Giuseppe Berto e Il male oscuro
Centodieci anni fa nasceva l’autore Giuseppe Berto. Tanto amava la Calabria da sceglierla come sua ultima dimora
«Da quando Flaubert ha detto “Madame Bovary sono io” ognuno capisce che uno scrittore è, sempre, autobiografico. Tuttavia si può dire che lo è un po’ meno quando scrive di sé, cioè quando si propone più scopertamente il tema dell’autobiografia, perché allora il narcisismo da una parte e il gusto del narrare dall’altra possono portarlo ad una addirittura maliziosa deformazione di fatti e di persone. L’autore di questo libro spera che gli sia perdonato il naturale narcisismo, e quanto al gusto del narrare confida che sarà apprezzato anche da coloro che per avventura potessero riconoscersi alla lontana quali personaggi del romanzo».
Così ha scritto Giuseppe Berto come premessa al suo libro certamente più riuscito, Il male oscuro. Ed è non solo una sorta di dichiarazione di poetica alla Manganelli, cioè a dire, la letteratura come menzogna ma, anche, una dichiarazione furbesca sul tema dell’autobiografismo, un modo per dire al lettore (che vuole complice) che il narratore della storia che leggerà è, come lo Zeno Cosini di Svevo, un narratore inattendibile e, pertanto, incredibile, cioè da non credere, un narratore di cui il lettore non si può fidare più di tanto, perché ci racconta la realtà e, soprattutto, la sua realtà, cioè la realtà dal suo punto di vista, che è un punto di vista particolare e, dunque, come tale da considerare. E ci si può riconoscere in lui o niente affatto: si tratta di vedere se si è adatti alla vita o meno e come si reagisce di fronte alla realtà.
Il disadattato e nevrotico Giuseppe Berto nasce a Mogliano Veneto (Treviso) il 27 dicembre del 1914 da genitori di modeste condizioni economiche. Il padre, Ernesto, è un maresciallo dei carabinieri di origine siciliana che, per amore della moglie, Nerina Pesciutta, lascia l’Arma e apre un negozio di cappelli e ombrelli, improvvisandosi anche venditore ambulante. Unico maschio e primo di cinque figli, l’adolescente Berto viene iscritto al Ginnasio nel Collegio Salesiano Astori di Mogliano, dove studia con serietà e buoni risultati ma soffrendo, con gravi sensi di colpa anche molti anni dopo, per i grandi sacrifici economici fatti dai genitori per farlo diplomare. In seguito frequenta il Liceo statale a Treviso ma con risultati non proprio eccellenti, tanto che il padre lo avverte che non avrebbe fatto altri sacrifici per mandarlo all’università. Questo severo avvertimento del padre è un episodio che rimane impresso nella mente e nell’animo sensibile del giovane Berto tanto che verrà richiamato alla memoria tanti anni dopo come uno dei momenti meno felici del suo tormentato e angoscioso rapporto con il padre. Così, per iscriversi a Lettere all’università di Padova (che era la meno costosa) il Nostro si arruola nell’esercito e viene inviato in Sicilia. Ma più che dalle lezioni del grande latinista Concetto Marchesi e degli altri docenti, Berto è attratto dai caffè e dal gioco del biliardo.
Nel 1935 Mussolini decide di creare l’impero e di dare anche all’Italia un posto al sole e così Berto – che simpatizza per il fascismo – parte volontario per la guerra d’Etiopia e, dopo quattro anni di combattimenti, rimane ferito al piede destro. L’eroico sottotenente Berto viene insignito di due medaglie, una d’argento e una di bronzo, al valor militare. Quella ferita, dirà il Nostro tanti anni dopo, fu «un vero affare» perché gli consentirà di riscuotere anche un assegno. A proposito del filofascismo di Berto e della sua educazione fascista, va ricordato che nel 1929 fa parte degli Avanguardisti, poi dei Giovani fascisti, quindi dei GUF (Gruppi Universitari fascisti) e, infine, diventa capo manipolo della GIL (Gioventù Italiana del Littorio).
