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Dino Buzzati, l’attesa e il senso della vita nella morte

Dino Buzzati è stato definito lo scrittore dell’assurdo-reale. Di quell’assurdo che diviene realtà sotto gli occhi di chi, vivendo, scruta ogni piega della propria esistenza e di ciò che lo circonda. È lo scrittore che attinge dal reale per far sognare. Sogno inteso non come alienazione dalla realtà, bensì come amplificazione del reale.

Lo stile di scrittura di Buzzati potrebbe essere considerato “onirico”. Un percorso narrativo in cui ricorrono, in maniera ossessiva, le tematiche peculiari. Nel caso de Il Deserto dei Tartari a dominare sono i temi dell’attesa, del trascorrere del tempo, il senso della morte, l’illusione e la delusione. Il vuoto esistenziale, l’ansia di colmarlo e la solitudine. 

La versione cinematografica, diretta da Valerio Zurlini, è del 1976. Fu proprio Jacques Perrin, l’attore che interpretò il protagonista Giovanni Drogo, a trovare i finanziamenti economici. Riguardo la location, l’antica fortezza di Arg-e Bam, nell’Iran sud-orientale, venne considerata particolarmente adatta per rappresentare la Fortezza Bastiani. Questa suggestiva fortificazione magicamente inserita, nel racconto buzzatiano, in una dimensione metafisica, un tempo teatro di rovinose incursioni da parte dei nemici, ormai svuotata della sua importanza strategica.

Il deserto dei Tartari è un romanzo di fantasia e quindi il regno a cui si fa riferimento non è identificabile. Buzzati sfrutta il nome dei Tartari per evocare l’idea di una minaccia militare. Di un’invasione da parte di un popolo crudele e sconosciuto al fine di creare l’ansia dell’attesa.

L’ambiente in cui è immerso Drogo, durante la sua andata alla Fortezza Bastiani, è connotato da un taglio quasi “favolistico”. Buzzati descrive l’ambiente attraverso il realismo ma con elementi quasi fantastici. Il paesaggio sembra essere fuori dal mondo, sebbene sia piuttosto vicino alla città, soltanto un giorno a cavallo. Mentre nel film il registra sceglie di rappresentare questo paesaggio in maniera più realistica rendendolo simile a un paesaggio del Medio Oriente. La volontà è quella di rappresentare l’arrivo di Drogo alla Fortezza Bastiani ponendo in essere l’imponenza della Fortezza che fa da contraltare alla desolazione che emerge dalle rovine del posto, dalle quali si intuiscono gli splendori di un tempo ormai trascorso. Sembra quasi un luogo dimenticato da Dio se non fosse per le tombe dei soldati che accompagnano il suo cammino e che rimandano a uno dei temi centrali del romanzo: il fine ultimo di ogni soldato, ossia la gloria derivante dal morire in battaglia.

Una volta giunto alla Fortezza, Drogo insiste affinché gli venga mostrato il paesaggio a Settentrione. Un luogo sterminato avvolto da una nebbia perenne che sta a simboleggiare l’incognita nell’esistenza dell’uomo. Quell’aspettativa nel domani che spaventa ma che, al tempo stesso, affascina. Il deserto, nel linguaggio buzzatiano, è il futuro, la speranza. Quel luogo da dove potrebbe giungere un’opportunità.

Di grande significato è il dialogo tra Drogo e il tenente Simeoni il quale gli spiega che il deserto-orizzonte è sempre contraddistinto da nebbia, come a voler raffigurare che è avvolto nel mistero, nell’ignoto. Un futuro che non si conosce e che può essere foriero di bene o di male.

Nel versione filmica questa scena non è molto rimarcata. È incastrata all’interno di altre scene ed è difficile riuscire a coglierne lo spessore filosofico-esistenziale. Nel romanzo è decisamente più intensa.

«In un›ora così triste come quella per il buio e l›autunno, il comandante della Fortezza guardava verso il settentrione, verso le nere voragini della valle. Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l›avventura, l›ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno». 

