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Femminilità e femminismo nelle scrittrici italiane tra fine Ottocento e Novecento, II parte

Introdotte le più significative scrittrici italiane della contemporaneità che parlarono nelle loro opere della questione femminile, e individuate nella femminilità e nel femminismo le due ideologie sottese alla rappresentazione del personaggio della donna, può essere interessante ripercorrere, sia pur brevemente e in via esemplificativa, il tracciato dei critici letterari che si occuparono della letteratura femminile. Oltre a rivelare punti di vista ostili per partito preso, le recensioni e i giudizi espressi da parte maschile portano alla luce le problematiche avanzate dalle scrittrici e offrono inoltre l’opportunità di confrontare la mentalità dei due generi. Un problema interessante che si pongono ripetutamente alcuni critici del primo Novecento è se e in che misura le scrittrici possano contribuire a un rinnovamento della letteratura italiana partecipando ai movimenti d’avanguardia. 

 Nel suo volume – inchiesta del 1895, Alla scoperta dei letterati, Ugo Ojetti si esprime a favore dell’attiva collaborazione di Matilde Serao a una letteratura che vada oltre il positivismo, mentre vent’anni dopo Renato Serra nelle Lettere abbassa nettamente il valore dell’opera della Serao inserendola nella letteratura commerciale per “quel sentimentalismo erotico che piace tanto alle dattilografe di provincia” e per il “feticismo così piccolo borghese e femminino per il lusso e i vestiti e i gioielli scintillanti delle signore dell’alta società”. 

Insieme alla Serao, per Serra vanno incluse in questa categoria Téresah (pseudonimo di Corinna Teresa Ubertis), Amalia Guglielminetti e Carolina Invernizio, molto lette in quell’epoca. Serra rimarca quindi il mancato apporto delle scrittrici italiane alla letteratura d’avanguardia, ma non manca di assegnare qualche elogio per Neera, Annie Vivanti e soprattutto per Grazia Deledda, che il critico relega però nell’ambito tardo-naturalista riconoscendole comunque una maniera originale, aliena da interessi di consumo ma anche da tendenze sperimentali. Ancora Serra coglie l’alternanza di temi e atteggiamenti che portavano Ada Negri verso posizioni di retroguardia, in controtendenza con il suo esordio populista e femminista. Sulla poetessa Amalia Guglielminetti, nota alle cronache del tempo per il suo legame con Guido Gozzano, per il suo ostentato antifemminismo e per l’avversione alla Aleramo, Serra avanza l’ipotesi di una sua partecipazione alla sperimentazione di distici “secondo il sistema di Gozzano”, registrando però un fallimento nella seconda raccolta della Guglielminetti, L’Amante ignoto

Attira critiche non benevole anche il conformismo che le scrittrici commerciali manifestano celando la propria identità dietro pseudonimi maschili. È il caso della romanziera Beatrice Speraz (1843-1923), in arte Bruno Sperani, e dell’insegnante triestina Luisa Macina Gervasio (1865-1936), narratrice, poetessa e giornalista nota con il nome d’arte Luigi di San Giusto. Su questa moda interviene nel 1907 Luigi Capuana su “Nuova Antologia”, in una rassegna sulla letteratura delle donne in Italia. Malgrado Capuana attribuisse la capacità di creazione letteraria ai soli scrittori, riservando alle scrittrici il ruolo subalterno di imitatrici dell’immaginazione maschile, lo scrittore e critico siciliano mostrava la sua perplessità sulla ricerca di anonimato delle voci letterarie femminili, ormai numerose e in alcuni casi famose. La medaglia dell’antifemminismo spetta comunque agli interventi critici di Giovanni Boine, raccolti in Plausi e botte (una rubrica di recensioni librarie pubblicate sulla “Riviera ligure” fra il 1914 e il 1916), per l’accanimento con cui fa a pezzi la letteratura femminile in versi e in prosa prodotta alla vigilia della Prima guerra mondiale. 

Le sue frecciate trafiggono il romanzo Faustina Bon, di Haydée (pseudonimo di Ida Finzi), che secondo Boine compiaceva i propri desideri facendo accoppiare i personaggi dei suoi romanzi ogni trenta pagine, e un giudizio simile è riservato anche al romanzo Palcoscenico, di Ofelia Mazzoni. Ancora più a fondo la misoginia di Boine colpisce le novelle I volti dell’amore e la raccolta poetica L’insonne di Amalia Guglielminetti, alla quale il critico sconsiglia di scrivere libri che “prolungano le occhiate, il profumo, il dondolamento dell’anche”. 

Sotto la falce di Boine cade anche Ada Negri, tacciata di aver scritto in Esilio versi degni di uno “studente di liceo”. “Le donne mancano assolutamente di lirica”, conclude il vociano Boine, fortemente influenzato dalle teorie antifemministe espresse dal filosofo viennese Otto Weininger in Sesso e carattere (1903), divulgato in Italia da “La Voce” in un numero sulla “questione sessuale” (febbraio 1910).                    