Quando nel ’39 rientra in Italia, riprende gli studi ma il clima non è dei più propizi perché è scoppiata la Seconda Guerra Mondiale e, quando, nel ’40, Mussolini dichiara guerra alla Francia e all’Inghilterra, il Nostro eroe – che , in fondo, è piuttosto un antieroe che nella guerra vuole trovare una ragione e un’occasione di vita e di azione – inoltra domanda come volontario. Comunque, in quell’anno riesce a laurearsi con una tesi in Storia dell’arte e pubblica anche il racconto La colonna Feletti sul Gazzettino sera in quattro puntate. Il racconto, nel quale viene narrata una vicenda autobiografica riguardante la guerra in Africa Orientale, non è di grande valore ma rivela le buone doti di narratore che sa raccontare con stile giornalistico, cosa, questa, che «distacca» – come dirà lo stesso autore – quel racconto «dalla letteratura acclamata in quegli anni». Intanto, mentre freme per andare in guerra, trova lavoro come insegnante di Latino e Storia presso l’Istituto Magistrale di Treviso e, l’anno dopo, di Italiano e Storia nell’Istituto Tecnico per Geometri. Ma l’insegnamento non è fatto per lui e, poiché il Regio Esercito non lo richiama alle armi, ecco che si arruola nella MVSN, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (apparato paramilitare voluto dal Duce), e chiede di essere mandato in Africa Settentrionale. Siamo nel settembre del ’42 e Berto fa parte del VI Battaglione Camicie Nere che viene quasi del tutto distrutto dopo una grande battaglia sul Mareth, che ispirerà allo scrittore il libro-diario Guerra in camicia nera che, come si vedrà più avanti, sarà pubblicato da Garzanti nel 1955. Berto ne esce vivo e subito dopo viene inviato come rinforzo presso il X battaglione Camicie Nere “M”, i super-fedeli di Mussolini. Dopo aver lottato con i pidocchi e la tristezza delle lunghe giornate africane, il 13 maggio del ’43 viene fatto prigioniero dagli Alleati. Durante quei lunghi mesi tra il ’40 e il ’42, intanto, cominciano a vacillare, nel nostro eroe, le grandi certezze dettate dalla retorica del regime fascista: la grandezza della nostra patria, la potenza militare della nostra grande nazione-impero, l’unione quasi mistica di tutto il popolo intorno al suo Duce, l’onestà sostanziale del fascismo come dottrina, come ideologia oltre che come regime, e via dicendo.
Viene, così, trasferito negli Stati Uniti d’America, dove passa da un campo di concentramento a un altro fino a ritrovarsi a Hereford, nel Texas. Qui ha come compagni di sventura intellettuali come Gaetano Tumiati, Dante Troisi e un artista come Alberto Burri. Quella che vive con loro è esperienza importante in quanto rinasce in lui la grande passione per la scrittura, passione che era stato costretto a veder sempre frustrata nella sua giovinezza. A parte l’esperienza della scrittura sulla rivista Argomenti fondata da alcuni suoi compagni, la prigionia gli consente di conoscere i grandi scrittori americani, soprattutto Hemingway e Steinbeck dei quali apprezza molto lo stile narrativo fluido, incisivo e antiaccademico. Durante la prigionia Berto scrive molti racconti, inizialmente brevi e faceti ma poi sempre più lunghi e di un certo impegno, tre dei quali saranno pubblicati, come si vedrà, negli anni Sessanta. Nel ’44 scrive i primi romanzi neorealisti, Le opere di Dio e La perduta gente. Nel ’46 ritorna in Italia e cerca di farsi conoscere dagli editori, ai quali propone i suoi manoscritti. La buona sorte lo fa incontrare con Leo Longanesi che vede nella Perduta gente un buon affare e lo pubblica tra il Natale del ’46 e il Capodanno del ’47. Solo che, quando vede il romanzo nelle librerie, il nostro autore si accorge che l’editore gli ha cambiato titolo: un titolo che riconoscerà essere azzeccato e bello, tanto da contribuire in buona parte al suo successo: Il cielo è rosso. Il libro, che esce subito dai confini nazionali ed è apprezzato sia dai nostri critici che da quelli stranieri, vince il Premio Firenze per la letteratura e riceve le pubbliche lodi di uno scrittore del calibro di Ernest Hemingway. Involontariamente, Berto si trova «intruppato in quella schiera di artisti chiamati neorealisti», come scriverà lui stesso in un articolo sul Resto del Carlino il 1° giugno del ’65, in quanto, in verità, per i temi legati alla Seconda Guerra Mondiale e per l’impianto narrativo il testo appare subito come collegabile agli altri del filone neorealista. A ben vedere, però, nel Cielo è rosso ci ritroviamo come in un’atmosfera sospesa, onirica, irreale o surreale che dir si voglia che un po’ fa da contrasto a quel neorealismo che pure più di un critico vi ha rintracciato. Dal romanzo Claudio Gora trarrà, nel ’50, il film omonimo. Nel ’48 esce, senza molto successo, Le opere di Dio e, nel ’51, Il brigante, anch’esso di stampo neorealista, destinati a diventare il primo un’opera cinematografica e il secondo una riduzione radiofonica. Il brigante – che viene, però, stroncato da Emilio Cecchi – si presenta come libro in cui, con sincerità, l’autore propugna rivendicazioni sociali, di uguaglianza e di fratellanza, in cui si legge un misto di ideali marxisti e cristiani e lo spirito stesso dei tempi, che era quello di fine guerra.
