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I negazionisti del clima, il cambiamento climatico esiste?

Mi diverte sempre leggere più libri sullo stesso tema, tanto più se lottano l’uno contro l’altro a ogni pagina. Una tendenza alla polemica, più che una deformazione giornalistica. Ma per deformazione giornalistica, prima di approcciare il negazionismo climatico, ho preso in mano il volume di Stella Levantesi, I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo, appena uscito per Laterza. Un pamphlet che è un affannoso debunking di tutte le tesi negazioniste sul clima. Quelle espresse alla luce del sole, quelle nascoste dietro manovre lobbistiche e relazioni istituzionali, quelle delle associazioni apparentemente super partes e infine quelle governative. 

Affianco, sulla mia scrivania, a controbattere quasi punto per punto c’era Apocalypse Never di Michael Shellenberger, tradotto e pubblicato in Italia da Marsilio con il titolo L’apocalisse può attendere. Errori e falsi allarmi dell’ecologismo radicale.

I due libri si conoscono, o meglio la Levantesi nomina in qualche riga il libro di Shellenberger per sfatarne le teorie, in modo troppo sbrigativo per riuscirci, ma abbastanza arrabbiato da incuriosirmi. 

D’altra parte, come sostiene l’autrice, il negazionismo ha sempre quell’aura affascinante del mistero, della dietrologia, quel sapore esoterico da iniziati. 

Se non fosse che leggendo integralmente Shellenberger ci si rende conto che più che negazionismo la sua è una messa in discussione di diversi presupposti che diamo per scontati. Come abbiamo visto succedere durante la pandemia, infatti, sono spesso le nostre definizioni manichee che ci fanno bollare di negazionismo chiunque alzi la mano in pubblica piazza mediatica per sollevare un dubbio. Dandogli a volte anche troppa importanza, cioè in pratica aiutandolo. 

Ma facciamo un passo indietro, un passo più neutrale e oggettivo possibile. 

I presupposti da cui parte l’autrice sono che il cambiamento climatico esiste e che il cambiamento climatico è prodotto dall’uomo. Non lascia scampo ad alcuna perplessità e aggiunge che questi due assiomi prescindono dalla scienza. Il cambiamento climatico inizia e finisce con e a causa del potere politico. Ma è leggendo L’apocalisse può attendere che capisco il perché di un chiarimento così bizzarro e in fondo non così necessario in un’epoca di scienzocrazia. L’autore, Michael Shellenberger, è da trent’anni un attivista a favore del clima, non nega il cambiamento climatico, sia esso di 2 o 4 gradi, che ci fa inorridire per via dello scioglimento delle calotte glaciali e dei poveri orsi polari emaciati, ma lo mette in relazione con le sue conseguenze. Supportato dai dati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e dagli studi di diversi climatologi esprime – senza lasciare spazio a dubbi, come la Levantesi – che non ci siano sufficienti correlazioni tra il cambiamento climatico e i disastri naturali, tra il cambiamento climatico e l’estinzione della specie, tra il cambiamento climatico e la produzione di cibo e tra il cambiamento climatico e gli incendi che si sono susseguiti in questi anni in Australia, negli USA e in Amazzonia. Che addirittura sia affrettato attribuire tutto al surriscaldamento, che non può essere combattuto da istituzioni locali e nemmeno dalle persone – in questo ci viene in aiuto I bugiardi del clima che ha come tesi fondamentale la scorrettezza di attribuire le questioni ambientali alla responsabilità individuale. Bisognerebbe agire per prevenirne le conseguenze invece delle cause. Costruire meglio per proteggersi dai disastri naturali, invece di cercare di fermare una valanga.  

Anche Bjorn Lomborg, autore di False Alarm: How Climate Change Panic Costs Us Trillions, Hurts the Poor, and Fails to Fix the Planet ci invita a considerare, con atteggiamento meno apocalittico la compensazione e l’adattamento: se anche la temperatura salisse di 4 gradi entro il 2100, riducendo il PIL globale del 2,9%, visto l’andamento di crescita previsto per il PIL entro quella data, il danno di produttività in termini percentuali sarebbe decisamente meno drammatico di quanto i fondamentalisti dell’ambiente credono. Ma Lomborg è un economista: pur volendo tralasciare il commento che fa al suo libro Joseph Stiglitz sul New York Times, e cioè che colpevolmente l’autore “inquina le nostre menti” con queste sue teorie su dati discutibili o considerati parzialmente, dovremmo credere alla Levantesi de I bugiardi del clima quando dubita giustamente della buona fede di molti economisti e creatori di modelli che spesso mantengono saldi rapporti con gruppi di potere favorevoli alla crescita a tutti i costi o, peggio, all’industria dei combustibili fossili. 

