Il colore della guerra Diacromia n. 20
Il colore della guerra somiglia a quello del pane integrale, che portai una volta a casa, quando era vivo mio nonno. I suoi occhi azzurri, belli e chiarissimi, si rabbuiarono in un attimo; si chiuse in un profondo mutismo. Poi sbottò. No, lui non l’avrebbe mangiato il pane della guerra in tempo di pace. Inutili le mie proteste: scese un silenzio nella tavola rumorosa e gli altri annuirono in profondo rispetto, davanti a un testimone di orrori e scelleratezze. Occhi d’acqua che si offuscavano di rabbia e di malinconia, quando raccontava il suo viaggio di ritorno a piedi, dalla Jugoslavia, dopo la prigionia. Mesi per tornare a casa sua, per strade sterrate o di montagna, dormendo nei capanni, mangiando quasi niente. Il colore della guerra è quello degli occhi di mia madre, verdi, di un verde oliva ma pieni di pagliuzze dorate che si accendono di rabbia e di dispiacere quando enumera gli anni della guerra, la chiusura forzata della scuola elementare che da allora lei non poté più frequentare; e la fame nera, fame di tutto, e il freddo che non passava mai. La sua istruzione finì alla seconda elementare ed è ancora un suo grande cruccio. Il colore della guerra sta negli occhi dei bambini ancora non nati e che dovrebbero mantenere quell’azzurro sognante, latteo, aperto al mondo; il colore di tutti i colori che dovrebbero spalancarsi con fiducia alla vita, come quelli del bimbo nato sotto la metropolitana di Kiev. È il colore degli occhi profughi di tutte le persone che vanno via accompagnate da trolley sgargianti o buste di fortuna, tasche in cui hanno cercato di mettere l’essenziale. È il colore dei visi sbigottiti dall’ incertezza e dalla paura. È un nero o un bianco che copre tutti gli altri colori e lascia solo desolazione, polvere e calcinacci. È il colore delle case sventrate e abbandonate in fretta, della terra violentata che rimane sospesa nell’aria e impolverata. È un colore che bisogna pulire presto, con acqua e con stracci di pace.