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Il fenomeno del “Fast Fashion”, un’economia basata sullo sfruttamento umano e ambientale

Cosa possiamo fare come consumatori per aiutare l’ambiente e diminuire lo sfruttamento?

Fino a qualche tempo fa lo shopping era considerato fa un evento occasionale ma in poco tempo il mondo della moda è completamente mutato. La produzione è aumentata così come la domanda, capi invernali sono diventati disponibili anche nei mesi estivi e viceversa. Così è nata il fenomeno definito “fast fashion” ossia una moda low cost, in cui i capi di maggiore tendenza sono reperibili ovunque e a basso costo. Se da una parte le tasche del consumatore risparmiano e il nostro armadio è sempre più pingue, dall’altra l’ambiente e i diritti dei lavoratori ne soffrono in maniera smisurata. La Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite ha rilasciato infatti che l’industria del fast fashion è responsabile del 20% dello spreco globale dell’acqua e del 10% delle emissioni di anidride carbonica. Dati davvero sconcertanti a cui si va ad aggiungere lo sfruttamento senza precedenti dei lavoratori nelle fabbriche tessili, spesso provenienti da zone ad alto tasso di povertà. Un’industria che procede essenzialmente nell’ombra ed è rimasta nell’ombra fino a un tragico evento di cronaca accaduto il 24 aprile 2013. Nel documentario di Andrew Morgan “The true cost” (2015 – disponibile su Youtube) si racconta il crollo di Rana Plaza avvenuto a Dacca, capitale del Bangladesh dove hanno perso la vita 1129 lavoratori del “fast fashion”. Una data importante, tanto da essere ricordata e celebrata ogni anno come “Fashion Revolution Day”. E allora cosa possiamo fare come consumatori per aiutare l’ambiente e diminuire lo sfruttamento? Sicuramente avere un tipo di acquisto più consapevole, scegliendo capi di fibra naturale e di seconda mano. Inoltre, è fondamentale riciclare e dare così nuova vita ai capi che già possediamo, senza così creare ulteriori rifiuti. 

*Arianna Di Biase, giornalista