Ascoltare “le due campane” senza cadere nella propaganda, lo ammetto, è difficile. 

Ottimisti contro pessimisti

È su queste due categorie, più che sugli integralismi e i lassismi che si dovrebbe considerare la questione. L’ottimista Shellenberger sostiene alcune soluzioni che vanno nel senso della crescita più che della decrescita: migliorare la produttività dell’agricoltura grazie alla tecnologia nei paesi in via di sviluppo, invece di partire dai villaggi del Congo per limitare il consumo di combustibile fossile; migliorare le condizioni dei lavoratori nelle fabbriche indonesiane del fast fashion invece di farle chiudere perché inquinanti, dal momento che costituiscono un motore economico significativo per il reddito di intere popolazioni; agire a livello normativo per far sì che in Brasile non si debba deforestare il polmone verde del mondo come unico modo per garantire terra da coltivare e dei pascoli per l’allevamento bovino. 

L’autore ci mette poi alla prova con una serie di “sapevi che?” anche piuttosto divertenti, se non riguardassero argomenti serissimi e potenzialmente catastrofici: l’Amazzonia è davvero il polmone verde del mondo? In realtà no, perché per respirare consuma il 60% dell’ossigeno che produce e infine la quantità di anidride carbonica che assimila è “solo” del 5%. Anche se si tratta di un “solo” gigantesco. Quando nel 2019 abbiamo visto bruciare la foresta amazzonica, bruciava solo poco di più che nei dieci anni precedenti, quando la deforestazione era all’ordine del giorno per via della necessità di terra utilizzabile. Per ragioni politiche, insomma, direbbe la Levantesi.

A proposito di percentuali, sostiene Shellenberger che la messa al bando delle cannucce di qualche anno fa sia stata meramente simbolica e/o mediatica, costituendo le cannucce lo 0,03% della plastica mondiale (mentre i sacchetti di plastica solo lo 0,8%) e che il modo per eliminarla non consista tanto nel limitarne la produzione quanto nel migliorarne il riciclo, che già nei paesi sviluppati raggiunge risultati grandiosi, senza però attirare l’attenzione mediatica, com’è prassi per le buone notizie. Ancora una volta le vittime, secondo l’autore, sono i paesi in via di sviluppo dove i sistemi di riciclo e circolarità non funzionano o costano troppo. Sono loro, insieme alla Cina, a riempire di plastica i mari. Esemplare, dopo le cannucce, è stato il destino dei sacchetti di plastica, anch’essi colpevolizzati di uccidere la biodiversità. Ma in quanti si sono chiesti a quanto ammonta l’emissione di CO2 per produrre quelli biodegradabili? 

Il pianeta in prospettiva

Secondo Shellenberger agli allarmisti del clima manca la prospettiva, il confronto cioè con tutti i cambiamenti e le catastrofi che il nostro pianeta si è trovato ad affrontare nel tempo e di fronte ai quali ha trovato meccanismi di adattamento per sopravvivere meglio di prima.

Ma né I bugiardi del clima Stella Levantesi ci pone un caso di studio, forse il più importante, in cui la prospettiva c’è stata ed è servita a insabbiare: lo scandalo di ExxonMobil, la più grande compagnia petrolifera del mondo che già nel 1979 aveva messo in piedi un progetto da un milione di dollari per studiare quanto velocemente l’oceano avrebbe assorbito la CO2 atmosferica. L’équipe aveva previsto la necessità di una riduzione consistente delle emissioni da combustibili fossili e anche un punto di non ritorno qualora questa necessità non fosse stata esaudita. Il rapporto, nato già in modo assolutamente confidenziale, è venuto fuori solo di recente, in occasione di un’inchiesta che vinse il premio Pulitzer nel 2016. 

Il libro della Levantesi traccia diversi profili, dai delayers, quelli dell’approccio attendista sul clima, fino ai negazionisti veri e propri passando per gli scettici – che sono il contrario dei negazionisti, perché spinti dai loro dubbi, ricorda l’autrice, cercano risposte. Forse troppo sbrigativo è il giudizio in cui afferma che ogni tendenza negazionista sul clima è legata in qualche modo o misura a gruppi sovranisti e generalmente di destra, mentre trovo che abbia molta ragione sul vizio di forma che spinge alcuni autori, anche professionisti del settore, a confondere il “meteo” con il “clima” quando si prendono in considerazione dati sul surriscaldamento (basti pensare che Lomborg nel suo libro racconta della quantità crescente di morti di freddo per negare il cambiamento climatico).

