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Femminilità e femminismo nelle scrittrici italiane tra fine Ottocento e Novecento, parte IV

Diversamente dalla Banti rimane ancora in un’ombra immeritata Laudomia Bonanni (1907-2002), scrittrice e giornalista che ottenne lusinghieri successi di pubblico e di critica (furono suoi estimatori, tra gli altri, i coniugi Bellonci, Eugenio Montale, Emilio Cecchi, Giuseppe De Robertis, Enrico Falqui), numerosi premi letterari e traduzioni. Attiva dalla metà del ’900 per più un trentennio, mostrò nella sua opera narrativa una particolare attenzione per le donne del popolo, figure umili e oppresse che comunque hanno la forza di resistere ai danni provocati nel tessuto familiare e sociale dalla miseria, dall’ignoranza, dall’emigrazione e soprattutto dalla guerra. Nelle raccolte di racconti Il fosso (1949), Palma e sorelle (1954) e Città del tabacco (1977), compaiono creature femminili rassegnate alla sofferenza, spesso simili a bestie per la vitalità con cui lottano per sopravvivere. Tuttavia in alcune di queste figure si insinuano sentimenti di ribellione contro il perpetuarsi di sacrifici oscuri e mal ripagati dagli uomini, che nelle sue opere la Bonanni rappresenta come sesso debole, più sprovveduti e meno intelligenti delle donne. Si è parlato infatti di un “femminismo alla Bonanni” e di un suo radicale “antimaschilismo”, che precorrono e poi accompagnano l’esplosione del movimento femminista degli anni settanta.                                                         

L’attenzione costante per “l’immobile fatalità del destino femminile”, come ha precisato Olga Lombardi, si annuncia dalla raccolta Il fosso, con cui la scrittrice si afferma a livello nazionale aggiudicandosi il premio “Amici della domenica” indetto da Goffredo e Maria Bellonci. Il racconto eponimo ha come protagonista una figura di donna primordiale, Colomba, indurita da un’intera esistenza di umiliazioni e sacrifici, che anche dinanzi alla sciagura della guerra si adatta con indifferenza, senza temere l’“aria di finimondo” che si respira ovunque. Nel suo mondo miserabile non esiste diversità tra un’epoca e un’altra della storia e nemmeno esiste la categoria del “nemico”, cosicché per Colomba anche un tedesco disperso è solo un “cristiano” di cui avere pietà e al quale lavare i piedi piagati. Con Il fosso la Bonanni offre una ricostruzione ispirata al modello verghiano di una “vinta” estranea a ogni riscatto storico, chiusa in un mondo eternamente immobile che la scrittrice aquilana conosceva profondamente e che in molti suoi libri raccontò rimanendo nell’hic et nunc, sempre tesa a realizzare una narrazione imparziale e aderente alla realtà, senza allargarsi alla misura politica generale dei tragici anni della guerra.

La Bonanni non fu comunque solo la narratrice delle donne proletarie e, come notò Eugenio Montale, analizzò con profonda efficacia introspettiva anche i “mostri” piccolo borghesi defraudati delle loro certezze, come avviene nel racconto Il mostro (inserito nella raccolta Il fosso), nel glaciale romanzo L’adultera (1964) e nella storia di una psicosi femminile che porta al rifiuto della maternità, narrata nel romanzo Il bambino di pietra (1979). Interpreti dello smarrimento della coscienza conseguente alla guerra sono le protagoniste degli impegnativi romanzi L’imputata (1960) e del successivo L’adultera, ambientati in scenari urbani del primo dopoguerra, in un clima di violenza e di incertezza nel futuro. La storia corale de L’imputata inizia con il ritrovamento del cadavere di un neonato su un mucchio di spazzatura vicino a un caseggiato popolare. Il tragico fatto è un emblema inquietante dello snaturamento provocato dalla guerra nell’animo delle donne, tema riproposto nell’Adultera, storia esemplare di una donna sbandata, infedele al marito partito per la guerra e incapace di riassestare la sua vita familiare dopo il suo rimpatrio. Le storie dei due romanzi sono tasselli della rovina morale di quel periodo storico, nel quale la condizione femminile era particolarmente deprivata e difficile. Laudomia Bonanni vi insiste in tanti suoi scritti, dando un volto e una voce a numerosi personaggi di donne, adottando un linguaggio immediato e antiretorico con cui esprime la sua muta solidarietà verso le donne comuni, calandosi nelle loro piccole storie dove la storia ufficiale si fa più vicina e concreta. 

