Dovremmo essere tutti femministi: la strada è ancora lunga
Alcune riflessioni a partire dal saggio di Chimamanda Ngozi Adichie
Le tematiche relative al genere, e a tutti gli aspetti della vita ad esso connessi, sono sempre più al centro del dibattito sociale, anche a livello legislativo.
In particolare le disuguaglianze tra uomini e donne e le ingiustizie, i soprusi e le violenze (fisiche e non) cui le donne sono purtroppo spesso sottoposte per il solo fatto di non essere uomini si sono via via portate negli anni sempre più al centro dell’attenzione, come tutti sappiamo. Vari movimenti si sono fatti ambasciatori di battaglie di denuncia di questi fenomeni, dal Se non ora quando al Me too; sempre più polemiche sono emerse intorno a determinati comportamenti sinora tendenzialmente tollerati o minimizzati, come il catcalling (un tempo più semplicemente conosciuto come pappagallismo).
I tragici avvenimenti dell’estate appena trascorsa, con la presa di Kabul da parte dei talebani e le sue drammatiche conseguenze sulla vita della popolazione afghana e in particolare sulle sue donne, potrebbero farci pensare che, in confronto a loro, le donne del primo mondo occidentale sono fortunate e che in fondo preoccuparsi di un imbecille che ci grida un “Ah bbbella” per strada sia un lusso da privilegiate. È evidente che le due situazioni non siano nemmeno lontanamente paragonabili, ma il fatto che ci siano luoghi in cui le donne vivono in condizioni che somigliano molto alla schiavitù e che in Occidente possano invece essere sicure di molte conquiste non significa certo che la strada verso l’uguaglianza di genere non sia ancora lunga e impervia anche nelle nostre democrazie.
A maggior ragione, anzi, di fronte all’angosciosa realtà cui stiamo assistendo, rendendoci conto che in una manciata di settimane tutti i diritti acquisiti negli ultimi vent’anni dalle donne afghane (conquiste di libertà per noi normali e dovute) possono essere completamente cancellati con un semplice colpo di spugna, ancor di più emerge l’importanza del femminismo e delle sue battaglie, tanto per quanto riguarda diritti fondamentali che dovrebbero essere inviolabili, quanto in relazione alla nostra quotidianità che, sebbene infinitamente migliore di tante altre, è ancora carente sotto moltissimi aspetti. Come non accorgersene, d’altronde, quando è ancora possibile che su una rete tv nazionale, di fronte alla notizia degli ultimi numerosi femminicidi, ci s’interroghi sul comportamento delle vittime, domandandosi se per caso a volte non sia il loro atteggiamento esasperante ad innescare la violenza?
Un contributo estremamente interessante sulla necessità dell’impegno femminista, che sottolinea peraltro l’estremo radicamento culturale dell’ideologia maschilista, ci viene dall’autrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie nel saggio Dovremmo essere tutti femministi, frutto dell’adattamento del suo intervento alla TEDXEuston Conference del 2012. E il fatto che quasi un decennio dopo le sue parole siano ancora attuali non fa che confermare questa necessità.
Uno dei primi temi affrontati dall’autrice è il pregiudizio intorno al femminismo e alle femministe. Come riporta, infatti, durante la promozione del suo romanzo L’ibisco viola, un giornalista benintenzionato le consigliò di non definirsi femminista, in quanto le femministe non trovano marito e quindi sono infelici. Successivamente una docente universitaria nigeriana le fece notare che il femminismo non fa parte della cultura africana e che se si definiva femminista era solo dovuto all’influenza di letture occidentali. Poi un amico le disse che le femministe odiano gli uomini. E così è continuato, tanto che, per segnare uno stacco da tutti gli stereotipi negativi legati al femminismo “A un certo punto ero diventata una Femminista Felice Africana Che Non Odia Gli Uomini e Che Ama Mettere il Rossetto e i Tacchi Alti Per Sé e Non Per Gli Uomini.” .
Qualche passo avanti in tal senso è stato compiuto, negli ultimi dieci anni. Il fatto che molte donne famose, belle e realizzate si dichiarino femministe ha dimostrato che chi si afferma tale non debba necessariamente essere una creatura infelice, piena di rabbia, priva di senso dell’umorismo, nemica di uomini, reggiseni, depilazione, deodoranti e trucchi e che, se lo è, non dipende certo dal suo essere femminista.
