I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway
La morte e il tema della lotta per la sopravvivenza, due grandi protagonisti della narrativa hemingwayana
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway, così recita un verso di Incontro, un’antica canzone di Francesco Guccini che, insieme a Fabrizio De Andrè e Claudio Lolli, è certamente uno dei cantautori più colti del nostro paese. E sembra voler dire che mentre certi miti, certi punti fermi crollano (come, per es., le ideologie), ecco che sulla scena appare il mito di Ernest Hemingway, il grande scrittore americano scomparso tragicamente ormai da sessant’anni. E noi, dopo sessant’anni dalla sua morte, lo vogliamo ricordare e rendergli omaggio.
Ebbene, il mio incontro con il Maestro Hemingway (Hoak Park 1899- Ketchum1961) risale a tanto tempo fa, praticamente all’adolescenza. Avrò avuto 17-18 anni quando ho letto Per chi suona la campana, uno dei più grandi capolavori di papà Hemingway, dedicato alla tragedia della guerra civile spagnola, che vide contrapposto il mondo democratico-comunista a quello conservatore-nazifascista. Il titolo lo mutuò da alcuni celebri versi del poeta metafisico inglese John Donne, i cui versi mette a frontespizio come a volerli rendere ancora più eterni e ad emblema di memoria storica collettiva sulla morte che, quando coglie un qualsiasi uomo, non può essere che la nostra morte, la morte di ciascuno di noi, la morte simbolica dell’umanità stessa (cito a mente): Nessun uomo è un’Isola, completo in sè. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se l’onda del mare portasse via una zolla, l’Europa ne sarebbe diminuita, così come se portassero via un promontorio o una magione amica o la tua stessa casa. La morte d’ogni uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’Umanità. E allora non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te.
Con stile giornalistico (non dimentichiamo che Hemingway era stato anche un bravissimo giornalista), con stile telegrafico, colloquiale, antiretorico e antiletterario il Maestro butta giù alcune centinaia di pagine che ti leggi in pochi giorni, tanto sono scorrevoli e avvincenti. E i personaggi ti restano impressi a vita: Robert Jordan, l’ingles, Pilar, la grande pasionaria il cui compagno Pablo ormai è ridotto a un uomo che non è più l’uomo di una volta, e la giovane e bella Maria con cui Robert ha una storia d’amore. Alla fine, Robert viene ferito e decide di uccidersi perché la fuga per lui è impossibile, mentre vuol mettere in salvo quella che lui chiama amorevolmente coniglietto e la prega di andar via e di non voltarsi, di salvarsi mentre lui deve fare una cosa che un uomo non può che fare da solo: il suicidio, ovvero porre fine alla propria esistenza.
Hemingway diceva che ogni storia vera finisce con la morte, quella era una storia vera, certo, ma pur essendo lui Robert Jordan, ha deciso di farlo morire eroicamente. Chè, in Hemingway, c’era questo mito dell’eroe e dell’eroismo, come c’era pure il mito del giovanilismo, per cui la vita è giovinezza e la vecchiaia è quella che è. E poi c’era la morte, la terribile e onnipresente morte che mai manca nei suoi romanzi e nei suoi racconti. Alla fine di Addio alle armi, la donna del protagonista muore e a lui non resta che dire che trovava: inutile salutare una statua. A un certo punto, occorre prendere coscienza che, dopo aver preso le armi nell’immane conflitto della Prima Guerra Mondiale, in altri casi della vita, magari più banali, siamo costretti a dire: addio alle armi, perché è inutile lottare.
