La dimensione linguistica di Roberto Villa
Conversazione con il fotografo che incontrò Pasolini
Roberto Villa nasce a Genova, vive e opera a Milano svolgendo innumerevoli attività dalla comunicazione alla fotografia con una laurea in Elettronica, spaziando non solo nell’etere ma anche superando qualsiasi dicotomia nella tridimensionalità leonardesca: Arte Scienza Tecnologia.
Un incontro, una collaborazione culturale, un’amicizia fra due forti personalità: Roberto Villa e Pier Paolo Pasolini; e lo scorcio visionario di due personaggi che hanno realizzato con il loro impegno una svolta significativa nel linguaggio espressivo di un’arte oltre la sceneggiatura e la fotografia.
Un momento inciso nello spirito di Roberto Villa tanto da commemorarne la memoria attraverso mostre e allestimenti fotografici ad continuum. L’incontro fra Pier Paolo Pasolini e Roberto Villa avvenne a Milano nel 1972. Fu lo stesso regista a invitare il fotografo a seguirlo in Iran e nello Yemen, per osservare le fasi di lavorazione del film nel suggestivo scenario delle città di Isfahan e di Sana’a e molte altre. “L’Oriente di Pier Paolo Pasolini”, “Il fiore delle mille e una notte” sono impresse nella scrittura fotografica di Roberto Villa. “Il fiore delle mille e una notte” è tra i lungometraggi più complessi di Pasolini, una storia d’amore tormentata fra due giovani, Zumurrud e Nur-ed-Din, raccontata anche grazie alla collaborazione del regista con Dacia Maraini, e impreziosita dalla scenografia di Dante Ferretti e dalle musiche di Ennio Morricone. Roberto Villa rimase sul set per ben cento giorni e, oggi, attraverso i suoi scatti, esiste uno straordinario documento su Pasolini e la sua troupe al lavoro sul set del film, che il grande regista ha scelto come ultimo capitolo della sua Trilogia della vita. Quella del Nostro è la prestigiosa testimonianza di una rappresentazione fra realtà, atmosfera fiabesca e sogno di libertà, nello sfondo dell’opera di Pasolini. Naturalmente l’attività intellettuale e artistica di Roberto Villa non si esaurisce qui come ben dimostra il suo eccezionale ed eccellente percorso umano e culturale.
Fotografia, cinema, letteratura e saggistica, una nuova visione della cultura attraverso la linguistica. È stata la sua un’esperienza maturata dall’incontro con Pasolini, oppure un ‘alter ego’ magicamente espresso in una collaborazione dove il cinema va oltre la fotografia e la fotografia oltre la sceneggiatura in un altrove?
Nel novembre del 1972, a Milano, ad una tavola rotonda sulla televisione e il cinema ho avuto l’occasione di incontrare PierPaolo Pasolini. Cessato l’evento, avevo avvicinato Pasolini per dirgli del mio interesse sui meccanismi della comunicazione audiovisiva e i problemi del linguaggio cinematografico, temi che lui aveva trattato in molti articoli di saggistica. Gli avevo detto che sarei stato interessato ad incontrarlo per parlarne e ascoltarlo su questi temi. Era rimasto sbalordito, nessun fotografo gli aveva mai chiesto di parlare di semiologia e di linguistica. Senza esitare mi aveva dato il suo indirizzo di Roma, dicendomi anche della sua prossima partenza per girare “Il fiore delle 1001 notte”. Poi, aggiungendo ad alta voce, ma quasi parlando fra sè e sè, mi disse che, se fossi stato interessato, avrei potuto raggiungerlo in Medio Oriente sul set. Lì avrei potuto vederlo al lavoro nell’applicazione delle sue idee sul cinema, e parlarne.
La fotografia oltre il “click”. Quale il ruolo del fotografo oggi per una nuova veduta del mondo?
La fotografia, come la scrittura, come il suono, può servire per una banale comunicazione o per attività più sofisticate e impegnative come quelle artistiche. Uno strumento di comunicazione ha una sua specificità che l’utilizzatore, l’Artista, può utilizzare ‘creativamente’ se lo conosce profondamente, se ne conosce la storia soprattutto comparata a tutti gli strumenti che producono immagini nell’arco della suo tempo, ma soprattutto se l’Artista ha la cultura per essere tale e se usa quella comunicazione, come tutti i Grandi, per il sociale.
I linguaggi espressivi coniugano un bisogno di Bellezza “per salvare il mondo”. Come può l’essere umano raggiungere tale dimensione in questa reale complessità sociale dove emergono brutture e bruttezza? Quale la via per recuperare umanità, quella stessa che Pasolini ci indicò con i suoi scritti e non solo?
Ogni sistema linguistico può essere usato creativamente o nei soli limiti dello strumento, se chi lo usa non ne ha coscienza. Il tema della ‘Bellezza’ nella fotografia non è un tema concettuale ma banalmente mimetico, cioè è ‘bello’ l’oggetto o il soggetto fotografato e non altro. In altri termini non esiste una sola fotografia al mondo sulla quale si siano scritti saggi, articoli e fatte analisi come per il quadro di Velázquez “Las Meninas” del 1656 e, se la fotografia nasce nel 1839, pur avendo luminosi esempi in tutto lo scibile, in questi 180 anni di vita ha prodotto solo macchine ma non cultura perché chi l’ha praticata, nel migliore dei casi, non ha saputo andare oltre la documentazione di eventi. Pasolini ha studiato sempre, fin da ragazzino, è stato presente alla realtà sociale l’ha interpretata e ha trasformato la lingua, con gli strumenti della conoscenza, in strumenti creativi per dire a tutti i livelli possibili del sociale cose diverse denunciando, contemporaneamente, i limiti degli strumenti e i suoi personali. Difficile esempio di autocoscienza.