Il più innovativo dei personaggi femminili creati dalla Bonanni è la Rossa, protagonista del romanzo postumo La rappresaglia (2003), ambientato in un eremo della montagna abruzzese dove si rifugiano alcuni fascisti per sottrarsi ai partigiani. La situazione assume una piega inattesa quando i “neri” catturano una partigiana incinta e, riconosciuta in lei la responsabile di un’azione antifascista che aveva causato la morte di uno di loro, decidono la sua condanna a morte, da eseguire dopo che la donna avrà partorito. Alla crudezza della storia si adegua l’inconsueto linguaggio del romanzo, duro e sguaiato, utilizzato anche dalla prigioniera che continua a “menare la lingua a dritta e a manca come fosse una frusta”, tenendo testa alle volgarità dei suoi carcerieri. Il potente e inquietante personaggio della Rossa è quello in cui la Bonanni meglio esprime la metamorfosi narrativa del personaggio donna in coscienza femminile. La scrittrice affida infatti alla partigiana prigioniera riflessioni ideologiche molto significative sulla guerra, sulla lotta fratricida tra fascisti e partigiani, sull’impossibilità di aver fede in Dio e sulla necessità che le donne crescano perché il mondo migliori. La protagonista quindi non è solo una donna cosciente del suo diritto alla parità, ma è anche politicizzata e aderisce alla Resistenza perché vuole costruire una società libera. In nome di un mondo che “rinasce domani”, dove i diritti dei deboli saranno tutelati dalla violenza dei forti, la Rossa giustifica la necessità di far ricorso alla lotta violenta, e violenta è la maledizione da lei scagliata contro i fascisti che si preparano a ucciderla defraudandola di quel futuro di libertà per cui ha combattuto. La catastrofe annunciata dalla prigioniera si avvera nella conclusione della storia, collocata molti anni dopo la morte della Rossa e la scomparsa della sua creatura, quando la vita aveva ormai provveduto alla sua tragica rappresaglia contro i suoi aguzzini. La riuscita del romanzo, che ha carattere fortemente originale nell’intreccio, nella figura della protagonista e nelle articolate modalità narrative e stilistiche, è rafforzata dall’adesione totale della scrittrice ai suoi personaggi, dalla sua capacità di immedesimarsi totalmente nel vissuto interiore di ognuno. È questo il pregio più rilevante della narrativa della Bonanni, ma è anche il mezzo che consente alla scrittrice di rimanere fedele al suo ruolo di testimone e di non giudicare l’operato di nessun personaggio, mettendosi super partes e non condividendo, nel caso de La rappresaglia, né l’ideologia dei neri né quella della Rossa.

Negli stessi anni in cui la Bonanni concludeva la prima stesura de La rappresaglia, Renata Viganò (1900-1976), tenente e dirigente sanitario della brigata partigiana operante nelle valli di Comacchio, pubblica L’Agnese va a morire (1949), ispirato alla sua esperienza di lotta clandestina e ai canoni del neorealismo. Anche in questo caso la narrazione è mirata sulla vita di una donna del popolo, l’anziana Agnese, sullo sfondo degli sconvolgenti eventi storici italiani accaduti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Il dramma che cambia la vita della protagonista è la morte del marito, un militante comunista che non sopravvive ai maltrattamenti inflittigli dai nazisti durante la deportazione in Germania. Agnese, fino ad allora estranea alla lotta antifascista, reagisce al suo dolore maturando una nuova consapevolezza politica e inizia a fare la staffetta per le formazioni partigiane, pedalando con la sua bicicletta tra le valli di Comacchio per portare rifornimenti, armi e notizie. La sua adesione alla Resistenza le dà una nuova forza d’animo e Agnese uccide per vendetta un tedesco che aveva crudelmente sparato alla sua gatta, regalatale dall’amato marito. Fuggita tra i partigiani, dove diventa “mamma Agnese”, durante un rastrellamento viene catturata dai tedeschi e riconosciuta dal maresciallo del soldato che ha ucciso. Muore per mano di costui, con la testa spaccata, e il suo corpo rimane sulla neve come un mucchio di stracci. Similmente alla Rossa della Bonanni, il personaggio di Agnese della Viganò paga con la vita la sua lotta per la libertà, configurandosi come eroina positiva e virile alla pari con i personaggi dei coraggiosi partigiani che popolano la narrativa sulla Resistenza.

A confronto con le figure femminili della Bonanni e della Viganò, nella spaurita e dolente Ida Ramundo, protagonista de La storia di Elsa Morante (1912-1985), si colgono tratti opposti, che rimandano all’antico luogo comune della subordinazione della donna. Anche la vita incolore e oscura di Ida, che percepiva nel mondo “un’insicurezza minatoria per lei”, porta il segno della violenza maschile, come era stato per Artemisia, per la Rossa, per Agnese e per molti personaggi di donne raffigurati dalle scrittrici italiane che scelsero di raccontare la condizione femminile. L’esistenza chiusa, faticosa e inesplorata di Iduzza, che si svolge a Roma all’epoca della Seconda guerra mondiale e del primo dopoguerra, rappresenta infatti le umiliazioni e le sofferenze dei perdenti, delle eterne vittime della storia che la Morante ritrae con un’ininterrotta introspezione narrativa, intrecciando storie personali e storia collettiva. L’archetipo femminile a cui la scrittrice romana fa riferimento è comunque la donna assoggettata all’uomo, già presente nel romanzo d’esordio, Menzogna e sortilegio (1948), salutato da Lukàcs come “materiale esplosivo… accumulato, latente o eruttivo, in rivolte individuali, solitarie, personali”. Stregata da un’impossibile e tormentata passione per l’aristocratico cugino Edoardo, la protagonista Anna Maria è oggetto d’amore, ma anche di decisioni e scambi dettati dalla volontà dei personaggi maschili. Il suo matrimonio con un amico di Edoardo, preordinato dallo stesso cugino, e la definitiva scomparsa di lui, spingono la donna alla paradossale consolazione di scrivere a se stessa finte lettere di Edoardo, precipitando così nel delirio e nella pazzia.

