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Eva e il peccato originale

«Ma il Serpente disse alla Donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che, quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.»  (Genesi  3, 4-7)

La Scrittura presenta due alberi: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. Con le rispettive proibizioni. Per l’albero della conoscenza del bene e del male è scritto: “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti” (Gen. 2, 16-17).  Dopo questa proibizione fatta ad Adamo, il Signore crea gli animali e poi la donna: “Plasmò ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo… ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile. Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:  Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta”  (Gen.2,19ss.).

Di fronte alla donna, Adamo resta affascinato. Trepida, si emoziona ed esprime poeticamente la sua soddisfazione. Nasce l’amore. La costola (in ebraico: tsela), con cui viene creata la donna, secondo molti interpreti, rappresenta il sesso maschile. Eva è quindi figlia-sorella-moglie di Adamo. La prima famiglia è, di fatto, una famiglia incestuosa, anche se solo in seguito l’incesto diventerà “tabù”, “peccato”. La narrazione biblica delle origini tende a legittimare la superiorità del maschio sulla femmina. Perfino nella terminologia, la parola donna sarà legata ad uomo: in ebraico: “’ishah”, da ‘ish, uomo; come anche per l’inglese: “Wo-man”, da man = uomo. 

Entra in azione il Serpente, che rivolge la domanda alla donna: “È vero che Dio ha detto: non dovete mangiare di nessun albero del giardino?” (Gen. 3,1). A questa domanda accattivante, Eva risponde, precisando la proibizione: “Dei frutti degli alberi del giardino, noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete” (Gen.3, 2-3). Ma il serpente risponde, ribaltando il divieto: “Non morirete affatto. Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen.3, 4-5). Eva vede che l’albero è bello, desiderabile. Quindi ne coglie il frutto, lo mangia e lo offre anche ad Adamo. In quel momento aprono gli occhi e scoprono la loro nudità. 

Andando contro la proibizione, Adamo ed Eva imparano a conoscere il bene e il male. La tensione verso la conoscenza avviene su sollecitazione del serpente. Ascoltando il serpente, Eva ascolta se stessa, la sua intima natura, volta a scandagliare le profondità dell’animo umano.

Il gesto di Eva è in linea con la sua natura: l’affermazione della individualità umana. Nel momento della trasgressione all’ordine di un Dio-Padrone, Eva inizia la grande liberazione dalla sudditanza nei confronti della Divinità. Ribellandosi, la coppia Eva-Adamo si incammina verso la realizzazione umana completa, conformandosi all’immagine di Dio: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male” (Gen. 3, 21).

Il serpente è metafora della conoscenza. Una figura dal significato enigmatico. Compare spesso anche in altri miti. A Delfi, in Grecia, fondata da Zeus, perché ritenuta il centro (ònfalo=ombelico) del mondo, vi si era nascosta la dea Terra (Ghé),  protetta dal figlio, il serpente Pitone. Ad Atene, sul Partenone, la statua di Pallade, scolpita da Fidia, aveva come simbolo di protezione un serpente nello scudo. 

 Nell’India dei Veda il dio Indra aveva la missione di uccidere Vrtra, un mostro in forma di serpente, che ostacolava il progresso umano. 

Nelle teologie cristiane, queste parole  presentano la più grande colpa, il peccato originale, commesso da Eva e subìto da tutte le generazioni. Una colpa che si tramanda di generazione in generazione e che riguarda tutto il genere umano. 

La tematica del peccato originale è completamente assente nei Vangeli. Non viene mai citato né adombrato il concetto di redenzione. Se ne parla invece in vari passi delle lettere di S. Paolo (II Cor. 11.3;  I Tim. 2.13; I Cor. 11, 7). Anche se il passo più significativo è nella lettera ai Romani (5,12). Ma è Agostino che svilupperà la concezione del peccato originale in maniera categorica tanto da diventare dogmatica, in quanto colpa non solo dei progenitori ma di tutto il genere umano, che solo il battesimo può eliminare. Per i bambini che muoiono senza battesimo c’è l’inferno, sia pure con una pena addolcita. Le parole di Agostino non permettono dubbi: “Si può perciò dire giustamente che i bambini che escono dal corpo senza il battesimo si troveranno nella dannazione, benché la più mite di tutte” (De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, I, 16.21). 

Per Agostino il peccato originale è fondamentalmente la trasgressione, la disubbidienza all’ordine di Dio (colpa) e, come conseguenza (pena) la concupiscenza. “Quando dunque Adamo peccò non obbedendo a Dio, allora il suo corpo perse la grazia per la quale, pur essendo animale e mortale, obbediva completamente alla sua anima. Allora venne fuori quel movimento bestiale e vergognoso per gli uomini per il quale egli arrossì nella sua nudità” (De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, I, 16.21). La pena del peccato originale, per Agostino, resta la concupiscenza, la libido, come un retaggio pressoché impossibile da dominare. 