Ed è questa una sconfitta, l’ennesima sconfitta dell’uomo di fronte alla orribile morte che tutto annienta e cancella. Ma il grande e immenso Hemingway non teme la morte, non ha paura della morte e i suoi eroi (come alla fine lui stesso) l’affrontano con coraggio e sprezzo del pericolo, anche perché è profondamente convinto che un uomo può essere anche ucciso, ma non sconfitto. Per lui l’uomo non è fatto per la sconfitta. È questa una poetica, una visione che troviamo un po’ in tutti i libri dell’immortale scrittore americano e, in modo particolare, in quella sorta di moderna fiaba che è Il vecchio e il mare, capolavoro assoluto, in cui viene narrata la lotta tra la resistenza alla morte di una balena e un vecchio che pescava da solo… nella Corrente del Golfo che, però, da ottantaquattro giorni ormai non prendeva un pesce e che per questo veniva chiamato salao, che è la peggior forma di sfortuna… E quando il vecchio ha la fortuna di avvistarne e di poterne afferrare una, ecco che, dopo una lunga e dura lotta per la sopravvivenza (altro tema caro al nostro scrittore), è costretto a vederla attaccata da altri grossi pesci e ridotta a carcassa: entrambi hanno vinto a metà, entrambi sono stati sconfitti a metà…E la rassegnazione alla sconfitta è dura da mandar giù perché per il vecchio, che è una proiezione di Hemingway, un uomo può essere anche ucciso, ma non sconfitto ma, alla fine, al vecchio che ordinava a se stesso: non pensare a quello che non hai, pensa a quello che puoi fare con quello che hai, non resterà – dopo la terribile lotta – che addormentarsi e sognare i leoni…
Insomma, la morte e il tema della lotta per la sopravvivenza sono due grandi protagonisti della narrativa hemingwayana. Si pensi soltanto a Morte nel pomeriggio, in cui si parla delle corride e della lotta tra toro e torero: la posta in gioco è la vita e uno dei due deve morire. Hemingway avverte subito il lettore sulla sua visione delle corride: Pensavo che fossero ingenue e barbare e crudeli, e che non mi sarebbero piaciute, ma che avrei veduto una certa azione precisa che mi avrebbe dato la sensazione della vita e della morte che andavo cercando. Il sentimento della vita e della morte è profondo in Hemingway e, inventando un colloquio con una vecchia signora, giunge alla consapevolezza incontrovertibile che dev’essere molto pericoloso essere un uomo e che solamente pochi ce la fanno, che è un mestiere difficile, e al fondo c’è la tomba.
Di questo grandioso romanzo darwiniano sulla lotta per la sopravvivenza, per cui, alla fine, vince sempre il più forte o comunque il più adatto e capace, porto sempre con me la chiusa finale che è una vera e propria dichiarazione di poetica, di Weltanschauung: Abbiamo visto passare ogni cosa e continueremo a vedere. La gran cosa è resistere e fare il nostro lavoro, e vedere udire e imparare e capire. E scrivere quando si sa qualcosa e non prima e, porco cane, non troppo dopo. Salvi pure il mondo chi vuole, purchè voi riusciate a vederlo con chiarezza e nell’insieme. Poi, qualunque parte ne rendiate, se è resa veramente, lo rappresenterà tutto. Si tratta di lavorare e di imparare a renderlo. No, non è ancora un libro questo, ma qualcosa da dire c’era pure. Poche, pratiche cose da dire.
Hemingway amava tanto la vita e amava tanto l’Africa tanto da scrivere che: Niente è più bello dell’Africa e niente è più bello che amare chi si ama, e aspettare il giorno che verrà sapendo che qualcosa porterà pure. All’Africa e al suo meraviglioso paesaggio naturale, spesso primordiale, Hemingway ha dedicato dei libri. Si pensi a Verdi colline d’Africa o a Le nevi del Kilimangiaro o anche a La Breve vita felice di Francis Macomber. In Africa andava per fare i suoi safari e a sperimentare, eroicamente, in prima persona, la lotta per la sopravvivenza nel cuore di una natura selvaggia e lontano dal mondo occidentale dominato dalla scienza e dalla tecnologia. Anche in Africa, anche da quello che racconta sui protagonisti delle sue narrazioni, emerge un dato per lui incontrovertibile, e cioè che la cosa più difficile che ci sia al mondo è scrivere una prosa assolutamente onesta sugli esseri umani. Non solo, ma anche che gli uomini sono, per natura, tutti uguali ma si distinguono nei dettagli. E i dettagli contano, se è vero come hanno scritto i filosofi che sia Dio che il diavolo si nascondono nei dettagli. Bastano, a volte, alcuni dettagli per scoprire l’autore di un delitto come bastano alcuni dettagli per far emergere aspetti di una personalità che si credeva essere in un modo anziché in un altro.