All’infelice Anna Maria, figura autodistruttiva per la quale neanche la maternità rappresenta un appiglio, fa da contraltare la naturalità animalesca di Nunziata ne L’isola di Arturo (1957), il celebre romanzo con cui la Morante conferma il suo straordinario talento narrativo. Quasi adolescente, costretta a un matrimonio combinato con un uomo di cui subisce la brutalità e le lunghe assenze, tenera madre bambina il cui corpo inquieta il figliastro Arturo, Nunziatina sembra però uscire dalla dimensione storica della subalternità femminile perché, in contrasto con la sua immagine di donna schiacciata dalla società patriarcale, la Morante traccia contemporaneamente un altro profilo del suo personaggio, svelando la sua incorrotta e misteriosa innocenza e la sua adesione al magico paradiso-isola di Procida. Pier Paolo Pasolini, in una nota su Menzogna e sortilegio e L’isola di Arturo, collocò i due primi romanzi di Elsa Morante nell’ambito del realismo novecentesco accanto a Gadda, Moravia e Bassani, chiarendo che lo scopo della scrittrice “non era la letteratura, ma un ideale etico-fantastico, a cui la letteratura è asservita, e da cui è assorbito, ma non cancellato, l’ideale dell’impegno sociale immediato”. Nella sua recensione su La storia, comparsa su “Tempo” il 26 luglio del 1974, Pasolini punta invece il dito sulla parabola discendente compiuta dalla Morante, che gli sembra ormai estranea al realismo, e nel romanzo rintraccia la presenza di “manierismo”, “approssimatività rappresentativa e stilistica” ed elementarità linguistica”. La stroncatura di Pasolini non rimase isolata. Il romanzo divise la critica, ma ebbe un grande successo di pubblico, come tutti i libri della Morante, che contaminano più sottogeneri romanzeschi, dalla narrazione di stampo ottocentesco al conte philosophique e al romanzo popolare, accomunati e impreziositi dall’inimitabile, sontuoso e anarchico linguaggio della scrittrice, le cui opere sono estranee al neorealismo e alla neoavanguardia degli anni Sessanta. Per Elsa Morante, “la grande solitaria”, la letteratura vive in una dimensione innocente e si oppone al male del mondo, individuato nella guerra, negli armamenti nucleari (nel 1965 pubblicò il saggio Pro o contro la bomba atomica), nell’eterna oppressione degli umili. Non fu una femminista e anzi voleva essere definita “scrittore”, nella convinzione che la parola al femminile declassificasse la letteratura. Rifiutò anche di essere inclusa in un’antologia della poesia femminile curata da Biancamaria Frabotta, e tuttavia verso l’oscuro popolo delle donne che vive nelle sue opere affiorano la pietà e un conflittuale amore verso il suo genere, sempre in bilico tra la difesa della donna e la conferma del suo destino di eterna sconfitta.

Altre interessanti scrittrici italiane della generazione di Elsa Morante, Lalla Romano (1909-2001), narratrice e poetessa, e Natalia Ginzburg (1916-1991), narratrice, giornalista e autrice teatrale, esplorano mondi interiori e domestici in opere prevalentemente autobiografiche in cui la figura femminile interpreta il tema della memoria, come avviene in Tutti nostri ieri (1952), Le voci della sera (1961) e Lessico familiare (1963) della Ginzburg, o analizza i meccanismi complessi e mutevoli dei microcosmi familiari, non privi di asprezze e reticenze, come in La penombra che abbiamo attraversato (1964) e Le parole tra noi leggere (1969) della Romano. 

Attenzione critica agli affetti familiari, visti come vincoli di soggezione della donna, si coglie anche nella narrativa della scrittrice italo-cubana Alba De Cespedes (1911-1997). Nel romanzo psicologico Dalla parte di lei (1949), la protagonista Alessandra, che racconta in prima persona la sua storia, si porta dentro come un pesante fardello le tragiche vicende della sua famiglia d’origine, che non le impediscono però di credere nell’amore. Lo trova tra le braccia di un professore universitario antifascista, con cui la donna condivide la lotta partigiana, ma a un anno dal matrimonio sul loro amore perfetto è già sceso il silenzio. Ormai diventata invisibile per il marito, impegnato in politica e continuamente assente, Alessandra si sente abbandonata e medita il suicidio, ricalcando il destino della madre, ma la notte in cui decide di porre fine alla umiliante relazione non punta la pistola contro di sé ma contro il marito che dorme, mostrandole come sempre le spalle. La scrittrice, che parla attraverso il suo personaggio, ne comprende il dolore, la voglia di riscatto e di felicità e pur non condividendo il gesto estremo compiuto da Alessandra, non può che schierarsi “dalla parte di lei” in questa battaglia di incomunicabilità tra i sessi.

*Lucilla Sergiacomo, scrittrice