Intanto, da Roma – dove ha conosciuto e sposato una giovane donna – Berto si trasferisce nella sua Mogliano perché il padre è gravemente ammalato e, infatti, morirà di cancro di lì a poco. Nel novembre del ’54, gli nasce la figlia Antonia ma il fatto di non avere, in quel periodo, molto successo lo porta ad ammalarsi di quel male oscuro, di quella oscura malattia – cioè della nevrosi da angoscia – di cui parlerà per oltre quattrocento pagine nel suo capolavoro e che per un decennio ha rappresentato per il Nostro una vera e propria discesa agli inferi, la discesa agli inferi della nostra coscienza e della nostra mente dove, se non si fa luce, rischiamo una morte lenta e infinita che ci colpisce nell’animo e poi ci distrugge anche fisicamente proprio perché, psicanaliticamente, finiamo per somatizzare. E, infatti, Berto somatizzerà tanto da sentire di avere nel suo corpo tutte le malattie e i mali di questo mondo. Prima che la malattia dell’anima gli impedisca di lavorare proficuamente, egli riesce a ricostruire in un diario, pubblicato da Garzanti nel ’55 col titolo Guerra in camicia nera,le vicende vissute prima di essere fatto prigioniero. E così il romanzo-diario finisce per testimoniare il passaggio dal neorealismo ad uno psicologismo a sfondo ironico e umoristico. Nel periodo ’55-64 cerca di uscire dal male oscuro curandosi con la medicina e soprattutto con la psicanalisi; vive di giornalismo e di sceneggiature cinematografiche non sempre di grandi qualità. Nel ’63 Longanesi gli pubblica i racconti scritti in America con il titolo Un po’di successo.
Il 1964 è senza dubbio un anno di svolta per il nostro scrittore. Infatti esce, dopo essere stato rifiutato da tante case editrici, Il male oscuro al quale ha lavorato durante la malattia. A pubblicarlo è la Rizzoli e, in una sola settimana, vince due prestigiosi premi, il Viareggio e il Campiello. Il romanzo diventa subito un caso letterario, il successo è internazionale e Mario Monicelli, nel 1989, ne trarrà un film dal titolo omonimo. Questo successo conforta e convince Berto sempre più non solo di essere nato per la letteratura ma anche del fatto che la letteratura e la scrittura hanno una grande virtù terapeutica e che, insomma, per dirla con il suo amato Svevo, fuori dalla penna non c’è salvezza.
Il denaro che guadagna con il libro gli consente di acquistare un terreno a Capo Vaticano, in Calabria, dove costruisce una villa che diventa il «luogo della mia vita e anche della mia morte», ovvero della pace, della serenità e della solitudine, e da dove può guardare la Sicilia, «l’isola degli aranci», dove è nato il padre. Questa terra di Calabria sarà amatissima dal Nostro, tanto da eleggerla a ultima dimora dell’«involontario soggiorno» – come lo definisce Pirandello – su questa terra.
Berto continuerà a svolgere la propria attività letteraria in solitudine e lontano non solo da circoli, salotti e accademie ma anche dai partiti politici che ora lo ritengono uno di destra e ora uno di sinistra, a seconda dei punti di vista e della lettura che fanno dei suoi scritti. Berto non vota e si ritiene piuttosto un anarchico e un senza-partito. Quello che è certo è che il disimpegnato scrittore di Mogliano viene emarginato dalla cultura di sinistra e da quella che lui chiamava cultura radicale, la quale decideva di solito il destino degli scrittori, ovvero della loro notorietà o meno.
