VerbumPress

I rider dell’informazione

Giornalisti che non contano nulla. Altro che Quarto potere

Per un giornalista che prende 10mila euro all’anno, ce ne sono molti altri che ne prendono 10mila al mese. Da che cosa è data questa disparità? Dalla bravura? Magari fosse così. Le eccellenze è giusto che abbiano stipendi importanti. Ma non funziona così. Il mondo del giornalismo è sempre stato complesso e, con l’avvento dei social, lo è diventato ancora di più. Per affrontare tutte le questioni ci vorrebbe un saggio. Per chi fa questo mestiere da tanti anni, cercando sempre di farlo con onestà intellettuale, è triste sentire come per l’opinione pubblica i giornalisti siano “venduti, pennivendoli, asserviti al potere…”. Per carità. Il marcio c’è. E si fa notare assai. Ma c’è anche il buono, che fa meno notizia, e che combatte una battaglia impari, non solo per emergere ma, soprattutto, per sopravvivere. 

Non ho dati specifici, ma dai racconti di molti colleghi capisco che nessuno in Italia riesce a sbarcare il lunario facendo il giornalista freelance. Se si vuole vivere con la Partita Iva, bisogna dire addio al giornalismo puro e diversificare l’attività, dedicandosi, per esempio, agli uffici stampa. Oppure il giornalismo deve essere un secondo lavoro. Le collaborazioni con i giornali non bastano, neppure se parliamo di testate nazionali. Innanzitutto perché alcune pagano 2, 3, 5 euro a pezzo. Sfruttamento puro al quale – a mio parere – i giornalisti non dovrebbero prestarsi. Per queste cifre non si scrive. Per quanto lasciare possa essere doloroso, bisogna farlo. Qui è in gioco la dignità della persona. Ma saliamo di tariffa. Facciamo dai 40 ai 100 euro a pezzo, con collaborazione occasione o Co.Co.Co. (un contratto ancora possibile per chi è iscritto ad un Albo professionale). Quanti pezzi uno deve scrivere per raggiungere uno stipendio degno di questo nome? Impossibile, neppure passando la vita seduti davanti al pc. Non mi si venga a parlare di qualità. Chi ce l’ha il tempo di verificare le fonti se devo “macinare” pezzi? Se poi ci si muove – io sto perennemente in giro, perché da sempre preferisco parlare direttamente con le persone -, le spese non sono pagate. Tra benzina, autostrada, pasti, l’introito è già sfumato. Ovviamente, niente malattia. Si scrive anche con la febbre a 40, o con un braccio rotto. E qui, se non sei ambidestro, è un problema serio. Ovviamente tutti i giornalisti con sale in zucca, cercano di evitare la cronaca nera, quella che una volta era considerata la palestra del giornalismo. Perché sanno bene che, se dovessero incappare in una querela, sarebbero fatti loro. Gli editori non rispondono più, tanto meno per i collaboratori, che sono solo nomi sotto un pezzo, sconosciuti anche al direttore. Ai collaboratori mai viene chiesto un parere sul giornale. Anzi, spesso si trovano il compenso tagliato perché così è stato deciso in redazione. Nessuna spiegazione. 

Lavoro da mille anni per gli stessi giornali e non sono riuscita ad ottenere oltre un Co.Co.Co., che assicura una certa continuità e un po’ di contributi, ma non di vivere serenamente, visto che sono pagata a pezzo. In tanti anni molti giovani colleghi sono stati assunti. Quali siano i meccanismi non lo so, ma il merito non è sicuramente al primo posto. Ma torniamo al Co.Co.Co, o similari. Agli esigui contributi versati dai datori di lavoro, vanno aggiunti quelli che l’Inpgi chiede al giornalista. Una richiesta sempre molto difficile da evadere, visto le basse entrate. Credo che la maggior parte riesca a pagare solo accumulando more. La pensione per i giornalisti freelance è un miraggio; di stipulare un’assicurazione privata neanche a parlarne. Troppo care. Il giornalista freelance non esiste in Italia. Esiste il giornalista precario. Ed esiste il menefreghismo dei colleghi comodamente seduti in redazione a passare carte, molti con stipendi alti, ma subito pronti a lamentarsi se dal loro stipendio vengono decurtati cento euro in favore di un fondo comune per i colleghi meno fortunati. Sindacato e Ordine necessitano di una revisione profonda, perché continuano a tutelare un mondo finito, quello dei dipendenti, che sono sempre meno, a fronte di un numero sempre crescente di giornalisti autonomi. Che hanno anche un altro svantaggio: quello di dover dipendere in tutto e per tutto dagli umori dei redattori di riferimento. Il collaboratore esterno invia una proposta di articolo. Questa arriva in redazione, da questo momento si può solo attendere. A volte ti dicono di sì, altre di no. La motivazione non la saprai mai, pertanto non saprai mai come vengono valutate le notizie, e la priorità delle stesse. Non sempre sono ragionamenti sui massimi sistemi, a volte dipende semplicemente dal fatto che il redattore di riferimento ha litigato con la moglie. Così può succedere che quello che tu hai proposto oggi ed è stato rifiutato, qualcuno lo propone la settimana prossima e, per qualche congiunzione astrale favorevole, allora passa. Poi ci sono i servizi riservati ai redattori, perché tu collaboratore non sei abbastanza in gamba. Così mai avrai la possibilità di dimostrare davvero le tue capacità. Stando fuori, tra l’altro, non puoi sapere se si stanno organizzando servizi ai quali potresti contribuire. D’altra parte, è difficile sapere cosa passa nella testa dei redattori, se mai vieni convocato. Credo che una redazione allargata agli esterni sarebbe un esperimento interessante. Il problema è che il giornalismo è in caduta libera. Nessuno compra più i giornali. E a noi “dinosauri” non resta che attendere l’estinzione. Fino ad allora, non aspettiamoci che qualcuno si prenda cura delle nostre esigenze. Dovremo farlo noi stessi, ma lo spirito di corpo è un’altra lacuna nel giornalismo. Forse perché la mia generazione di giornalisti è nata con la paura del “buco” e la ricerca dello scoop. Peccato che il tempo delle romanticherie sia finito. Qualcuno ha parlato di “rider dell’informazione”. Perfetto. Proprio questo siamo.

*Romina Gobbo, vicedirettore Verbum Press