Deserto, quindi, inteso come speranza ma anche come autoinganno. Un aspetto che costituisce uno dei temi principali di questo romanzo. L’autosuggestione volta a eliminare i particolari sgradevoli della realtà per sostituirvi una visione confortante, anche se falsa. Un atteggiamento che l’uomo tende ad adottare al fine di superare il momento di solitudine e angoscia rifugiandosi, così, in una condizione diversa da quella reale, autoconvincendosi della sua veridicità.

L’abitudine, generata dalla vita nella Fortezza, viene vissuta dal tenente Drogo come una rassicurante protezione che finisce, però, per ingoiarlo in una spirale di giornate scandite dal medesimo ritmo, in cui il tempo trascorre lento, inesorabile e sempre uguale a se stesso. 

La quotidianità, l’abitudinarietà ha come risvolto negativo la noia. Una condizione alienante che ai suoi giovani occhi assume la forma del fascino dell’ignoto. Perfino le nebbie, che ristagnavano a nord lungo l’orizzonte, parevano a Drogo illuminanti foschie gonfie di fascinose promesse.

Nella narrazione romanzata, Buzzati insiste a lungo sul cadenzare sempre uguale dei giorni senza che nulla accada. E ogni volta che Drogo contempla il tramonto, sprofonda nelle sue “eroiche fantasie”. Quelle speranze che gli tengono il cuore vivo e che lo spronano a proseguire la sua missione alla Fortezza. Fantasie-speranze che danno un senso alla sua intera esistenza.

E lui ritornava a meditare le eroiche fantasie tante volte costruite nei lunghi turni di guardia e ogni giorno perfezionate con nuovi particolari. In genere pensava a una disperata battaglia impegnata da lui, con pochi uomini, contro innumerevoli forze nemiche; come se quella notte la Ridotta Nuova fosse stata assediata da migliaia di Tartari. (…) Era l’ora delle speranze e lui meditava le eroiche storie che probabilmente non si sarebbero verificate mai, ma che pure servivano a incoraggiare la vita.

Ma quando finalmente accade il momento tanto sperato, quando dopo anni di attesa i nemici si stavano preparando ad attaccare e il sogno di tutti stava per trasformarsi in realtà, Drogo è gravemente malato e non ha più nessuna forza per affrontare con valore il nemico. La sua malattia ha finito per rappresentare la nemica più crudele.

Buzzati descrive in maniera straordinariamente appassionante i sentimenti contrastanti in Drogo, la sua smaniante voglia di rimanere per combattere e la consapevolezza della fragilità del suo corpo giunto ormai allo stremo delle forze. 

Nell’ultima pagina del romanzo, Buzzati ci dona una magistrale e superlativa riflessione sul senso della vita e della morte destinata a rimanere scolpita nella storia della letteratura.

Drogo, rimasto solo in una stanza di una anonima locanda, si trova a dover affrontare la più difficile delle prove. Proprio in questo momento, nell’istante in cui si sta preparando a lottare contro il più temuto dei nemici, si rende conto che a confronto il nemico atteso in una vita alla Fortezza non è nulla rispetto a quello che sta per colpirlo e per trascinarlo in una nuova dimensione del tutto sconosciuta. Ma questa consapevolezza porta con sé anche una sorprendente rivelazione. Scopre di avere in sé un coraggio mai avvertito prima. Una forza sconosciuta che non avrebbe mai sperato di avere. Un sentimento talmente imponente da impedirgli di provare paura. 

Ad un tratto si rende conto, con sua grande sorpresa, di non avere paura di “avere paura di morire”. E questa per lui è la vittoria più bella. Riuscire ad avere il coraggio di affrontare con onore la morte, completamente solo, in un luogo del tutto estraneo, senza nessun parente o amico che lo accompagni nell’ultimo viaggio. 

Morire solo. Senza provare nessuna paura. 

Subitamente gli antichi terrori caddero, gli incubi si afflosciarono, la morte perse l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura. (…) La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. 

Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione di stelle. 

Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.

*Stefania Romito, giornalista