Nel ’64 Berto pubblica anche il dramma d’ispirazione religiosa L’uomo e la sua morte; nel’65 La fantarca, romanzo per ragazzi; nel ’66 La cosa buffa e nel ’71 Anonimo Veneziano, altro suo grande successo (nato come sceneggiatura per il film omonimo diretto da Enrico Maria Salerno) che provocherà accuse e polemiche che molto addoloreranno lo scrittore. Infatti, nella prefazione a un’edizione successiva Berto scrive che «se mi accusano di furberia, di venire a compromessi con l’industria culturale mi addoloro e mi offendo». Del resto, a suo tempo, era uscito in Italia il romanzo Love Story, col quale Anonimo Veneziano mostrava di avere «qualche punto di somiglianza», tanto da essere accusato di aver imitato il testo americano. Ma il risentito Berto definisce «ridicola» l’accusa anche perché «il dialogo del film Anonimo Veneziano io lo scrissi, e lo consegnai a Enrico Maria Salerno che me l’aveva ordinato, nel 1967, alcuni anni prima che uscisse Love Story». Quanto all’accusa di «operazione commerciale» si sa che «la pubblicazione di un libro è quasi sempre, un’operazione commerciale»; quindi, scrive con tono ancor più risentito, è «ingiusto…giudicare contaminato da malafede e da plagio un lavoro che in fin dei conti trattava della morte e del coraggio di morire, un tema che, più o meno allegramente, sta in tutta la mia vita e in quasi tutti i libri che ho scritto»; infine, tiene a precisare che a lui interessava «raggiungere un approfondimento psicologico dei personaggi» e che per questo ha lavorato moltissimo: «Posso dire che in vita mia non avevo mai lavorato tanto per scrivere tanto poco, né mi ero mai così abbandonato al tormentoso piacere di permettere ai pensieri di cercarsi a lungo le parole più appropriate, e nel cercarle magari mutano e differentemente si presentano sicchè ne vogliono altre, e così via. È un’operazione che, d’abitudine, l’industria culturale non chiede, e forse nemmeno gradisce».
Mentre continua a collaborare alla RAI e al Resto del Carlino, nel ’72 pubblica il dramma d’ispirazione religiosa La passione secondo noi stessi e Modesta proposta per prevenire, raccolta di saggi in forma di dialogo, che provoca un certo dibattito letterario e anche politico; nel ’73, invece, appare Oh Serafina. Fiaba ecologica di manicomio e d’amore (di cui Alberto Lattuada farà, con Berto, una sceneggiatura) e nel ’75 il volume di racconti È forse amore, in cui vengono raccolti, insieme a Downward (apparso nel ’73) anche alcuni racconti già compresi in Un po’ di successo. Nel 1978 la Mondadori pubblica La gloria, che Berto ha scritto in soli sei mesi e che gli fa vincere il Premio Campiello. Si tratta di un libro nel quale viene fatta una apparentemente dissacratoria ed eretica riabilitazione di Giuda Iscariota, il traditore di Cristo. Giuda definisce se stesso come uno strumento necessario per il compimento dell’evento già scritto, cioè quello del tradimento suo nei confronti del Cristo che, in tal modo, può essere crocefisso e immolato per la salvezza dell’umanità peccatrice. Pertanto, Giuda non dovrebbe essere più visto in maniera negativa ma come colui che, involontariamente colpevole, è stato prescelto da Dio, grazie alla sua onnipotenza, alla sua onniscienza e alla sua onniveggenza, per realizzare un piano già presente nella Sua mente: il piano della Salvezza.
Intanto Berto è gravemente ammalato e trascorre un lungo periodo in una clinica di Innsbruck e subito dopo una lunga convalescenza in Calabria, nella sua amata Capo Vaticano. Qui riesce a scrivere Intorno alla Calabria, una breve apologia dedicata agli amici. Muore di cancro (il male di cui temeva sarebbe morto), nella clinica romana Villa Flaminia, il primo novembre del 1978, nella quasi generale indifferenza. È stato seppellito nel cimitero di San Nicolò, frazione di Ricadi, vicino Tropea. Questi territori calabresi sono diventati mete turistiche di rilievo anche grazie al fatto che vi ha vissuto e li amati uno scrittore importante come Giuseppe Berto. Per onorare la cui memoria e far conoscere l’opera a un pubblico sempre più vasto è stata fondata l’associazione Amici di Giuseppe Berto con sedi a Ricadi e a Mogliano Veneto, comuni da tanti anni ormai gemellati, nei quali si svolge, alternativamente, il Premio Letterario Giuseppe Berto, ormai giunto alla ventunesima edizione.
