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Il ruolo della narrazione nella giurisprudenza moderna

La narrazione ci aiuta a dare un nome al mondo che ci circonda. È un’azione ordinaria che abbiamo imparato da bambini. Per primi sono stati i nostri nonni e i nostri genitori, raccontandoci le favole che abbiamo interiorizzato come schemi linguistici indispensabili a liberarci dagli incubi: è, infatti, una pratica genitoriale comune far raccontare ai bambini cosa li ha angosciati durante la notte o a scuola. Schemi ai quali, più tardi, abbiamo attinto per raccontare le ingiustizie che ci hanno colpito. 

Quello che non sapevamo nella nostra infanzia è che viviamo in una “società bulimica” – un concetto sviluppato per la prima volta da Jock Young, che ha tentato di descrivere una società in cui

“… La massiccia inclusione culturale è accompagnata da un’esclusione strutturale sistematica. È una società che ha forti correnti centrifughe e centripete: assorbe e respinge ”. (Young, 2003)

Senza approfondire ulteriormente l’argomento, il concetto di bulimia sociale è piuttosto interessante se applicato all’enorme quantità di storie e narrazioni che inghiottiamo ogni giorno, per poi buttarle via in seguito. I social media sono un ottimo mezzo narrativo, un prezioso medium per ottenere giustizia attraverso la denuncia sociale (penso a George Floyd o alle polemiche di Grillo in difesa di suo figlio, accusato di stupro, che da giorni occupa la main page di Instagram). 

La colpa di questa bulimia dunque non è da attribuire al network al quale ci affidiamo, ma al pubblico – noi, che passivamente assorbiamo e rigurgitiamoIl tempo di raggiornare la pagina e – nove volte su dieci – abbiamo già dimenticato ciò che abbiamo letto, diventando noi stessi la perfetta incarnazione delle più sottili forme di esclusione sociale. 

L’altra faccia della medaglia è che gli utenti stessi sono potenti narratori: vorrei citare l’esempio significativo di Malala Yousafzai, che all’età di undici anni è stata in grado di raccontare il regime totalitario dei talebani in un blog che ha curato per la BBC.

Prima dei social network, che solo in questi anni stanno vivendo la loro “epoca d’oro”, la pratica dello storytelling per scopi di giustizia sociale è stata strettamente associata al lavoro delle ONG, poiché esse generalmente sensibilizzano le persone attraverso racconti di uomini e donne con cui sia possibile empatizzare. Non è un caso che gli attivisti si siano ritrovati spesso a raccontare storie di abusi per portare alla luce le lacune nei diritti umani.

È un dato di fatto, lo storytelling è, tuttora, il fulcro del lavoro di una ONG: questo accade ogni volta che una ONG produce un Rapporto su una questione specifica, come il Rapporto sui Rohingya di Amnesty International del 2004, che dal 1978 subiscono gravi soprusi a causa dell’instaurazione della dittatura militare in Birmania, o come le numerose denunce formulate da Human Rights Watch. 

È chiaro che la narrazione può cambiare il mondo. Le sue radici sono strettamente legate alla storia del secolo scorso, che ha visto il fiorire del racconto applicato ad ogni aspetto della vita. Se non fosse stato per i racconti di donne e uomini comuni, i movimenti di liberazione sessuale, per l’uguaglianza di genere e razziale non avrebbero mai raggiunto i traguardi che invece hanno raggiunto negli anni Sessanta; sono stati proprio questi movimenti a far tesoro delle esperienze del singolo, dando spazio ad ogni sorta di racconto e di storia per far comprendere al mondo la portata delle ingiustizie subite. 

Ma si può retrocedere ancora di più. Era il 1908 quando J.H. Wigmore, avvocato e professore di Diritto Comparato presso la Northwestern Law School, pubblicava per i suoi studenti un elenco di romanzi che, a suo avviso, erano fondamentali per la formazione di un aspirante avvocato o giudice. L’elenco nominava importanti personaggi letterari, come Dickens, Melville e Kafka. In tal modo, egli ha sottolineato l’importanza del linguaggio come mezzo di interpretazione della realtà e delle relazioni di potere che un avvocato può incontrare durante la sua carriera, un concetto che è stato poi ripreso dai filosofi postmoderni e che rimase al centro dello sviluppo della giurisprudenza contemporanea. 

Alla fine degli anni Venti, pubblicò A Panorama of the World’s Legal Systems, una sorta di atlante legale ricolmo di esempi culturali e immagini che fu rivoluzionario nel porre la legge lontano dal “cosmo ideale platonico” dove era tenuta prigioniera per avvicinarla alla vita umana, all’esperienza individuale.

È così che la narrazione ha acquisito importanza agli occhi degli avvocati e giuristi del secolo scorso e ciò avvenne con tempismo perfetto, poiché proprio la narrazione fu il fattore decisivo nella risoluzione dei crimini di guerra e nel chiarimento dell’enorme portata dell’Olocausto. Fondamentali furono i 112 racconti durante il caso Eichman (1961), infatti era la prima volta che i sopravvissuti raccontavano la loro storia senza limitarsi alla mera testimonianza (termine che in questo caso sarebbe, sì, esplicativo, ma anche altamente riduttivo). 

La giurisprudenza narrativa è dunque il frutto del pensiero postmoderno. In effetti, una delle quattro leggi del postmodernismo nominate da Peter Schank è che non esiste una conoscenza oggettiva della realtà: anche il più piccolo dato è soggetto a interpretazione. Proprio l’interpretazione è uno degli ingredienti fondamentali del racconto ed è ciò che forse si frappone fra una semplice testimonianza e un racconto.

*Lucilla De Biase, giornalista