La nostra “civiltà” è perduta What’s Going On
#GeorgeFloyd In questi giorni ho ripensato spesso al poderoso contributo culturale che gli afroamericani hanno dato agli Stati Uniti – e al Mondo intero – nell’ultimo secolo, dalla letteratura alla musica, dal cinema allo sport e al mondo civile. In una recente intervista (*The Last Dance), ad esempio, Barack Obama ha affermato quanto Michael Jordan abbia contribuito, negli anni ‘90, ad accrescere l’immagine degli Stati Uniti, in senso positivo, in tutto il mondo, con il suo carisma e la sua classe. I fatti di Minneapolis, così come tanti altri negli ultimi tempi, stanno via via demolendo anni di grandi conquiste sociali e culturali culminate con l’elezione di Obama. Poche stelle e molte strisce oggi, macchiate di sangue. Facciamo un salto indietro nel tempo.
#Detroit Ci sono estati caldissime, quella di Detroit – nel luglio del 1967 – fu di fuoco. La “rivolta di Detroit” o della “12th Street” divampò tra il 23 e il 27 luglio nelle strade della città fondata nel 1701 da cacciatori di pellicce francesi. Grande capitale dell’industria automobilistica statunitense nel secolo scorso, oggi in declino, nel luglio del 2013 la città ha dichiarato fallimento. La “sommossa di Detroit” fu scatenata da un violento raid della polizia locale in un night bar privo di licenza, il “Blind Pig” all’angolo tra la 12th Street (oggi Rosa Parks Boulevard) e Clairmount Street, nella zona Near West Side della città. Uno “blind pig” o “blind tiger”, chiamato anche “speakeasy” (parlar piano) era un esercizio commerciale che vendeva illegalmente bevande alcoliche, in auge negli Stati Uniti durante il periodo conosciuto come proibizionismo (1920–1933, più a lungo in alcuni Stati). Ad ogni modo lo scontro della polizia con i clienti e i passanti si trasformò in una delle rivolte più letali e distruttive della storia degli Stati Uniti, con violenze e distruzioni maggiori di quelle della rivolta razziale di Detroit del 1943. Il Governatore George W. Romney ordinò alla Guardia Nazionale del Michigan di dirigersi a Detroit, mentre il Presidente Lyndon B. Johnson mandò l’82nd Airborne Division e la 101st Airborne Division. Gli scontri di quelle notti produssero 43 morti, 1.189 feriti, più di 7 200 arresti e più di 2.000 edifici distrutti. Secondo alcuni storici la portata della rivolta fu inferiore solamente ai disordini di New York del 1863, avvenuti durante la Guerra di secessione americana, e alla rivolta di Los Angeles del 1992. La rivolta rimbalzò in tutti gli organi di informazione del mondo, con trasmissioni televisive dal vivo e dettagliati resoconti dai giornali e dalle riviste come Time e Life. Il Detroit Free Press vinse il Premio Pulitzer del 1968 per la copertura mediatica dell’evento. La cronaca di quelle violente giornate vede protagonista le vicende di un gruppo di ragazzi, giovani promesse in campo musicale, Larry Reed è un ragazzo afroamericano che sogna di sfondare nel mondo della musica pop con il suo gruppo “The Dramatics”. Hanno in programma un’importante esibizione a teatro davanti a un vasto pubblico, ma l’evento va in fumo a causa degli scontri in strada e del conseguente sgombero del locale. Il gruppo di cantanti si allontana, ma a causa degli scontri e del coprifuoco imposto, si separa; Larry e il suo amico Fred si rifugiano per la notte al Motel Algiers, dove fanno conoscenza di due ragazze bianche, alloggiate nella struttura. Alcune esplosioni causate da una pistola scacciacani provocano l’irrompere della polizia locale, gli ospiti dell’albergo vengono radunati, malmenati e minacciati di morte affinché rivelino chi è stato a sparare e dov’è l’arma, ma nessuno di loro parla. Tre afroamericani verranno uccisi in quel Motel, quella notte. L’ennesima storia di discriminazione razziale, tra le più lucide, tra le più drammatiche.
#Lincoln I fatti di Minneapolis e le manifestazioni di queste settimane hanno richiamato alla mente tanti episodi di triviale razzismo e insensata follia che, prima e dopo il noto “Proclama di Emancipazione” – emanato il 22 settembre 1862 dal presidente degli Stati Uniti Abramo Lincoln durante la guerra civile americana – che decretava la liberazione di tutti gli schiavi dai territori degli Stati Confederati d’America a partire dal 1º gennaio 1863, hanno macchiato gli Stati Uniti e il “mondo Occidentale”. Dopo la “grande migrazione afroamericana” dei primi anni Dieci del Novecento, tra il 1910 e il 1970 si spostarono circa sette milioni di afroamericani dagli stati del Sud verso quelli del Nord, Midwest e dell’Ovest. Molti si spinsero verso le città industriali del Nord alla ricerca di lavoro e per dare una migliore istruzione ai figli. Chicago, Detroit, New York e Cleveland ebbero il più importante incremento di popolazione afroamericana nella prima parte del secolo. Dato che i cambiamenti demografici erano concentrati nelle città, le tensioni crebbero quando gli afroamericani e gli immigrati europei, entrambi provenienti principalmente da realtà rurali, iniziarono a competere nella ricerca del lavoro e di una casa con la classe lavoratrice statunitense bianca. Fenomeni di razzismo e tensioni sociali crebbero in maniera esponenziale.
