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Davide D’Urso, I famelici (Bompiani, 2021)

Al centro del recente romanzo di Davide D’Urso, I famelici (Bompiani, 2021), c’è il quotidiano eroismo della gente comune nei difficili anni Settanta. Gente normale, ‘piccolo-borghese’, si diceva allora. Eppure, al di là della denigratoria definizione con la quale sociologi e intellettuali di sinistra vollero etichettarli, gente capace di fare grande l’Italia.

I ‘famelici’ sono, appunto, gli uomini e le donne di quella generazione: grintosi, caparbi, visionari. Costantemente proiettati in avanti. Partiti con poco o nulla, ma capaci di darsi un obiettivo dopo l’altro, di concepire e realizzare sogni per sé e per i propri figli. Uomini e donne dotati di grande capacità di sacrificio, più che di titoli di studio; motivati da dinamismo interiore, più che da avidità di denaro; animati da gioia di vivere, più che da paralizzante prudenza. 

A rendere ancora più esemplare quella generazione è il continuo e spietato confronto che il protagonista del romanzo, un attempato letterato di sinistra dei nostri giorni, è costretto a operare con se stesso e con tutta la propria generazione. Sia chiaro: quello che Davide D’Urso rappresenta sin dal primo capitolo (Un’ossessione. Preludio), non è soltanto il fisiologico e freudiano conflitto tra padri e figli. È l’ancóra più profonda, progressiva e dolorosa presa d’atto della frustrazione dei sessantenni di oggi, cresciuti nell’autoconvincimento di una superiorità intellettuale rispetto ai propri genitori piccolo-borghesi. Una superiorità culturale, etica e politica, grazie alla quale avrebbero dovuto ‘rivoluzionare’ il mondo, mentre, invece, si ritrovano a prendere atto della propria sostanziale inadeguatezza ad affrontare le sfide del presente: «Mio padre ha passato la vita a realizzare i suoi sogni, io passo il tempo a difendere quel poco che ho costruito dall’incertezza di questi anni».     

I padri e le madri che hanno conosciuto l’emigrazione nelle fabbriche del Nord, che hanno scalato con le unghie la piramide sociale, riuscendo a laureare i figli e le figlie; insomma, quegli individui spesso derisi e liquidati da registi e intellettuali ‘impegnati’ con quell’epiteto spregiativo, ottengono ora, nelle pagine di Davide D’Urso, una doverosa riabilitazione, accompagnata dal rimorso. Il rimorso del protagonista «per la conoscenza approssimativa che la [sua] generazione ha di quel periodo, compresi i sacrifichi che la gente faceva allora per tirare avanti».     

Il romanzo di D’Urso è, dunque, un contributo al recupero della memoria degli anni Settanta, non viziata dai cliché maturati nei circuiti culturali della sinistra salottiera. Un recupero della memoria che il protagonista del romanzo compie trascrivendo i ricordi dei propri genitori e confrontandosi con essi in un dialogo dal quale scaturiscono riflessioni dense, ma anche pagine di più intime risonanze liriche. Tra le tante, il ricordo della mamma che cuciva con le proprie mani gli abiti da indossare e realizzava maglioni ai ferri: «Una donna che dava per scontato il sacrificio e guardava al benessere come a una mera eventualità. Una donna semplice che affrontava le difficoltà del quotidiano senza mai lamentarsi. Era di certo il desiderio di volersi dedicare a una famiglia. E il bisogno di difendere a ogni costo l’indipendenza che aveva raggiunto con tanta fatica. La sensazione di aver investito tutto su quella vita che stavano costruendo insieme e, a quel punto, la necessità di vincere la scommessa che avevano lanciato a se stessi prima che agli altri».

*Raffaele Messina, scrittore