In ogni caso Adichie ha messo a fuoco un punto importante, perché la parola femminista è stata ed è tuttora spesso oggetto di connotazioni pregiudizievoli fortemente negative. Proseguendo nelle sue riflessioni, l’autrice passa ad analizzare il radicamento del maschilismo e delle discriminazioni di genere nella cultura, sottolineando che il problema consiste nel fatto che certe distinzioni ci vengono inculcate sin dalla nascita, spesso in modo anche inconsapevole, diventando stereotipi generalizzati.
“Uomini e donne sono diversi. Abbiamo ormoni diversi, organi sessuali diversi e capacità biologiche diverse: le donne possono avere figli, gli uomini no. Gli uomini hanno più testosterone e sono generalmente più forti delle donne. Le donne sono leggermente più numerose degli uomini (il 52 per cento della popolazione mondiale è femminile), ma la maggior parte dei posti di potere e di prestigio è occupata da uomini.” .
In tal senso i dati raccolti dalla ricerca globale Women in business 2021 di Grant Thornton evidenziano alcuni segnali di ottimismo, mostrando che la media mondiale delle donne in posizione di vertice nelle imprese è salita al 31%, con la Germania particolarmente virtuosa al 38% e l’Italia che, purtroppo, resta indietro al 29%. “[…] sul mercato globale, cresce la percentuale di imprese con almeno una donna nell’alta dirigenza (90% nel 2021 rispetto all’87% nel 2020). Tra i risultati delle risposte degli intervistati emerge una crescita rilevante riguardo alle donne che ricoprono la posizione di amministratore delegato (26% nel 2021 contro il 20% nel 2020) e CFO (36% nel 2021 contro il 30% nel 2020).” . Donne ai vertici in aumento, quindi, ma non abbastanza.
Nel nostro Paese, inoltre, bisogna prestare particolare attenzione anche alla carica rivestita da queste donne. “Rispetto al 2020 solamente le posizioni di CFO (30% contro 29%) e Chief Marketing Officer (22% contro 16%) sono in crescita ma restano comunque inferiori a quelle globali, rispettivamente 36% e 23%. Funzioni come l’amministratore delegato, ad esempio, oltre ad essere dirette da un minor numero di donne rispetto al 2020 (18% contro il 23%) e inferiori rispetto a paesi come Germania (27%) e USA (28%), corrispondono solo alla metà della percentuale globale (36%).” .
E in politica? A livello europeo ci sono alcune donne ai vertici (dobbiamo però ricordare la triste e imbarazzante vicenda della sedia mancante per Ursula von der Leyen?), ma in Italia non abbiamo mai avuto una Presidentessa del Consiglio, né della Repubblica e anche negli Stati Uniti c’è stato il primo Presidente nero, ma una donna non è ancora mai stata eletta.
Gli uomini, insomma, sono ancora predominanti e sarebbe meglio che ne prendessimo onestamente atto, possibilmente senza rispolverare gli umilianti e niente affatto consolatori adagi secondo cui l’uomo è la testa, ma la donna è il collo che decide dove farlo girare o, peggio, secondo cui dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna. Perché la donna dovrebbe essere dietro a prescindere?
“La cosa poteva avere senso mille anni fa, quando gli esseri umani vivevano in un mondo in cui la forza fisica era la qualità più importante per sopravvivere. La persona fisicamente più forte aveva più probabilità di diventare il capo. E gli uomini di solito sono fisicamente più forti (è ovvio che esistono molte eccezioni). Oggi viviamo in un mondo profondamente diverso. La persona più qualificata per comandare non è quella più forte. È la più intelligente, la più perspicace, la più creativa, la più innovativa. E non esistono ormoni per queste qualità. Un uomo ha le stesse probabilità di una donna di essere intelligente, innovativo, creativo. Ci siamo evoluti. Ma le nostre idee sul genere non si sono evolute molto.” .
Il genere, nel suo funzionamento attuale, è una grave ingiustizia e viene spesso utilizzato anche per stabilire quali atteggiamenti siano accettabili e quali no.