L’influsso del pensiero di Weininger si coglie anche sul primo numero di “Lacerba” (gennaio 1913), in cui Italo Tavolato presenta il “Manifesto della donna futurista”, elaborato a Parigi nel 1912 da Valentine de Saint Point, e ne sviluppa il motivo dominante della lussuria concepita come una forza. Nel primo Novecento numerose donne aderirono al Futurismo esprimendosi poliedricamente, spronate dallo stesso Filippo Tommaso Marinetti, che fin dagli anni di “Poesia” aveva aperto alle scrittrici spazi di intervento, pur riservando all’altro sesso un atteggiamento misogino, reso esplicito nel manifesto “Contro l’amore e il parlamentarismo” (1910): “Noi disprezziamo la donna, concepita come unico ideale, divino serbatoio d’amore, la donna veleno, la donna ninnolo tragico, ossessionante e fatale”. Le donne futuriste, pur entrando in un movimento d’avanguardia che ribadiva la volontà di rottura con il passato, non vi introdussero istanze di emancipazione e parità, ma si adeguarono al maschilismo reazionario che vi imperava e, tranne solitarie eccezioni, lo fecero anzi proprio sino a ridurre la funzione femminile unicamente a quella materna, come sostennero nelle loro opere le scrittrici futuriste Enif Robert e Maria Ginanni. La Robert (1886-1976), che collaborò attivamente con “Italia futurista”, insieme a Marinetti scrisse il romanzo sperimentale Un ventre di donna (1919), in cui si teorizza la figura canonica della donna futurista che ripudia la propria femminilità e aspira ad assimilarsi alla potenza virile, in antitesi con la figura della donna sentimentale e languida della letteratura del passato. 

Mentre scriveva il romanzo La Robert soffriva di una malattia uterina e utilizza il “ventre malato” come simbolo dell’inferiorità femminile; tuttavia questa sua convinzione antifemminista non le impedisce di esaltare la maternità come vera funzione della donna, ricordando “la gioia profondamente carnale” provata dopo il parto, contemplando la creatura nata dal suo ventre. Su posizioni analoghe si colloca la poetessa futurista Maria Ginanni, pseudonimo di Maria Crisi (1896-1985), vicina al presurrealismo del primo dopoguerra, che celebra il vitalismo erotico dell’aggressivo superuomo futurista, annullando il punto di vista della donna che secondo la Ginanni è dominata dal bisogno sessuale oppure può assumere l’altra maschera tradizionale della femminilità e diventare madre esemplare. Si riconferma quindi in area futurista il mai tramontato mito cristiano della maternità, elevato a un livello superiore dal futurismo e dal fascismo, che esaltò la fecondità e la sacralità della funzione riproduttiva della donna. Al progressismo artistico il futurismo accostava quindi un’ideologia nettamente reazionaria e antifemminista e la stessa esaltazione della libertà sessuale sbandierata da Valentine de Saint-Point nel “Manifesto della donna futurista” si rivela estranea a un’autentica emancipazione del costume femminile, perché la scrittrice arriva a giustificare e addirittura a inneggiare allo stupro inflitto alle donne dai soldati dopo la battaglia, ritenendolo un atto ritempratole e vitale del maschio guerriero. La stessa scrittrice conferma la sostanza conservatrice della sua visione della donna dividendo la specie femminile nelle categorie della “madre” e dell’“amante”, e a entrambe assegna, consapevolmente, un destino di creature mutilate, sottraendo alla madre il piacere sessuale e all’amante la capacità di amore materno.                                                                                                                                                                                                                                                  

Unica scrittrice futurista a levare la sua voce contro la misoginia del movimento è Rosa Rosà, pseudonimo di Edyth van Haynau (1884-1978), viennese di origine ma vissuta in Italia dopo il matrimonio con lo scrittore italiano Urlico Arnaldi. Sulla rivista “L’Italia futurista” la Rosà richiama l’importante cambiamento avvenuto negli anni della guerra mondiale, quando le donne avevano sostituito nella produzione gli uomini partiti per il fronte, lavorando alla pari con l’altro sesso. Tale dimostrazione, secondo la Rosà, dava un’eccezionale spinta al riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti delle donne non solo sul piano economico e giuridico, ma anche nella vita privata. Si entrava così nella sfera del personale, tentando di reinterpretare il ruolo materno senza rinunciare alla propria identità di donna.

Più delle dichiarazioni di principio, sono comunque la ricerca stilistica, i tentativi di rigenerazione dei generi letterari e l’entusiasmo sperimentale del paroliberismo a coinvolgere le scrittrici nel movimento futurista. Particolarmente impegnate nelle rivoluzioni formali e nelle teorie dell’avanguardia sono Benedetta Cappa (1897-1977) e Maria Sara Goretti (1907-2001). La Cappa, detta Beny, fu moglie di Filippo Tommaso Marinetti e si affermò come artista figurativa multi-sensoriale, scrisse i romanzi sperimentali Le forze umane, romanzo astratto con sintesi grafiche (1924), Viaggio di Gararà, romanzo cosmico per teatro (1931) e il poema Quarto d’ora di poesia, musica di sentimenti (1945). La Goretti fu attivista del movimento futurista più estremo, assidua collaboratrice della rivista “Futurismo oggi” e autrice di “aeropoesie” e dei saggi Poesia della macchina (1940) e La donna e il futurismo (1941). A tentarne un bilancio, la letteratura futurista femminile, pur avvalendosi delle tecniche sperimentali del movimento, raggiunse risultati artistici limitati e raramente apportò contributi teorici originali né provocò svolte significative nella letteratura femminile italiana, che continuò per la gran parte a seguire finalità commerciali.

*Lucilla Sergiacomo, scrittrice