#King Un anno dopo la rivolta di Detroit verrà assassinato uno dei simboli della lotta al razzismo e alla discriminazione razziale: Martin Luther King. Nel 1954 King è ordinato pastore presso la Chiesa Battista di Montgomery in Alabama. Le pesanti discriminazioni a cui erano sottoposti gli afroamericani in quel periodo lo spingono a diventare un attivista nella lotta per la conquista dei diritti civili. Quando Rosa Parks venne arrestata, nel 1955, King guidò l’azione di protesta contro i soprusi dei bianchi: la comunità afroamericana di Montgomery attuò un boicottaggio dei mezzi pubblici che durò ben 382 giorni. Divenuto Presidente della Conferenza dei Cristiani del Sud, King adottò subito i metodi di un altro leader pacifista, il Mahatma Gandhi: portò le sue idee in tutto il paese, viaggiò, tenne moltissimi discorsi, incontrò leader politici, pubblicò articoli e libri per diffondere il suo messaggio di pace e libertà.
#Ihaveadream Il suo discorso più famoso è quello pronunciato a Washington, presso il Lincoln Memorial, davanti a una folla di 250.000 persone. King parlò del suo sogno, della speranza che un giorno i suoi figli avrebbero vissuto in un mondo libero, un mondo in cui non sarebbero più stati giudicati per il colore della loro pelle. Nel 1964, a soli 35 anni, fu insignito del Premio Nobel per la Pace, ma pochi anni dopo venne tragicamente assassinato mentre si trovava sul balcone dell’Hotel Lorraine, a Memphis, dove si stava preparando per guidare un’altra marcia di protesta in difesa dei lavoratori, era il 4 Aprile 1968.
Se ancora oggi parliamo di diritti civili violati qualcosa non va, la strada della civiltà sembra smarrita. Nonostante la violenta pandemia abbia colpito il pianeta, portando molti a riflettere sulle priorità dell’uomo in questa fase storica, episodi di violenza sui più deboli continuano a costellare di sangue la nostra civiltà.
#Simboli. Secondo il Southern Powerty Law Center negli Stati Uniti ci sono ancora 1.503 simboli degli Stati schiavisti, dal 2015 almeno 138 di questi sono stati spostati o rimossi. L’ondata antirazzista che sta attraversando gli Stati Uniti ha riacceso le contraddizioni della storia americana: che fare con le statue dei generali sudisti o dei sindaci sceriffi responsabili di abusi contro le minoranze? A Philadelphia, in Pennsylvania, nel giro di una notte, è andata giù la statua di Frank Rizzo, che nei giorni scorsi era stata ricoperta di scritte durante le proteste per la morte di George Floyd. Rizzo, figlio di immigrati italiani, fu commissario di polizia negli anni del movimento per i diritti civili (dal 1967 al 1971) e poi sindaco per due mandati – con i Democratici – fino al 1978. Difeso dai bianchi per i suoi metodi risoluti, “legge e ordine”, e detestato dai neri, dagli omosessuali e dalle minoranze per gli abusi commessi dalla polizia sotto il suo comando, registrati anche nell’archivio del Dipartimento di Giustizia. Insomma, la rabbia dei manifestanti si è diretta contro decine di icone che raccontano la segregazione razziale negli Stati Uniti, le violazioni e gli abusi ai danni dei neri. Il governatore della Virginia, il democratico Ralph Northam, ha annunciato che farà rimuovere da Richmond la statua di Robert Lee, il generale comandante degli Stati Confederati durante la guerra di secessione, simbolo del Sud bianco e razzista contrario all’abolizione della schiavitù. Il sindaco di Indianapolis, Joe Hogsett, si è unito alla battaglia e ha annunciato che rimuoverà dal parco della città un monumento dedicato ai soldati confederati morti in un campo di prigionia. Il dibattito sulle statue era già scoppiato nel 2017 quando a Charlottesville una donna nera morì investita da un’auto durante un raduno di neonazisti e suprematisti bianchi. E ancora prima nel 2015, dopo che Dylan Roof, un giovane nostalgico della Confederazione, uccise nove afroamericani in una chiesa di Charleston. Oggi il movimento di protesta sorto dopo l’omicidio di Minneapolis promette di riscrivere l’iconografia di piazze e strade. A Norfolk, a Birmingham, Huntsville, statue e monumenti simbolo della segregazione vengono ricoperti di nuove parole: “Black lives matter” e “No more white supremacy”. La storia, del resto, non lascia scampo alle azioni dei suoi interpreti.
Penso che l’attenzione di oggi sui simboli del passato chiami in causa il lavoro dello storico, gli storici studiano questi fenomeni, come simmetricamente studiano l’erezione dei monumenti stessi, la glorificazione o la costruzione di miti.