Negazione o anti-allarmismo?

Quanto all’Apocalisse può attendere, annoverato dalla Levantesi tra i testi negazionisti, l’autore non nega affatto i cambiamenti che ci troviamo a vivere, quelli del clima, della biosfera, dell’allevamento intensivo, della plastica nei mari, ma la loro portata. Mettendoli in relazione con altri cambiamenti storici, fa i conti con la straordinaria capacità di adattamento del mondo e del genere umano, aspetto che sia Greta Thunberg che Extinction Rebellion (il gruppo ambientalista che ha bloccato Londra con una protesta selvaggia nel 2019) tendono a non considerare. 

Non si critica la tragicità della questione ambientale di cui dobbiamo ritenerci responsabili e di tanto in tanto colpevoli, ma l’allarmismo. L’allarmismo, l’esagerazione, le proteste violente, i vari “How Dare You” provocano l’effetto opposto alla sensibilizzazione che invece ricercano. È quello che abbiamo visto in modo chiaro e lampante con la pandemia, anche a causa dell’“effetto-spettatore” per il quale una catastrofe di portata tanto grande passa dal far sentire in pericolo tutti a non far sentire in pericolo nessuno. In più, per Shellenberger il catastrofismo ha l’effetto gravissimo di dissuadere popolazioni e istituzioni dall’uso dell’energia nucleare, l’unica energia veramente pulita, diventata per l’autore una specie di missione. 

La prospettiva che trovo nuova e -purtroppo- insolita è l’attenzione che Shellenberger dà ai paesi in via di sviluppo, quelli in cui non sarebbe possibile attivare delle azioni sul clima ora come ora perché è necessario che prima raggiungano la stessa ricchezza del primo mondo, strettamente connessa allo sviluppo energetico. Primo mondo che, scrive, si pulisce la coscienza facilmente a loro spese con il leapfrogging, la strategia per la quale i paesi in via di sviluppo dovrebbero più degli altri utilizzare fonti di energia rinnovabile, nel loro caso una soluzione costosa, improduttiva e che alimenterebbe le disuguaglianze globali. 

Tie-break

Un libro accurato, determinato, di denuncia quello della Levantesi, una gran lezione di metodo sul giornalismo d’inchiesta ma che mi ha lasciato quel retrogusto amaro di decrescita infelice. Un libro interessante, pieno di novità, acuto, misurato quello di Shellenberger che mi ha dato molta fiducia nel progresso come (unico?) modo per “salvare capra e cavoli”, cercare di ricostituire al meglio questo pianeta proteggendo i deboli e attenuando le disuguaglianze.

A libri chiusi, mi si è posta davanti agli occhi la scena che si ripete molto spesso nella mia vita di millennial in qualche misura progressista: quella in cui un/a coetaneo/a mi dice frasi del tipo “si stava meglio prima” inneggiando alla natura incontaminata, all’aria pulita, al tempo libero, alla vita genuina, e io rido sorniona pensando che l’interlocutore in quella “vita genuina” di cui parla non sarebbe durato due ore, e che non sarebbe mai arrivato all’età in cui dirlo, a causa di una speranza di vita troppo bassa. 

Infatti, anche se non mi sentirei di condividere l’ottimismo progressista di Shellenberger in modo così estremo, devo credergli quando scrive che a salvare le balene è stato l’olio di palma, a salvare le foreste è stato il carbone, e che quello che ora ci sembra terribile e inquinante ha rappresentato la salvezza per intere epoche che ci hanno portato a oggi. 

Entrambi i libri citati, lottando uno contro l’altro, si incontrano in un minuscolo punto: quello in cui la scienza non è più una motivazione sufficiente. I dati sono tanti, troppi e variamente interpretabili, non univoci, a volte truccati. E se per la Levantesi è una lotta senza quartiere contro lobby e istituzioni, per Shellenberger conta la responsabilità, la gratitudine, l’amore. Che, insieme al buon senso sono una gran terza via tra l’allarmismo e il terrorismo fanatico da una parte e il negazionismo cinico e interessato dall’altra.

*Angela Galloro, social media strategist