L’arte per essere libera spesso non raggiunge né visibilità né popolarità, per cui artisti e scrittori di valore rimangono sconosciuti in uno stato di frustrazione, disistima, demotivazione. Chi perde l’uomo o l’artista?
Nel 1949, a dodici anni, su costose riviste statunitensi scopro che un lontano parente di Edison, Claude E. Shannon, con Warren Weaver avevano elaborato “La Teoria dell’Informazione” e leggendola, con il vocabolario a fianco, comprendo che chi vuole occuparsi di comunicazione nel mondo dell’arte NON può NON conoscerla, sia per ‘leggere’ quello che è stato ‘scritto’ da sempre e quello che viene sempre scritto in tutte le sue forme. Quando chi si autodefinisce artista non opera con conoscenza non può, inevitabilmente, uscire dal suo piccolo spazio, poiché non è in grado di differenziare le sue proposte da quelle di tanti altri come lui. Artista è una definizione attribuita dalla società, non è un corona che ci si impone propria sponte. Artista, Individuo e Società sono perdenti, se non comprendono queste semplici regole.
Casa della Fotografia e non più Sala di esposizione. Quali le prospettive?
Casa è il luogo proprio della famiglia e quando chi fa fotografia decidesse di ‘Mettere Casa’ potrebbe cogliere l’opportunità di avere un Padre-Maestro di riferimento da cui imparare e dei Figli-Allievi a cui insegnare, nonché una ‘Cucina-Laboratorio’ dove sperimentare le forme del pensiero, un pensiero rivolto al sociale e non un pensiero in forma di idioletto. La sala espositiva è una sala di ‘Convegno’ dove i convenuti vengono per apprendere non già per sentire quello che già sanno ricavandone solo noia.
Fotonarrazione su Pasolini fra scatti e ciak. Cento giorni nello Yemen. Vuole dirci cosa ha significato per lei lavorare in uno scenario, immagino, così suggestivo?
Il dialogo con Pasolini è stata una avventura conoscitiva ed accrescitiva per me e che PierPaolo ha molto apprezzato. Il contesto da fiaba è stato un contesto scenografico e coreografico unico per la sua autenticità. La decisione di portare “in giro per il mondo” quel lavoro è un compito che mi sono assunto per far conoscere, anche ai più semplici, il pensiero e il cinema straordinario complesso di Pasolini, dove nulla è nell’apparenza, ma questa è una icona, un segnale, che rimanda ad altri significati.
Il suo ricordo è indelebile dal momento che la sua documentazione di circa 300 foto è molto viva tra finzione e linguaggio della realtà. Quando è autentica dunque una foto?
La selezione delle 300 foto è la limitazione che mi sono imposto, per raccontare il film, che ha dato origine a ben 8.000 scatti. Tutti digitalizzati e parte dell’archivio generale di oltre un milione di immagini realizzate in soli 15 anni di attività fotografica professionale, iniziata il 1970 e cessata il 1984. Teoricamente la fotografia “è sempre autentica” poiché rappresenta sia l’oggetto/soggetto dello scatto sia sè stessa ma, fuori dallo ‘scatto’, come tutto, è soggetta a manipolazioni che la trasformano in qualche cosa d’altro. Anche quando fotografa una ‘finzione’ la fotografia è autentica poiché è un processo di comunicazione che non interpreta. La fotografia è “l’impronta digitale della cultura di chi fotografa”. Pasolini parlava di “Linguaggio della realtà” per una serie di complesse considerazioni che nulla avevano a che fare con una immagine ‘mimetica’ del reale e che ha molto ben chiarito in una serie di saggi e articoli, raccolti un testo “Empirismo eretico”; il mio incontro con Pasolini è nato per le mie conoscenze di quei lavori e la richiesta che gli avevo fatto se avesse voluto parlarne.
C’è uno scatto, unico, realizzato nel 1973, a Esfahan, in Persia, a PierPaolo.
Fra lui e me c’era un dibattito in atto sul concetto di linguaggio del cinema. PierPaolo sosteneva che il cinema è “il linguaggio della realtà” e io che è “solo un linguaggio”. Ho colto PPP con una mano sulla cinecamera; vicino c’era un attore con il ciak, me lo sono fatto dare e l’ho porto a PPP, dicendogli “PierPaolo prendi, ti faccio una foto”; mentre lo afferrava PierPaolo mi ha detto “… ma è una finzione” e ho risposto: “sì, anche il cinema è una finzione”. Lui, ricordando il nostro dibattito, ha sorriso e io ho scattato. Quando ho incontrato Pier Paolo a Roma, per alcune riprese a Cinecittà, gli ho mostrato una selezione delle foto del film e, con quel genuino stupore di cui era capace, disse: “Hai racconta-to le Mille e una notte dove io sono l’attore e tu il regista, un film che non avevo visto. Una fiaba nella fiaba”.
*Laura Margherita Volante, sociologa