nostra esistenza mentre ogni altra effimera cosa è destinata a svanire nel nulla.
Lia Bronzi, critico letterario e d’arte, poetessa e operatrice culturale. È nata a San Giovanni Valdarno dove risiede. Ha collaborato con la casa editrice Bastogi per la quale ha prefato numerosi libri e curato varie antologie e la Storia della Letteratura Italiana con saggi critici, così come collabora con le Edizioni Helicon per le quali ha scritto numerose critiche e saggi su varie antologie e libri d’arte, ed ha curato l’epistolario tra il Re Umberto II di Savoia e il Ministro della Real Casa Marchese Falcone Lucifero dal titolo “La solitudine del re”. Ad oggi collabora anche con la Casa Editrice Cairo-Mondadori e con le Edizioni Setteponti.
Ha pubblicato quattro libri di poesia. “Il volo della fenice” (Bastogi Editore, 2005), “Il campo delle ortiche” (Bastogi Editore, 2009), “Ti parlerò d’amore” (Bastogi Editore, 2012) e “Fiori di campo nel cuore” (Edizioni Helicon, 2020). Ha raccolto alcuni dei suoi saggi nella libro “Pillole di saggezza” (Edizioni Setteponti, 2019).
Come operatrice culturale è stata Presidente della “Camerata dei Poeti” di Firenze, di cui è ancora Presidente emerita e garante, unica donna a ricoprire tale ruolo all’interno di tale associazione culturale in novanta anni dalla sua fondazione (1930). Ha collaborato con “Pianeta Poesia”, il “Centro d’Arte Modigliani” di Scandicci; con “Il Simposio” di Anzio (presidente Giuliana Bellorini Malosso) ha promosso il gemellaggio con la Camerata dei Poeti e con il Giglio Blu di Firenze. È, attualmente, Presidente garante e Direttore Artistico del “Giglio Blu di Firenze”.
È stata nominata Preside onorario della francese Università Mediterranea René Cassin. È presidente o membro di giuria in vari premi letterari. Rappresenta il mondo femminile ai colloqui interreligiosi con i rappresentanti delle più importanti religioni monoteistiche nei locali della Regione Toscana. Ha ricevuto nel 2017, nella Repubblica di San Marino, il premio “Golden woman” da parte dell’Associazione Pegasus.
*Salvatore La Moglie, scrittore