#Colombo Un caso tra i tanti dell’attuale distruzione dei simboli ci dà la dimensione del fenomeno in atto, in tutto il pianeta, la richiesta di abbattimento delle statue erette a Cristoforo Colombo nelle due Americhe e l’abolizione del Columbus day negli Stati Uniti. Colombo è segnalato come genocida e responsabile dei secoli di razzismo a seguire, ovviamente non sono in questione le specifiche azioni di Colombo ma la sua “scoperta” che ha aperto la via alle esplorazioni del continente, a lui quindi – simbolicamente – possono essere fatti risalire tutti i crimini e le sopraffazioni che ne sono conseguiti. Una imputazione simbolica che di fatto implica la cancellazione della responsabilità personale oggettiva – caposaldo dello stato di diritto e dei diritti dell’uomo e del cittadino – a favore di una responsabilità di gruppo. Così i “bianchi” sono apriori corresponsabili dello sterminio dei nativi e della schiavitù dei neri, quali che siano i suoi gesti o le sue opinioni, per appartenenza di gruppo. Una “colpa collettiva” dalla quale bisogna prendere le distanze, per non cadere nello stesso tranello della “identity politics” in cui i singoli perdono ogni identità personale.
#Lamemoria Se i monumenti, le iscrizioni e quanto di fisico e materiale ricordi il passato sono lo specchio della storia del Paese, sgretolarli e macchiarli significa rinunciare a comprendere il nostro passato, bello o meno bello che sia, condivisibile o meno, ma sempre il passato dell’Italia (o di un altro Paese) come nazione unita che lega le vecchie alle nuove generazioni. Rimuovere monumenti o iscrizioni non può che partecipare a favorire l’oblio della storia nazionale e della conoscenza di alcuni aspetti poco piacevoli che il nostro paese ha vissuto. La loro presenza nelle nostre strade e piazze è un monito permanente a evitare che determinati avvenimenti possano essere ripetuti. Questo è il mio pensiero.
#Civiltà Tuttavia, il 2020 apertosi con fosche e guerrafondaie tinte grigie sta avendo il merito di farci riflettere, molto. Dal nostro rapporto con il pianeta all’attenzione per i valori più sinceri ed essenziali, dall’importanza della reazione a qualsiasi discriminazione al profanamento di simboli centenari. Probabilmente tutto ciò ci aiuterà a non smarrirci per sempre e indugiare nel concetto di “civiltà” così come teorizzato alla fine dell’Ottocento dall’inglese Edward Burnett Tylor, considerato da molti il fondatore dell’antropologia culturale: “La cultura, o civiltà […] è quell’insieme complesso che comprende le conoscenze, le credenze, l’arte, i principi morali, le leggi, le usanze e ogni altra capacità e abitudine acquisite dall’uomo in quanto membro di una società”, rifiutando così il concetto di civiltà come la forma più evoluta e complessa di una cultura. In questa definizione la civiltà assume un significato globale in quanto comprende la totalità delle manifestazioni di una società, cade quindi la connessione tra l’idea di civiltà e la nozione di progresso che circoscrive la civiltà a quelle culture che sono pervenute, nel loro processo evolutivo, a un presunto livello “superiore” di vita. Perché, la “civiltà” siamo noi e tutto ciò che, nel bene e nel male, abbiamo commesso. Tutto ciò, proprio per evitare di ripeterlo.
#MarvinGaye Mi piace chiudere questo mio lungo terzo editoriale, citando uno dei pezzi più noti di Marvin Gaye, *What’s Going On. Ispirata da un episodio di discriminazione razziale, ad opera della polizia di Detroit, al quale aveva assistito il bassista Renaldo “Obie” Benson, coautore della canzone. What’s Going On apre l’omonimo album del 1971 di Marvin Gaye – per la storica etichetta discografica Tamla-Motown Records – con un inno alla fratellanza universale sullo sfondo di una Detroit dilaniata dagli scontri razziali e di un’America che manda a morire i suoi giovani in una guerra insensata in Vietnam. Una canzone che dettava i temi e i modi di una musica nera che abbandonava il disimpegno del decennio precedente e raccontava la realtà circostante:
Mother, mother
There’s too many of you crying
Brother, brother, brother
There’s far too many of you dying
You know we’ve got to find a way
To bring some lovin’ here today, eh eh
Father, father
We don’t need to escalate
You see, war is not the answer
For only love can conquer hate
You know we’ve got to find a way
To bring some lovin’ here today, oh oh oh
Picket lines and picket signs
Don’t punish me with brutality
Talk to me, so you can see
Oh, what’s going on
What’s going on
Yeah, what’s going on
Ah, what’s going on
In the mean time
Right on, baby
Right on brother
Right on babe
Mother, mother, everybody thinks we’re wrong
Oh, but who are they to judge us
Simply ‘cause our hair is long
Oh, you…
*da ascoltare, se vi va leggendo l’articolo
*Roberto Sciarrone, dottore di ricerca in Storia dell’Europa, Sapienza Università di Roma