Nato il 13 novembre del 354 ha un figlio nel 372, all’età di diciotto anni, che chiamerà Adeodato, concepito da una donna che resterà sempre sconosciuta. Arrivati a Milano, la compagna lo lascia per tornare in Africa. La madre, Monica, gli consiglia di prendersi una nuova ragazza. Agostino non si sofferma a parlare di sessualità femminile, di orgasmo, come se la donna fosse solo l’oggetto di piacere per l’uomo, tanto da affermare: “quel piacere che è il più grande tra i piaceri del corpo” (De Civitate Dei, XIV,16).  Nella sua opera autobiografica, “Le confessioni”, non cita mai i nomi delle sue donne. Un misogino, si dimostra. Bisognerà arrivare ai tempi nostri, alla psicanalisi e alla rivoluzione femminista (Psicoanalisi e femminismo di Juliet Mitchell), ma soprattutto a Freud per scoprire il “continente nero”, come definisce la donna. Già con la Rivoluzione Francese, nel 1792, era uscito un libro dal titolo “Rivendicazione dei diritti della donna” di Mary Wollstonecraft. 

Freud ritiene che la donna che rifiuta l’orgasmo vaginale è una donna “non cresciuta”, tesi a cui rispondono Anne Koedt, una femminista, con un libro dal titolo “Il mito dell’orgasmo vaginale” (1941)  e un’altra,  Carla Lonzi, che pubblica nel 1971 il libro “La donna clitoridea e la donna vaginale”, affermando che l’uomo, per motivi di dominio, “ha imposto il modello di piacere vaginale”. Con la ricerca psico-fisica del corpo umano, la leggenda del peccato originale tenderà a scomparire definitivamente. 

Contro la tesi di Agostino, già allora, si schierò il monaco della Britannia Pelagio e il suo discepolo Celestio. Nel 417 il papa Zosimo si dichiara favorevole alle tesi di Pelagio e Celestio, ma l’anno successivo, al concilio di Cartagine (418) che accoglie le tesi di Agostino, il papa ritratta, condividendo il documento antipelagiano. 

L’idea dogmatica del peccato originale sta alla base della struttura teologica, attraverso le tre tappe del processo naturale: – natura pura (in Paradiso); – natura decaduta (lapsa, dopo il peccato originale); – natura decaduta e riparata (lapsa reparata, con la salvezza operata dalla redenzione di Cristo. Con questa visione si è creato un Cristianesimo imprigionato nelle strutture ecclesiastiche che offrono ai loro fedeli grazia e salvezza, mediante i sacramenti, tradendo in questo modo il messaggio universale di Cristo. Cristo si è rivolto agli uomini. Tutti, non ad alcuni soltanto. Il superamento dello scoglio del peccato originale minerebbe certamente la concezione della storia della salvezza, ma ridarebbe alla missione di Cristo il suo valore profondo e autentico: l’esemplarità umana. Cristo non è venuto per redimere da una colpa mai esistita, ma per elevare la natura umana al suo grado più alto. 

La parola redenzione deriva dal verbo “redímere”, anche in latino “redímere” da red– (= di nuovo) ed “ímere” per “émere” (comprare). Significa quindi ricomprare ciò che è stato venduto. Nei Vangeli questo verbo non viene mai usato.  Il termine “redenzione” si trova solo nel Vangelo di Luca in due passi: l’uno (2.38) in cui la profetessa Anna, durante la presentazione di Gesù-bambino al tempio, “si mise a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”; l’altro, verso la fine (21.28), quando si parla di catastrofi cosmiche e manifestazione del figlio dell’uomo glorioso: “Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra redenzione è vicina”. 

La centralità del peccato originale nella struttura dogmatica del Cristianesimo appare come un principio fondamentale, impossibile da superare. Ed è strano come una simile invenzione, una falsità, che non ha fondamento se non mitologico, abbia potuto resistere fino ad oggi, senza sollevare dubbi. 

Se si pensa ai miliardi di esseri umani vissuti prima della venuta di Cristo e ai miliardi che non lo hanno conosciuto e non sono stati battezzati, si dovrebbe dedurre che sono tutti dannati. Un Cristianesimo così disumano e anticristiano sembra proprio inconcepibile. 

Una serie di posizioni in contrasto con la linea dogmatica delle chiese-istituzioni sembra ora affermarsi come una nuova visione ideologica, che ribalta l’antica interpretazione per fare di Eva il modello dell’umanità, liberata dalle catene d’un Eden mai esistito. È noto come sia stato per primo Erich Fromm a parlare del gesto di Eva in questi termini: “Questo primo atto di disobbedienza è l’inizio della storia umana, perché è l’inizio della libertà umana”. Non un peccato, quindi, ma il primo atto di liberazione. “È molto significativo – continua Fromm – che la Bibbia non definisca mai peccato l’atto di Adamo”. (Voi sarete come Dei, Ubaldini, Roma 1970). 

