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I minori, vittime silenziose

Circa dieci anni fa è stata istituita dal Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso  all’Infanzia CISMAI una commlssio.ne di studio che, tra le altre cose, ha formulalo una definizione in grado di indicare gli aspetti  chiave per valutare l’esposizione dei bambini ai conflitti familiari in termini di violenza: “Si parla di violenza assistita lntrafamillare: atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale ed economica compiuti su figure di riferimento o su altre figure adulte o minori affettivamente significative di cui li/la bambino/a può fare esperienza direttamente (quando la violenza avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il/la bambino/a è a conoscenza della violenza) e/o percependone gli effetti”.

Da questa definizione si evince chiaramente come la violenza assistita ai danni di minori sia una forma di maltrattamento psicologico strettamente legato alla violenza domestica, quei maltrattamenti fisici e psicologici che nascono e vengono esercitati all’interno della coppia e che, pur riguardando direttamente, nella maggior parte dei casi, solo i genitori, in realtà, coinvolgono e influenzano anche i figli che percepiscono e cercano di capire ciò che accade intorno a loro.

Essere testimoni di maltrattamenti e atti violenti, a differenza delle vittime dirette, si diventa sopravvissuti invisibili perché, spesso non si era direttamente presenti o coinvolti e questo diventa un alibi per minimizzare gli effetti deleteri sui bambini. Le stesse madri faticano a riconoscere che ciò che loro vivono in prima persona può causare gravi disagi anche ai figli nonostante i loro innumerevoli tentativi di proteggerli “tenendoli all’oscuro”. Questo può creare conseguenze ancora peggiori quando i bambini non capendo cosa sta succedendo e non sapendo quali siano i motivi di tanta brutalità e ferocia si colpevolizzano e credono di essere la causa della grave situazione in cui si trovano a vivere. I bambini continueranno a chiedersi il perché di tutta quella violenza.

Con l’elaborazione primaria il bambino cerca di capire il grado di pericolosità e di minaccia del contesto di cui fa parte: se questa risulta non grave distoglierà l’attenzione da quanto sta accadendo, al contrario, se la situazione affettiva produce emozioni intense e forti, possono verificarsi reazioni comportamentali problematiche. Il bambino cercherà di tenere tutto sempre sotto controllo anche se apparentemente sembra distratto. Rispetto alla responsabilità, accade che i bambini possono esprimere empatia e stabilire, chi sia la vittima e il “carnefice”. Se uno dei genitori sviluppa atteggiamenti depressivi mentre l’altro mostra un atteggiamento più assertivo e di attacco, sarà probabile che il bambino, a prescindere da contenuti e motivazioni del conflitto, stabilisca che la vittima è chi sembra soffrire di più e più apertamente.                          

E’ risaputo, infatti, che vivere situazioni traumatiche durante l’infanzia, come l’essere esposti ripetutamente o quotidianamente a scene ed episodi di violenza, può produrre effetti deleteri a breve o lungo termine a livello emotivo, cognitivo, fisico e relazionale. I bambini  possono  sviluppare una serie di vissuti e sintomatologie che vanno dalla Sindrome da stress post  traumatico/Disturbo acuto da stress che si verifica a seguito di situazioni  fortemente stressanti e comporta vissuti di evitamento, intrusione (con la presenza, ad esempio di flashback, pensieri ossessivi o incubi) ed ipervigilanza, sintomi  depressivi, ritardi nello sviluppo, somatizzazioni soprattutto con disturbi dell’apparato gastrointestinale e cefalee, difficoltà scolastiche, dovute spesso a problemi di concentrazione dal momento che la situazione domestica occupa gran parte dei pensieri dei bambini tanto che, spesso si sviluppano vere e proprie fobie scolastiche (il bambino non vuole andare a scuola non perché abbia problemi in classe ma perché, in realtà, teme quello che potrebbe accadere in sua assenza o si preoccupa dello stato psicofisico della vittima di violenza, solitamente la madre), disturbi dell’attaccamento  (con sviluppo della modalità insicura, soprattutto legata alla frequente depressione materna, o della modalità disorganizzata che deriva dalla confusione relazionale in cui i bambini si trovano a vivere), ridotte capacità empatiche, bassa autostima e svalutazione di sé, adultizzazione precoce, senso di impotenza e fallimento, senso di colpa e vergogna, senso di invisibilità ma anche rabbia, aggressività e impulsività, paura, confusione, senso di minaccia e ansia.

Essere vittima in maniera cronica fa credere ai bambini che senza violenza non si viva e fa interiorizzare modelli operativi interni caratterizzati da violenza e sopraffazione:

L’agito prevale sulla parola e l’espressione, soprattutto su quella emotiva e i bambini pensano di continuo a modi per prevenire gli atti violenti (dire bugie, compiacere il genitore maltrattante, adattarsi a varie situazioni). Le figure genitoriali vengono viste e considerate in maniera ambivalente, da un lato minacciose e pericolose, dall’altro minacciate e impotenti: per questo motivo spesso I figli tendono ad occuparsi dei genitori e sviluppano atteggiamenti adultizzati di accudimento.

La violenza assistita, però, assume anche il ruolo dì fattore di rischio

Molti bambini vittime di violenza assistita, infatti, da adulti tenderanno a rimettere ìn atto con le compagne le stesse modalità dì relazione che hanno visto agire dal padre nei confronti della madre perchè quello è il modello maschile che hanno avuto. Contemporaneamente, è frequente che bambine vittime di violenza assistita, in particolare se agita sulle madri, da adulte si rimettano in situazioni di coppia di questo tipo identificandosi con un modello femminile di vittima che subisce i maltrattamenti del partner.

Sarà importante assicurare al bambino protezione, dal momento che un bambino che non mostra segni fisici e visibili della violenza, spesso, non viene considerato vittima e non si ritiene che debba essere protetto.

La violenza crea danni alle persone e alle relazioni familiari, nello specifico fa venir meno la capacità protettiva delle donne nei confronti dei figli anche se questo non le rende “cattive madri”; semplicemente le donne diventano incapaci di raccogliere e soddisfare adeguatamente i bisogni dei figli a causa dello stato di terrore cronico in cui vivono che non consente loro di allargare i propri orizzonti e pensare al benessere dei bambini in un momento in cui non riescono neppure a pensare alla loro sicurezza e stabilità. 

In molti casi le relazioni con i figli diventano di tipo orizzontale e vengono richiesti loro sostegno e alleanza, invalidando il proprio ruolo genitoriale, nella ricerca di un appoggio e un sostegno che spesso non si ritrova altrove. Ne deriva una visione distorta dei figli a cui vengono attribuite modalità di funzionamento e di risposta adulte che negano I loro primari bisogni di cura ed accudimento.  Appena la donna sarà uscita dalla situazione di violenza, sarà necessario farle fare un percorso alla genitorialità per farle comprendere i bisogni dei minori che sono stati vittime di violenza assistita.

*Maria Pia Turiello, criminologa Forense – esperta in violenza di genere