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Il brigantaggio, temi e analisi del fenomeno in Abruzzo

Il periodo a cavallo tra il 1860 e il 1863, noto agli storici come quello di “reazione” al governo piemontese, fomentata dagli esuli Borboni, dalla Chiesa e da una parte della nobiltà, non è altro che una delle tante sfaccettature di un fenomeno estremamente complesso le cui cause vanno ricercate nelle profonde differenziazioni economiche e sociali che caratterizzavano la società dell’epoca.  Oltre la frontiera dello Stato Pontificio e passando per gli Abruzzi, fino alla Sicilia il tempo sembrava fosse fermo, in pieno feudalesimo. Il 70% della popolazione, braccianti, contadini, operai, nullatenenti, disoccupati viveva, economicamente e culturalmente soggiogata, in una indigenza estrema. Nella provincia di Chieti, come nelle altre zone del teramano e dell’aquilano, si formarono spontaneamente oppure ad opera del partito borbonico numerose bande di briganti per lo più con elementi indigeni. 

In Abruzzo il brigantaggio fu particolarmente violento in due periodi storici: nel 1500, con l’avvento della dominazione spagnola e nel 1800, con l’episodio dell’unità d’Italia. Tra le cause che generarono questo fenomeno ci fu la rapida decadenza della pastorizia transumante, resa più grave da alcune leggi emanate dal governo post-unitario come quella del servizio di leva obbligatorio e dalle nuove tasse, come quella sul macinato, imposte dai piemontesi, i quali all’inizio furono percepiti più come oppressori che come liberatori. Dopo l’unificazione, moti in favore di Francesco II si verificarono un po’ dovunque nell’Italia meridionale, anche nell’Abruzzo teatino. A Castel Frentano ad es. il 21 ottobre 1860, mentre si procedeva alla votazione del plebiscito, l’ordine pubblico venne compromesso da una numerosa folla che, gridando “Viva Francesco II!” si precipitò a piantare sul campanile del- la Chiesa Madre la bandiera borbonica. Nello stesso giorno a Roccamorice, terminata la funzione religiosa in una Chiesa sita fuori dal centro abitato, moltissima gente cominciò a gridare “Viva il Re, viva Francesco II!”, tentando di disarmare le guardie e di rimuovere lo stemma dei Savoia. L’operazione non riuscì perché i dimostranti furono intimoriti dai fucili che furono loro puntati contro dal caporale della Guardia alla testa degli altri componenti della stessa.  Nel corso della notte le agitazioni popolari ripresero e i rivoltosi decisero di mandare a chiamare il capo del movimento popolare, Angelo Camillo Colafella, per invitarlo ad accorrere a Roccamorice al fine di riportare il Paese allo stato in cui era al tempo di Francesco II. Il giorno dopo fu ripristinato lo stemma borbonico e nel corso della stessa giornata furono lacerati alcuni atti del governo affissi dentro una bottega del caffè. A Caramanico si verificarono i fatti che videro per la prima volta in azione il Colafella come capo di un movimento “reazionario”. Il 21 ottobre un folto numero di persone si presentò davanti alla giunta che stava gestendo le operazioni di voto e cominciò ad inneggiare al re Francesco II. La guardia nazionale si vide costretta a scaricare in aria i propri fucili e i contadini scappati si riunirono su un colle dal quale cominciarono a lanciare pietre e obbligarono giunta, guardie e spettatori a ritirarsi. Proseguirono poi l’opera reazionaria nei villaggi vicini. La mattina del 23 ottobre i rivoltosi ricevettero la notizia che un forte distaccamento di soldati e carabinieri piemontesi e di guardie nazionali stava muovendo verso Caramanico. Una ventina di reazionari guidati dal Colafella uscì dal paese e attaccò la colonna dei militari. Dopo di che il gruppo dei rivoltosi, tornato indietro, incitò la popolazione a gettare acqua bollente sui soldati e poi si dileguò disperdendosi nei villaggi vicini. Angelo Camillo Colafella fu arrestato verso la fine del 1861 e condan-nato, al termine di un processo che vide 127 imputati, dalla Corte d’Assise di Chieti alla pena di morte; ebbe successivamente la pena commutata dalla Corte d’Assise d’Appello dell’Aquila in quella dei lavori forzati a vita. Tra le dichiarazioni da lui rese al giudice che lo interrogava, confessò di aver agito per volontà stessa del Sovrano Ferdinando II che lo aveva personalmente scelto come guida del corpo volontario filoborbonico.

*Marilisa Palazzone, docente