Nel 1986 è uscito postumo il volume di saggi Colloqui col cane, mentre nel 2007, per volontà della moglie Manuela, è stato pubblicato un saggio inedito del 1965, il cui manoscritto, andato perduto, è stato poi ritrovato tra le carte del critico Giancarlo Vigorelli, al quale era stata inviata l’unica copia esistente. Titolo: Elogio della vanità. Sottotitolo: Ovvero vediamo un po’ come siamo combinati malamente. Sottotitolo del sottotitolo: Studio psicologico sul successo da esibizionismo. A pubblicarlo sono le Edizioni Monteleone. Questo volume, che raccoglie una serie di articoli-saggi scritti per il Resto del Carlino nella primavera del ’65, contiene più di una provocazione e i temi trattati più di quarant’anni fà sembrano scritti per i nostri tempi. I quali, in quanto a vanità, stupidità, esibizionismo, ricerca del successo a tutti i costi e irresponsabilità degli uomini politici e di potere, ma anche di certi artisti e di certi intellettuali, sembrano non aver proprio nulla da invidiare a tutti gli altri tempi ormai passati. Negli scritti, in cui si avverte sempre una sottile ma amara ironia, si legge che la vanità, l’esibizionismo vanitoso «è una delle più grosse disgrazie del mondo, giacchè illimitato è il numero di coloro che s’intestardiscono a fare cose che non riescono a fare a scapito di cose che invece potrebbero fare benissimo». Se poi il vanitoso è un «matto come Hitler (…) l’esibizionismo può diventare pericoloso per la convivenza sociale e in verità quasi tutta la storia umana non è che un esplodere di esibizionismi collettivi impersonati in genere da un matto (…)», di cui poi il popolo riesce ad accorgersi di essersi fatto suggestionare dalla sua «propaganda» e dai suoi «facili discorsi». In politica esistono i casi e i generi di «esibizionisti extraproporzionali» che diventano capi di stato e di governo i quali «detengono il più alto potere di danneggiamento», seguiti subito dopo dai militari, dai politicanti e da certi artisti…
Scrittore davvero di grande attualità, Giuseppe Berto è stato a lungo un esiliato in patria, un incompreso che, alla fine, preferiva autoesiliarsi e autoisolarsi dal mondo che conta nelle lettere e nella cultura in genere. Nelle scuole è tuttora uno sconosciuto, è poco presente nelle Antologie letterarie, riportato appena o ignorato del tutto. Rischia di essere dimenticato anche dal grande pubblico. E, per questo, noi vogliamo ricordarlo a 46 anni dalla morte e a 110 dalla nascita.
È vero, Berto era un disadattato, un nevrotico, un uomo dal carattere poco facile, un uomo scontroso con una personalità risentita e, anche, un uomo dalla vita scandalosa per le sue avventure galanti e per le sue numerose storie d’amore, nelle quali il sesso ha sempre avuto un ruolo da protagonista. Certo, per il perbenismo e il moralismo borghesi, il sesso costituisce un fattore, un elemento della nostra vita di cui sarebbe, ipocritamente, meglio non parlare o, meglio, parlare dicendo e non dicendo e, se a parlare apertamente di sesso è uno scrittore, un artista ecco che, allora, scatta il meccanismo della censura in nome di quella morale e di quel perbenismo borghesi o piccolo-borghesi che dir si voglia. Insomma, il sesso resta pur sempre e nonostante i nostri tempi postmoderni un argomento scabroso, un tabù e, se uno scrittore ne fa uno dei temi e dei motivi più importanti della sua poetica, ecco che diventa subito un uomo dalla moralità dubbia e discutibile, con tutto quel che ne consegue. Il problema è che non si va a fondo, non si scava con serietà per ricercare le ragioni più profonde e più vere della presenza del sesso (non fine a se stesso e non mera pornografia) del sesso, cioè, come uno dei protagonisti principali nella vita di un uomo o di un intellettuale. Se ciò venisse fatto, si comprenderebbe meglio e di più, per esempio, la personalità complessa, poliedrica e freudianamente conturbante e, anche, intrigante di Alberto Moravia, come pure la tragedia personale di Pasolini e anche quella di Pavese, per il quale fare l’amore doveva essere cosa non da poco se a parlarne – diceva – era un libro antico e importante come la Bibbia. E, dunque, si comprenderebbe anche meglio il nostro autore che, freudianamente, pone il sesso tra i protagonisti della sua vita e del suo capolavoro, proprio come fa con il polo opposto rappresentato dalla morte. Eros e thanatos, amore, sesso, pulsione vitale, istinto di vita; morte e istinto di morte, proprio come insegna Freud. E in Berto il sesso, Eros rappresenta l’istinto di vita, la gioia di vivere, la difesa contro la morte e l’idea stessa della morte, un inno alla vita contro la morte che ci sfida ogni giorno ed è sempre incombente ed onnipresente e costituisce, anche, un meccanismo di difesa contro la nevrosi.