D’altra parte, se ancora nel 2021 c’è chi afferma che le donne hanno una naturale propensione all’accudimento, mentre i maschi alle materie tecniche (breaking news: cambiare pannolini e pannoloni fa schifo anche alle femmine) di certo non stupisce, per esempio, che sul lavoro gli stessi atteggiamenti siano apprezzati o creino disappunto a seconda del genere di chi li assume. Quante volte un collega o un superiore uomo molto autoritario e rigido viene considerato uno “tosto”, “con le palle”? E quante volte se ad essere rigida e autoritaria è una donna il primo pensiero è che avrebbe bisogno di trovarsi uno sfogo sessuale? Di un uomo è abbastanza difficile sentirlo dire.
Ci si aspetta spesso che le donne siano più comprensive, mansuete e docili degli uomini e questa visione in realtà può influenzare le donne, spingerle a reprimere emozioni, come la rabbia, che è stato loro insegnato non essere particolarmente consone. E a ben vedere il danno è anche per gli uomini, a cui di contro viene insegnato ad essere dei “duri”.
“[…] la cosa peggiore che facciamo ai maschi […] è che li rendiamo estremamente fragili. Più un uomo si sente costretto a essere un duro e più la sua autostima sarà fragile. E poi facciamo un torto ben più grave alle femmine, perché insegniamo loro a prendersi cura dell’ego fragile dei maschi. Insegniamo alle femmine a restringersi, a farsi piccole. Diciamo alle femmine: puoi essere ambiziosa, ma non troppo. Devi puntare ad avere successo, ma non troppo, altrimenti minaccerai l’uomo.” .
Il problema del genere come solitamente percepito è che rischia di diventare costrittivo, senza riconoscerci come siamo, ma piuttosto prescrivendo come dovremmo essere. La socializzazione, in quest’ottica, accentua le differenze oggettive (biologiche) fra maschi e femmine, innescando un processo che si autorafforza. E il fatto che stiano sempre più emergendo spinte di ribellione a classificazioni ed etichette legate a questi processi, di rifiuto nei confronti di paletti imposti da una percezione culturale ormai datata, deve essere incentivato. Le molte opposizioni che vengono a galla quando queste spinte si avvicinano a trovare una formalizzazione legislativa evidenziano che si sta innescando un cambiamento che fa paura, perché sembra minacciare i fondamenti della società. Ma proprio questa paura è la dimostrazione che siamo sulla strada giusta e che questo cambiamento va perseguito perché, ben lungi dallo smantellare la società, se arriverà a compimento non farà che renderla più libera, equa e felice.
Charlotte Whitton diceva che le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà. Speriamo di poter vedere il giorno in cui questo non sarà più vero. Il giorno in cui oltre ad essere felici che nostro marito ci aiuti nelle faccende domestiche o nella cura dei figli smetteremo di considerarlo un favore. Il giorno in cui il nuovo collega non ci tratterà automaticamente come la segretaria senza nemmeno essersi informato sul nostro ruolo. Il giorno in cui, in un’occasione lavorativa importante, non avremo paura di non essere prese abbastanza sul serio se indossiamo abiti troppo femminili. Il giorno in cui non dovremo più sentir parlare delle donne come detentrici del cosiddetto bottom power, ovvero il potere del fondoschiena, che indica l’uso della propria sessualità da parte di alcune donne per ottenere qualcosa da un uomo. Un potere che non è affatto tale, perché è solo una via di accesso al potere di un altro, che in un qualsiasi momento potrebbe essere malato o di cattivo umore. E speriamo di poter vedere il giorno in cui non dovremo sentirci sminuite dal sospetto che, nel momento in cui otteniamo un riconoscimento o una promozione, ci si chieda con chi abbiamo usato questo benedetto bottom power per essere riuscite ad arrivare dove siamo.
Perché questo sia possibile la cultura deve continuare il processo di cambiamento che è appena cominciato. Deve mutare davvero, e a fondo. E questo forse sarà difficile, ma non impossibile. “La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e dobbiamo far sí che lo diventi.” .
Secondo Adichie femminista è chi, uomo o donna, riconosce il problema del genere così com’è ancora oggi concepito e si rende conto della necessità di risolverlo, della necessità di fare meglio.
Per questo, quindi, dovremmo essere tutti femministi.
*Monica Siclari, dottoressa in Comunicazione