 Con lui, Margherita Hack: “La colpa di Eva è stata quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze le leggi che regolano l’universo, la terra, il proprio corpo, di rifiutare l’insegnamento calato dall’alto; in una parola Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede”. E Paul Ricoeur: “Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alle anime, durante secoli di cristianesimo, l’interpretazione letterale della storia di Adamo”. E ancora: “insulto alla vita” (Mancuso), “dottrina di cui dobbiamo assolutamente liberarci” (Delumeau), “qualcosa di perverso” (Maggi) “dottrina inesistente nel Vecchio Testamento” (Haag), “disobbedienza mai esistita” (Castillo), “dottrina devastante” (Fox), “priva di fondamento l’accusa di un’offesa a Dio” (Valerio). 

Già Immanuel Kant, il grande filosofo tedesco, riteneva “sconveniente” l’idea che il male ci venga per eredità dai nostri progenitori. Anzi col gesto di Eva nasce la filosofia, l’amore del sapere.  E Schelling scrive: “lo scopo ultimo della storia umana, tutta intera, è che tutte le realtà umane ritornino all’universale sovranità della ragione”

Lo storico cattolico, Jean Delumeau, scrive: « L’espressione “peccato originale” racchiude ancora troppo spesso il tanfo di una dottrina di cui dobbiamo assolutamente liberarci e che si è costituita partendo dall’identificazione, storicamente insostenibile, di Adamo con il primo uomo ».

Per il teologo Vito Mancuso, la teologia si deve liberare dalla prigionia della storia. La narrazione del peccato originale non dovrebbe essere intesa come verità storica, ma come rappresentazione mitica, dal momento che il mito è più vero della storia. Il serpente è solo un simbolo: il simbolo dell’ambiguità, tra bene e male, tra intelligenza e astuzia.   

“Il serpente è dentro di noi”, scrive Mancuso e continua: “Il serpente è la vita, è questa irrefrenabile voglia di vivere… In molte lingue semitiche del tempo il serpente veniva chiamato Hawwah, come il nome della prima donna: Eva. Il serpente e la donna, pur essendo due personaggi distinti, si appartengono l’un l’altro, appartengono allo stesso ambito primordiale della vita… È lui, dopo tutto il vincitore: la sua impresa tentatrice è riuscita alla perfezione; anzi riesce ogni giorno” 

Su questa linea di rigore dogmatico è stato condannato con la scomunica il teologo cattolico  Tissa Balasuriya, sacerdote degli Oblati di Maria dello Sri Lanka. Joseph Ratzinger, affermava che la scomunica dipendeva dal fatto che il teologo Balasuriya sosteneva che “il peccato originale è stato inventato dal clero per poter esercitare potere sulle anime dei fedeli”. Nel libro Mary and Human Liberation, Balasuriya  scrive: “Il mito non deve essere preso alla lettera come se fosse storicamente reale…. Molto dipende dall’interpretazione data ad esso e al suo messaggio sulle realtà ultime. […] La storia di Adamo ed Eva è stata il fondamento di un’ideologia di dominazione maschile.” 

Il caso più singolare di critica al peccato originale resta quello di Teilhard De Chardin, gesuita, scienziato, paleontologo, che lo affronta già nel 1920, tornandoci nel 1947 con uno scritto specifico, subito censurato. E lo stesso Teilhard fu  punito dalla sua comunità religiosa, i gesuiti,  allontanato da Parigi e mandato in Cina. 

Teilhard De Chardin sostiene che “non esiste la minima traccia all’orizzonte, la minima cicatrice che indichi le rovine di un’età dell’oro o la nostra amputazione da un mondo migliore.” (Comment je crois, Seuil, Paris 1969). 

Che, nei primi capitoli della Genesi, si sovrappongano diverse redazioni è stato da tempo evidenziato dagli esegeti  ed è un dato incontrovertibile. Ma, prescindendo dall’esegesi, si può ritenere, sotto  il profilo psicanalitico, che quella prima ribellione è stata anche la prima affermazione dell’autonomia umana.

Chissà che non sia giunto il tempo giusto, quel kairòs,  in cui un vicario di Cristo possa rileggere e reinterpretare evangelicamente la Parola di Dio. Una Parola che affermi come Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell’Uomo, si rivolga a tutti gli uomini, indistintamente, per la salvezza di tutti, battezzati o no, disposti ad accogliere il suo messaggio e la sua testimonianza per l’universale comunità umana. Una comunità chiamata ad elevare la propria natura al suo più alto grado. Sul suo esempio di vita: Cristo-Uomo, Cristianesimo-Umanesimo. 

Una vita fondata sull’Amore e che nell’Amore ha la sua unica legge universale, eterna: “Amatevi gli uni e gli altri”. 

*Mario Setta, scrittore