Ha scritto acutamente Pirandello (che di abissi dell’animo se ne intendeva tanto da far dire a Freud che, insieme a Dostoevskij, egli ha anticipato la psicoanalisi): «Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo». Come dargli torto? E proprio per questo ognuno di noi dovrebbe andare alla ricerca di se stesso e scavare in tutto il suo essere, nelle sue profondità per far emergere tutto quello che è e che non conosce. Noi, il più delle volte, preferiamo non approfondire, preferiamo rimanere alla superficie accontentandoci di sapere di noi ben poco. Berto, invece, sulla linea di Svevo, ha scelto di andare a fondo, di esplorare le profondità abissali della sua psiche, della sua coscienza per conoscere meglio se stesso anche in quella zona d’ombra, in quella inesplorata terra che si chiama inconscio e che per Freud è la parte più importante della nostra vita psichica, in quanto immagazzinati dentro di esso stanno tutte le vicende e i fatti il più delle volte indicibili e inconfessabili della nostra esistenza. E se è vero, come diceva Eschilo, che «il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore», Berto si spoglia di ogni ipocrisia e di ogni falso moralismo borghesi e, per un decennio, compie un lungo e tormentato viaggio nel cuore di tenebra della sua coscienza, alla ricerca disperata della linea d’ombra lungo e attraverso la quale ritrovare se stesso e conoscere le vere radici del suo male oscuro, della sua nevrosi da angoscia che tanto lo deprimeva, lo esauriva e lo faceva soffrire senza mai trovare rimedio.
«Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare le cause, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgorato scoscendere d’una vita, più greve ogni giorno, immedicato»: così, Gadda, nella Cognizione del dolore, ha definito il male oscuro di cui anche lui era affetto e, non a caso, il Nostro antepone questa calzante definizione all’inizio del romanzo quasi come chiave di lettura.
Romanzo d’introspezione, d’analisi, psicologico, esistenzialista quello di Berto è, insieme alla Coscienza di Zeno di Italo Svevo, il più psicanalitico della letteratura italiana e anche quello in cui il monologo interiore, il flusso di coscienza (lo stream of consciousness) tanto sperimentato e portato alle estreme conseguenze da James Joyce vengono utilizzati come tecnica narrativa per esprimere uno stato d’animo, per dare voce a una coscienza inquieta e in tumulto che scava ininterrottamente nei fondali più impervi e insondabili dell’animo umano perché vuole scoprire le radici della propria sofferenza e del proprio dolore, i quali si sono tradotti, psicanaliticamente, nella cosiddetta nevrosi da angoscia, cioè in quella oscura malattia che afferra la nostra psiche e non la molla fino a strangolarla e a farla morire atrocemente ogni giorno. E questa morte dell’anima, che è peggiore di quella fisica perché questa, almeno, avviene una sola volta per tutte, questa morte, dicevo, dura per un lungo interminabile decennio che rappresenta per il narratore-autore un vero e proprio viaggio al termine della notte, della notte della nostra coscienza. E in questo viaggio il narratore-protagonista (le cui vicende narrate sono filtrate attraverso la sua coscienza e il suo inconscio stimolato dall’analista) viene lasciato parlare liberamente: i suoi pensieri, ma anche i suoi sogni, scorrono liberamente, come in un flusso di coscienza, appunto, in cui l’ordine cronologico si dissolve, proprio come avviene nella Coscienza di Zeno, per dare spazio a quello che Svevo chiamava il tempo misto, cioè l’alternarsi indifferente di presente e passato. E così troviamo più di un flash-back che ci riporta al passato e alla sua ricerca e, in questa ricerca del tempo perduto che è poi ricerca della vita interiore da cui, direbbe il grande Francesco De Sanctis, «escono i fatti», in questa ricerca anche la proustiana memoria involontaria fa la sua parte. A questo punto, affermare che leggendo Il male