Giornalisti sul fronte anticamorra
I cronisti che hanno sfidato i casalesi
C’è un fronte nella lotta alla camorra di cui si parla poco. Un fronte ulteriore rispetto a quelli fondamentali costituiti da Forze dell’ordine e Magistratura. È il fronte dei giornalisti. Fronte tanto essenziale quanto delicato e vulnerabile. Essenziale perché determinante nella formazione di una coscienza popolare consapevole di come la camorra non sia questione che riguardi la politica, gli affari, gli ‘altri’, ma danneggi ciascuno di noi nel suo vivere quotidiano. Delicato e vulnerabile perché espone i singoli operatori dell’informazione e le loro famiglie a minacce e ritorsioni ed è alto, anche quando la tutela dello Stato si estende su di essi, il livello di rinunce e sacrifici personali a cui sono chiamati. A tale riguardo, se può essere scontato il riferimento a Roberto Saviano, divenuto presto caso mediatico, va detto subito che meno noti sono l’impegno e le vicissitudini di tanti altri.
Così, la recente notizia del ‘pentimento’ di Francesco Schiavone, boss dei casalesi arrestato nel 1998 e condannato all’ergastolo nell’ambito del processo ‘Spartacus’, conferisce particolare interesse e attualità al volume Io e Sandokan. Storia di una cronista di strada che ha sfidato la tigre (Marlin editore) in cui Marilena Natale racconta il proprio lavoro di cronista nel territorio dominato proprio da quel clan malavitoso: «Sono Marilena Natale, ho 51 anni e sono stata condannata a morte solo per aver fatto il mio dovere […]. Ho cercato di essere una voce per la mia gente, un punto di riferimento per i “miei casalesi”. Non quelli comunemente associati alla cosca di Casal di Principe, ma i casalesi veri, persone perbene che ogni giorno hanno il coraggio di dire di no alla criminalità organizzata». Per anni collaboratrice della «Gazzetta di Caserta» e reporter dell’emittente televisiva regionale «Più News», Marilena Natale, che ama definirsi “cronista di strada” per sottolineare la scelta di dare voce alla gente, con le sue inchieste giornalistiche coraggiose e appassionate ha denunciato le infiltrazioni malavitose nella pubblica amministrazione, l’inquinamento ambientale nella terra dei fuochi, il traffico illecito dei rifiuti. A questo proposito Natale ricorda un’intervista all’ex camorrista pentito Carmine Schiavone: «Niente di nuovo si intende. Lui ha già detto tutto nei processi che lo riguardano. Ma un conto è leggere i giornali, altra cosa è trovarsi davanti a un uomo che racconta la sua storia di soprusi, violenza, omicidi. Racconta di come si cominciò a fare arrivare i rifiuti in Campania e perché. Loro, i camorristi, all’inizio, ammaliati dall’affare milionario, non avevano compreso bene di che cosa si trattasse. Anche i contadini, che davano l’assenso perché le immondizie tossiche venissero interrate nelle loro terre, non sapevano bene cosa stesse accadendo. Schiavone racconta di intrallazzi tra camorra e politici corrotti, forze dell’ordine e industriali del Nord». Tematiche scomode che spesso l’hanno resa bersaglio di minacce e costretta a vivere sotto scorta armata. In particolare, con Io e Sandokan Marilena Natale non soltanto ricostruisce la storia criminale di Sandokan, «lo spietato boss di Casal di Principe, Francesco Schiavone», ma anche quella delle nuove leve di boss che, a una decina d’anni dalle condanne definitive inflitte ai capi storici del clan, mostrano di non volere mollare la presa su quel territorio. Nuove leve di camorristi che hanno imparato la ‘lezione’: sparare di meno affinché, in assenza di clamore mediatico, gli affari corruttivi possano procedere al meglio.
Tuttavia, quello di Marilena Natale è un racconto che lascia spazio anche alla speranza di riscatto, grazie all’azione di contrasto che la società civile riesce comunque a esprimere raccogliendosi attorno a persone come don Maurizio Patricello, parroco di Caivano, «partigiano del bene nato dal seme del sangue di don Peppe Diana». Ed è proprio al recupero e alla valorizzazione dell’esempio del parroco di Casal di Principe assassinato nel 1994 che Luigi Ferraiuolo, giornalista e redattore di Tv200, ha dedicato il volume Don Peppe Diana e la caduta di Gomorra (Edizioni San Paolo). Ferraiuolo, con la dovizia del cronista che ha soggiornato più volte in quei luoghi ma soprattutto con «l’ostinazione civica di chi vuole capire come si estirpa un male tanto radicato», ha raccontato non soltanto la ‘caduta di Gomorra’ sotto i colpi dell’azione giudiziaria innescata dal martirio di don Peppe Diana, ma anche la rivolta culturale e civile di una piccola porzione di cittadini resistenti, poi cresciuta negli anni. Resistenti che hanno creato nell’arco di venticinque anni un nuovo tessuto sociale fatto di cooperative sociali di ragazzi disagiati o disabili e ex detenuti capaci di dare vita ad aziende agricole e ad attività di ristorazione.
Resistenti che hanno ben compreso il senso della denuncia di un’altra grande giornalista anticamorra, anch’essa per lunghi anni costretta a vivere sotto scorta: Rosaria Capacchione. Nelle pagine del suo L’oro della camorra (Rizzoli), sulla base della rigorosa e puntuale divulgazione degli atti processuali, ella ha saputo fare comprendere la pervasività del sistema criminale dei casalesi alla fine degli anni Ottanta. Una pervasività capace non soltanto di condizionare i grandi appalti delle opere pubbliche e i finanziamenti della Comunità europea, ma anche d’imporre, attraverso il «meccanismo dell’estorsione-protezione», la scomparsa dagli scaffali dei supermercati della provincia di Caserta di un marchio di zucchero di qualità (Eridania), per favorire la commercializzazione del sottoprodotto di una propria azienda compiacente (Ipam). E non soltanto della zucchero, ma anche di tanti altri prodotti di largo consumo come, ad esempio, il burro. «Il burro» scriveva Rosaria Capacchione, «è un derivato del latte di vacca. Quello industriale contiene anche una percentuale di acqua. Più acqua c’è, più sfrigola nella padella; più genuino è, più ha il sapore di una crema […]. Quello confezionato nella carta bianca traslucida e prodotto da Paolo Cecere e dai fratelli Viglione aveva il colore del burro invernale, quasi bianco […]. Il realtà non era burro. La prima linea confezionava panetti di sego di bue; l’impastatrice Fritz mescolava derivati vegetali o prodotti di sintesi chimiche, come gli oli cosmetici. Un intruglio che ha fatto da base a biscotti, panettoni e gelati in Italia e all’estero. Ciascuno di noi, tra il 1996 e il 1998, ha ingerito 242 grammi di quell’impasto. Un veleno».
E proprio adesso che il cosiddetto ‘pentimento’ di Francesco Schiavone segna la vittoria dello Stato sulla criminalità organizzata e sembra renderla definitiva, è necessario ricordare. Ricordare per non abbassare la guardia e contrastare con maggiore efficacia l’azione delle nuove leve criminali.
*Raffaele Messina, scrittore