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Erri De Luca, A grandezza naturale (Narratori Feltrinelli, 2022)

Erri De Luca in “A Grandezza naturale” racconta storie estreme di genitori e figli. Per l’autore il rapporto tra padre e figlio è una disputa tra il suo nodo e il suo disfacimento, è il sottile confine marcato dalla scelta tra l’obbedienza e la disobbedienza, è la linea di demarcazione che segna l’emancipazione del figlio dal padre. 

La prima raffigurazione paterna è quella realizzata da Marc Chagall mentre si trova a Parigi. È un ritratto formato uno a uno, a grandezza naturale, quella che si frappone tra genitori e figli quando questi ultimi, come frutti acerbi caduti lontano dall’albero, iniziano ad “essere nella distanza”. L’autore riproduce a memoria questa distanza, preferendo alla raffigurazione intima della genitorialità quella del mercante di aringhe dagli occhi arrossati. Ci racconta la quotidianità di un uomo che tutte le mattine si sveglia per andare presto al mercato ad acquistare il pesce, i cui capelli coprono le orecchie per proteggersi dal freddo e dagli strilli dei venditori, la cui giacca è avvolta dall’argenteo strato rilasciato dalle lische del pesce. Il riconoscimento dell’umiltà paterna è l’espressione compiuta di gratitudine di un figlio che, nella distanza dal padre, ha coltivato la sua natura d’artista piuttosto che quella di commerciante.  Scioglie il nodo Chagall e segue la via dell’emancipazione, insegue e definisce il suo futuro di artista. 

Se Chagall ha superato il padre per disobbedienza, Isacco ha sovrastato Abramo per eccesso di obbedienza: assecondando il suo sacrificio senza mai ribellarsi e offrendo i polsi al padre affinché li legasse e fosse compiuto il suo destino. Il sacrificio non c’è stato, ma l’obbediente Isacco ha superato il padre lasciandosi legare con fermo coraggio. De Luca scorge in questo figlio obbediente il più clamoroso e sconcertante atto di emancipazione del figlio dal padre. 

In queste storie e ritratti di padri e figli si rivela anche quello dell’autore, sopravvissuto al padre, estraneo all’esperienza della paternità, De luca riconosce a se stesso di essere stato sempre e soltanto un figlio che ha sentito il bisogno di sciogliere il vincolo che lo legava al padre per inseguire la libertà. Gli ultimi anni di vita dei genitori li hanno trascorsi insieme, è solo in età matura che l’autore è riuscito a riconoscersi nel padre e acquisire la consapevolezza di essere profondamente vicino alla sensibilità paterna con cui condivideva la passione per i libri, il vino e le montagne. L’educazione economica, l’accesso alla cultura, la protezione dell’affetto genitoriale avrebbero consentito al piccolo Erri l’accesso al mondo e al tempo stesso avrebbero segnato le differenze tra lui ed i suoi coetanei: quegli scugnizzi, figli di nessuno che si esibivano tuffandosi dal molo Beverello in cambio di pochi spiccioli. De luca li chiama “i figli della città”, una città che sembrava non accorgersi degli orfani di guerra che “giocavano alla sopravvivenza” tra gli sguardi indifferenti della gente. 

Attraverso le storie di padri e figli si consuma la storia del ‘900, un secolo di separazioni e di sorpasso generazionale. Quando la microstoria irrompe nella storia, si consuma la vicenda di una giovane donna che scopre di essere figlia di un criminale di guerra. In questo racconto narrato dal basso, rabbia e compassione si mescolano. Quando la storia si compone di vicende private non c’è spazio per soluzioni facili e totalizzanti. Più delle risposte, valgono le domande difronte alle quali ci pone l’autore. Quanto le colpe dei padri possono cadere lontano dai figli? Come si concilia la percezione del dolore di una comunità con la compassione e la cura filiale verso un padre vecchio e bisognoso di assistenza? Quanto è difficile accettare per chi è figlia che sarà figlia per sempre? Quale conciliazione è possibile tra padri e figli allontanati dallo scarto generazionale di un secolo?

In fondo a queste narrazioni Erri De Luca colloca la storia di un padre, che padre non è mai stato, ma che ha assunto volontariamente la genitorialità di duecento bambini rinchiusi nell’orfanotrofio del ghetto di Varsavia e deportati a Treblinka dai nazisti. Il direttore, Janusz Korczak, aveva accettato di proteggerli e di accompagnarli nel loro ultimo viaggio. Un tributo, quello dell’autore, per chi ha scelto la paternità come atto di generosa volontà. 

Il più straziante esempio di amore genitoriale, De Luca lo individua nelle fondamenta della religione Cristiana. Il Cristianesimo – scrive l’autore – inizia con la missione suicida di un figlio mandato da suo padre -. Con questo atto estremo, la divinità rinuncia al suo potere, proibisce a se stesso di intervenire per proteggere il figlio. Ripercorrendo il calvario di Cristo, De Luca si propone di risollevare la testa di quel Padre che ha assistito sofferente al dolore estremo di suo figlio. Quello stesso dolore – incalza l’autore – rinnova il suo valore universale ancora oggi: commuove e al tempo stesso indigna, nuoce e scredita ogni forma di oppressione dell’uomo verso i suoi simili e il pianeta. 

*Tiziana Santoro, giornalista