oscuro ci sembra respirare aria proveniente dal Decadentismo e dal romanzo del primo Novecento, che nella temperie culturale del Decadentismo era nato e si era sviluppato, non ci sembra un’affermazione peregrina. Il Decadentismo – affermiamolo una volta per tutte – ha informato di sé tutta la metà del ‘900 e sono tanti gli scrittori e i poeti che, anche nei decenni successivi, hanno portato dentro la loro anima la sensibilità e lo stato d’animo di quel grande movimento letterario. E Berto è uno di questi, e gli elementi di Decadentismo nella sua opera sono tanti. Basti pensare al tema onnipresente della morte, della decadenza (non solo fisica), della malattia, del male di vivere, dell’angoscia esistenziale, della disarmonia con la realtà che lo porta alla nevrosi, al disadattamento e, quindi, ai sentimenti sveviani dell’incertezza, dell’irrisolutezza, dell’inadeguatezza, dell’incapacità a vivere e, insieme a questi, quelli di sconfitta, di frustrazione, di solitudine e di estraneità nei confronti di una realtà e di un mondo che sono avvertiti e vissuti come ostili, inautentici e incapaci di instaurare una forma di comunicazione finalmente vera tra gli esseri umani. Tutte cose, queste, care ai decadenti che avvertivano con grande sofferenza quello che Freud ha definito il disagio della civiltà. Non solo, ma se andiamo a ricercare anche nella poetica intesa come insieme di tecniche poetiche e narrative ecco che, come si è visto, troviamo la tecnica del flusso di coscienza e del monologo interiore che lascia parlare il narratore liberamente, proprio secondo il metodo psicanalitico delle libere associazioni, con la narrazione che va avanti a lungo senza punteggiatura, ovvero solo con delle virgole e con un punto posto alla fine di ogni due-tre pagine. Tanto che il ritmo diventa incalzante e il lettore è costretto a seguire il perenne flusso di parole immedesimandosi nel narratore e diventando lui stesso il narratore, instancabile come lui perché altrimenti finirebbe per rinunciare, incalzato com’è, e butterebbe il libro da qualche parte. Vi è poi, in Berto, la frantumazione della realtà, che è vissuta come sfaccettata, mutevole e quindi molteplicemente interpretabile; vi è la dissoluzione dell’Io e del personaggio che narrativamente lo incarna e lo interpreta; e vi è, infine, la dissoluzione dell’ordine cronologico e delle strutture sintattiche e narrative proprio come era stato per i grandi scrittori vissuti nel clima del Decadentismo italiano ed europeo. Anche il concetto della vita come cosa buffa ricorda molto quello del decadente Pirandello che definiva la vita un’enorme pupazzata e una molto triste buffoneria, come pure lo ricorda il ragionare tormentato del protagonista che, come quello del Mattia Pascal, sembra dire che mai un uomo tanto ragiona come quando soffre, perché della sua sofferenza vuol conoscere le radici. Per non parlare delle affinità con Svevo, alle quali pure si è accennato.
Ritornando al capolavoro di Berto, cioè al Male oscuro – autentico romanzo sperimentale e d’avanguardia – il narratore inattendibile (ma sincero dal suo punto di vista) dice di aver capito che alla base delle sue sofferenze, dei suoi conflitti, dei suoi terribili sensi di colpa e dei suoi complessi psicologici c’è la figura del padre, della sua massiccia, ingombrante e soverchiante presenza. Quella che il lettore leggerà – scrive subito – è la storia della mia lunga lotta col padre, ovvero l’eterna lotta dell’Io con il Super-Io, che sembra avere le sembianze di un dio, di un padreterno che vuole il nostro sacrificio, che è pronto a immolarci sulla croce. Questa lotta impari, spiega, inizia da subito, già dalla prima infanzia, quando emerge la situazione edipica, con il relativo complesso, che ci porta ad odiare mortalmente il padre perché ci porta via l’amore della madre, con la quale lui si congiunge carnalmente. La lotta prosegue durante la giovinezza, nella maturità e continua anche dopo la morte.