Ci sono delle riflessioni di Hemingway che sono davvero di tipo filosofico, sembrano pronunciate o scritte da un vecchio saggio orientale. Per es., una che mi piace molto e che viaggia sempre con me è questa: Che gran brutta cosa essere bigotti. Per essere bigotti bisogna esser certi che si ha ragione. La continenza è il nemico dell’eresia. Ma anche questa: Tutti gli uomini che pensano sono atei. Ed è vero: chi pensa, e quindi dubita, non può credere ciecamente in un dio. Così è stato, a ben vedere, dall’Illuminismo in poi. E si potrebbe continuare con altri pensieri e, del resto, più sopra li ho citati.
Su Hemingway non si finirebbe mai di parlare tanto è vasto e in poche pagine puoi solo sperare di poter offrire un quadro sintetico ed essenziale che dia un’idea complessiva di un uomo che non ebbe paura di andare a Cuba, di viverci e di stringere la mano al comunista Fidel Castro, lui figlio di un’America ancora maccartista e antisovietica, secondo come imponeva la ferrea logica di Yalta e della guerra fredda.
Il mio invito è di conoscere, di scoprire o riscoprire il mito di Hemingway, uomo di indubbio fascino e dalla personalità complessa che si era abbeverato alla fonte della Generazione perduta (la Lost generation dei Fitzgerald, degli Steinbeck e dei Dos Passos, tanto per citarne qualcuno). Egli era un eroe, aveva sprezzo del pericolo, ecc. eppure per alcuni aspetti era un decadente, nonostante non avesse simpatia per il Decadentismo. Il suo essere decadente suo malgrado, consiste soprattutto nel pensiero ossessivo della morte e per il sentimento della sconfitta che pesa sull’uomo come un macigno, la sconfitta che non dovrebbe appartenere all’uomo ma che pure lo condiziona nella presenza su questo mondo. Basti pensare (sintetizzo il concetto del romanzo Il sole sorgerà ancora) che il sole sorge e poi tramonta e poi di nuovo sorge mentre l’uomo muore: l’eterna sconfitta dell’uomo… Come dire che l’uomo potrebbe finire ma il mondo potrebbe continuare senza di lui e il sole, dunque, continuare a sorgere ancora ogni giorno… Del resto, il grande antropologo Claude Lévi-Strauss non ha scritto, in Tristi tropici, che il mondo è nato senza l’uomo e finirà senza di lui?…
Hemingway detestava il declino fisico, non accettava – lui così pieno di vita, così giovanilista e anche alquanto virilista – che non potesse più fare certe cose, che, soprattutto, non potesse più scrivere. E quando, nel 1961, già alcolizzato, ebbe la piena consapevolezza di essere ormai quasi cieco e di non poter più essere quello di una volta (non mi sento più un leone…), finse di pulire il fucile e fece partire un colpo. Così dunque si muore, tra bisbigli che non si riesce ad afferrare, così aveva scritto nei Quarantanove racconti: chissà se quel giorno riuscì ad afferrarne qualcuno, lui che a questi bisbigli certamente aveva pensato chiedendosi, magari, cosa avviene quando lasciamo questa vita, quando la perdiamo per sempre sapendo che, poi, non sentiremo più nulla che appartenga a questo mondo.
Hemingway aveva avuto tanto dalla vita e dalla letteratura: il Premio Pulitzer e il Premio Nobel. Un uomo come lui, però, che aveva fatto persino il pugile ed era un lottatore nato, non poteva sopportare l’idea di vivere il resto della propria vita in irreversibile declino fisico e aspettare quella morte che aveva sempre detestato, perchè negatrice della vita. No, non poteva perchè l’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto. E quindi non può aspettare da sconfitto la morte. Semmai le va incontro, con coraggio, con sprezzo e quasi con lo stoico distacco e la hybris di un eroe greco, come per poter dire alla morte: non sei tu che mi sconfiggi, piuttosto sono io a sconfiggerti scegliendo di non aspettarti. E se è vero, come diceva, che gli uomini si distinguono nei dettagli, questo non è un dettaglio di poco conto.
*Salvatore La Moglie, scrittore