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Kafka e la condanna per solitudine verso il centenario della sua morte

Cosa è il processo in Kafka? Un indizio, un procedimento o una condanna? Forse una autorizzazione a procedere? Il tempo è uno scardinare i limiti tra il confine e l’orizzonte di una esistenza giunta a un giudizio di quale ordine e grado? Il tribunale della vita si può fermare davanti alla voce di accusa che comanda un giudizio sul fatto compiuto o un giudizio ancora da emare considerate le prove del niente?

È formidabile la condotta dell’indiziato nel corso di un interrogatorio in cui la finzione prevale ma diventa il soggetto dominante proprio quando bussa al “castello” per dirimere una questione di vitale necessità di burocrazia esistenziale? Restano interrogativi preminenti e fattori scagionanti che inducono a rivedere il caso e a rileggere la scena del crimine. Giusto detto.

Ma la la scena del crimine dove si trova? È invisibile ed è anche indelebile perché è nascosta nel cuore delle parole mai pronunciate nel corso di estenuanti esigenze fatte da sviste. La scena del  crimine è l’anima oppure una caverna alla quale a rispondere è Platone. Kafka scava molto bene nella sua caverna e il tribunale nulla può perché il nascondimento è un segreto inviolabile che diventa visionario soltanto in quelle “metamorfosi” che cambiano non il volto dell’umano, ma l’intera fisicità dell’uomo che sprofonda nel non umano perché è stato già “troppo umano” (Nietzsche ha la sua notevole importanza in questo giocare a spada tra immaginario e reale).

Siamo oltre il limite con Kafka in quanto gli orizzonti persi tra le nuvole sono estreme esistenze nelle quali le competizioni con il bene e il male sono dimensioni non solo dell’inconscio ma con lo scrivere stesso. Il male è la condanna. Il bene è l’amore che permette di amare nonostante la presunta colpa del nascere e del morire.

Kafka cerca le responsabilità. Ma quali sono tali responsabilità. Non è dato saperlo perché diventano ancora una volta una estremizzazione della colpa. Di una colpa se si commette un reato o se si trasferisce in sede di giudizio in reato. È questo che il tribunale dovrebbe valutare. Ma non si valuta in giudizio un peccato. Si giudica piuttosto una presunzione di colpa, un presunto reato, una ammissione di un fatto. Qui non c’è un fatto che può essere giudicato come presunto. La colpa più immanente in termini di metafora di reato reale può essere quello di essere in vita, di resistere alla vita, di vivere anche senza la consapevolezza di esercitare la finzione- funzione di uomo.

È reato essere uomo. È reato accogliere la solitudine. È reato cercare la solitudine come elementi specifici di una agonia che è completamente umana. Le metamorfosi che cadono dentro la storia si smarriscono perché la storia non reagisce e accetta la consuetudine delle conseguenze estreme. La colpa dunque assume la valenza religiosa. La religiosità della colpa è la colpa, in forma radicale, di non aver commesso alcun reato e proprio per ciò subisce il processo. La stessa “lettera al padre”, però, non è altro che l’ammissione di un peccato? Qui la differenziazione tra colpa e peccato è molto sottile. La sottigliezza dell’enigma. Ma per questo il processo deve essere celebrato o meno? Kafka vuole essere messo sotto accusa. La vita è infaticabile e la scrittura è una disperazione.

Come uscirne fuori? Non scrivendo più? Ma per Kafka scrivere è entrare nella follia. Una follia per vocazione? Forse. Meglio essere processati, giudicati e sottoposti a un giudizio ed essere condannati che accogliere la follia di non scrivere più? Un Cervantes della gratitudine che si offre ai mulini. K si offre al tribunale e la porta del castello si apre per poi chiudersi. Dunque un delirio. O un delitto? Oppure più semplicato: si tratta di una magia. Un urlo senza voci. Un silenzio pieno di rumori. Alla finestra si affaccia il significante delle metamorfosi e tutto resta appeso in quell’istante tra un giorno presente e un giorno passato che ha come eredità un “ponte”. Ovvero il racconto di un ponte sospeso tra l’irrazionale e il razionale non come descrizione, bensì come allegoria di una prova che porterà k a scontare il suo unico reato che è quello di non aver ucciso neppure la solitudine. Una apparenza che ha un volto: il niente.

*Micol Bruni, coordinatrice Progetto Kafka100