Perché avviene tutto questo e perché amiamo e allo stesso tempo odiamo a morte il padre? Perché il padre è tutto, è l’alfa e l’omega della nostra esistenza; è colui che ci dà la sua approvazione o che può severamente disapprovarci; è colui che vogliamo imitare e nel quale vogliamo identificarci; è colui che ci mette al mondo (insieme alla madre), che ci dà la vita e, in un certo senso, ce la toglie pure, non solo e non tanto perché quel venire al mondo ci condanna alla morte ma nel senso che la nostra morte, più che fisica può essere psichica quando il rapporto col padre è conflittuale e la sua presenza come Super-Io è prevaricante e castrante. Secondo Berto, il padre-Super-Io ci uccide soprattutto nell’anima, ci ferisce a morte con le sue esigenze imperiose, con le sue censure, con le sue assurde richieste e pretese fino a castrarci del tutto e a renderci impotenti. Ed è così che dentro di noi nasce, fin da bambino, l’odio per il padre-padrone della nostra anima, della nostra psiche, ed è così che dentro di noi incomincia a farsi oscuramente strada l’assassino, il parricida. Ogni uomo, ha scritto Dostoevskij, almeno una volta nella sua vita ha desiderato la morte del proprio padre. E il sommo scrittore russo se ne intendeva di psicologia e di abissi del cuore e della mente.
Un Super-Io troppo forte, troppo esigente e troppo invadente può fare il danno più grave che possa esservi: può causare la nevrosi con tutto quel che ne consegue, e cioè, soprattutto, toglierci la voglia di vivere, devitalizzarci in modo tale da non riuscire più ad avere un rapporto normale con il mondo che ci circonda e con la realtà in cui viviamo, finendo per ridurci a dei malati di inadattabilità al reale (l’espressione è di Berto), a degli insufficienti alla vita. Ed è così che, dolorosamente, si finisce per non sentire nè pietà e nè dolore per il vecchio padre dissanguato, ormai moribondo in un letto d’ospedale dove, al momento del trapasso, il figlio non vorrà essere presente. Quello che viene, con amore e rispetto evangelico, chiamato più volte il padre mio è colui che ritiene da sempre il proprio figlio un fallito, e per questo l’aspirazione alla gloria letteraria è vista dall’Io soccombente come una sorta di rivalsa verso il castrante Super-Io-Padreterno e nei confronti stessi di quel mondo culturale radicale e di sinistra che lo ha sempre ostracizzato e tenuto ai margini.
Verso la fine della sua «confessione», lo psiconevrotico narratore fa sapere che ormai comincia «a ragionare in termini psicoanalitici» e, infatti, i termini che si possono rintracciare nel libro di volta in volta sono: inconscio, Io, Super-Io, Es, regressione, rimozione, fase orale e fase anale, censura, situazione edipica, libido, transfert, analisi, senso di colpa, fobia, processo di identificazione, trauma, sdoppiamento, frustrazione, agorafobia, claustrofobia, sadismo, sadomasochismo, psicosi, conflitti psichici, castrazione, elettroshock, inibizione, divieto, nevrosi, psiconevrosi, nevrosi da angoscia, sesso e morte, sogno, associazione, rimorso, autosuggestione, sublimazione… Alla fine, dunque, il narratore – che per tutto il romanzo ha raccontato con amara disincantata ironia e sottile umorismo le sue pene e le sue disgrazie fisiche e psichiche – dice di essere ormai sulla via della guarigione e che il «pletorico Super-Io», che comunque continua a perseguitarlo anche «dal loculo ove giace», è stato messo «un po’a posto» grazie alla «cura psicoanalitica»,tanto da far sperare di aver«abbastanza ridotto la sua attività tormentatrice». E più avanti: «…di conflitti sia consci che inconsci a quanto pare ne ho fin troppi, e meno male che dalla ricognizione critica del passato operata per mezzo dell’analisi l’Io è venuto fuori alquanto riattivato e rinforzato contro il Super-Io…»; e così «cerco di stare aggrappato come posso al reale affinché il mio Io non si disintegri forse per sempre anche se in fondo non sarebbe la cosa peggiore perdere il contatto con la realtà quando la realtà è così schifosa…».
Così termina quello che Berto definisce «il lungo viaggio verso l’inconscio alla scoperta delle oscure radici dei miei presenti malanni», e sembra un viaggio nel dolore che non fa soltanto il narratore e che non appartiene soltanto a lui. Quel viaggio nelle tenebre della coscienza ci appartiene e a farlo siamo tutti noi, come quel dolore e quella sofferenza narrati non sono solo di Berto ma sono di tutti noi, perché – come si legge nell’Anonimo Veneziano – «tutti noi, in fondo, siamo anonimi veneziani». Con un comune destino di dolore e di morte, nel quale Dio si intravede appena e nel quale l’uomo si ritrova solo e impotente di fronte al «male del mondo».
*Salvatore La Moglie, scrittore