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Davide Cortese, Zebù bambino (Terra d’Ulivi Edizioni, 2021)

Come rimanere impassibili dinanzi alla nuova opera poetica di Davide Cortese (Lipari, ME, 1974), Zebù bambino (Terra d’Ulivi Edizioni, 2021)? Si tratta di un agile mannello di versi che si susseguono come a voler compiere una narrazione sorprendente, tra immagini nefaste e di sicuro sbigottimento per il lettore, o per chi s’appropria del testo. Un’opera tortuosa e pluristratificata, sorprendente eppure pregna di immagini deliranti, di cupa nevralgia, di violenza becera e gratuita. Perché, dunque? Da dove partire? 

Credo vada esplicitato che questa plaquette, che ora esce per i tipi di Terra d’Ulivi Edizioni – prima opera della collana “Deserti luoghi” diretta da Giovanni Ibello – ha avuto un padrino d’eccezione. Speciale e innovatore, quello che potremmo definire un poeta – strictu sensu – ma anche un manipolatore arguto (se pensiamo all’invettiva di Olimpia Buonpastore1) ovvero Gabriele Galloni, l’autore di In che luce cadranno (2018) e L’estate del mondo (2019) prematuramente scomparso – giovanissimo – l’anno scorso. Orbene, Cortese mi ha confidato che quest’opera, quando ancora era in versione di “inedito” era stata letta con attenzione da Galloni, che l’aveva senz’altro apprezzata, al punto tale da scriverne una prefazione (mai ricevuta da Cortese, né recuperata tra gli scritti del poeta del Trullo) a tutt’oggi. Sta di fatto che Galloni, autentico e non scontato mix di intellettuale a metà tra metrica classica e genialate pop, aveva espresso un parere piuttosto positivo parlandone – in una conversazione privata orgogliosamente conservata da Cortese – in termini esaltanti quale “capolavoro” e “gran testo” non mancando di tralasciare, forse, uno dei motivi del suo convinto accoglimento quando ne parlava come qualcosa di “adorabilmente perverso”. E sono piuttosto d’accordo con lui perché nei suoi brevi squarci improntati a un commento lapidario eppure esatto attorno alla plaquette aveva raggrumato la potenza della nuova opera di Cortese: che allibisce e tormenta, che inquieta e stordisce, che richiama, fa ragionare, c’impone una lettura nella quale non è richiesto – anzi è per lo più scoraggiato – prendersi troppo sul serio. Ad aprire l’opera è una dotta nota di Mattia Tarantino che, con perizia citazionistica e ricorrendo ad autori di varie tradizioni letterarie, rammentate nella forma autentica nelle varie lingue originarie, cerca un approccio preliminare – uno dei tanti possibili – con l’opera di Cortese. Eppure il lettore dovrebbe immergersi direttamente nel magma dei versi di Cortese, dove ogni chiosa – compresa la presente – sembra ambire a una nullità vacua che è quella del superfluo. Nelle sue brevi composizioni c’è tutto e il contrario di tutto, c’è il Male falsamente rivestito di Bene e la denuncia a una società – la nostra – che ha eretto il vizio e la devianza a norme morali d’ampio uso (e consumo). 

Ancora con Tarantino: nel suo intellettualistico e poliedrico intervento propedeutico all’opera, si legge di una “facoltà della morte” e del tema – cruciale e simbolicamente nutrito – della soglia che si ritrovano connaturatamente nella possibile etimologia del nome che l’Autore ha impiegato nel titolo dell’opera (e di cui si parlerà a breve); attenzione viene data anche al sistema particolareggiato di vedere e intervenire nella materia letteraria; Tarantino parla in maniera molto enfatica (impiegando tale definizione sin dal titolo del suo intervento) di una non meglio precisata factum loquendi, espressione che ci piace comprendere – in maniera estesa, ma non semplicistica – quale quell’attitudine all’ampiezza dei rimandi e riscontri dialogici e interiori, di una loquela florida e pulsante, priva di sbarramenti, atta a dire (a “svelare” e non a “rivelare”) la quotidianità crostosa nella quale, allucinati e spesso inetti, siamo collocati. 

Il titolo dell’opera – Zebù bambino – è di per sé il primo elemento di evidente blasfemia (se così vogliamo definirla, secondo un occhio ligio o predicante la divinità cristiana) che fa il verso, in chiave motteggiante, alla consacrazione divina di un Gesù bambino che è rivelatore di salvezza, guaritore e martire. La parola “zebù” richiama senz’altro la necessità di una possibile decodificazione in base ai mezzi in nostro possesso. Si tratta di un tipo di vacca, della famiglia dei Bovinae, diffusa prevalentemente nei continenti asiatici e africani con una caratteristica vistosa, quella delle lunghe corna spesso sviluppate in forma allungata verso l’alto. Come non pensare però al nome Belzebù che, anche grazie alla narrazione biblica, ci è tramandato come un angelo decaduto, una bestia indomabile, segno del Male quale “principe dei demoni”. Seppure vi siano varie considerazioni in merito alla reale etimologia di questa parola composta sembrerebbe che essa stia per “principe delle mosche”, poi derivato nella forma ben più nota di “dio delle mosche”. Definizione questa che, da una parte ha voluto intravedere una presenza maligna e violenta allineata a immagini di lordura, sporcizia, pericolosità e infezione e, dall’altra, a una presenza, invece, alata (non direttamente maligna).

La plaquette di Cortese, la cui produzione poetica è ampia e duratura (ha pubblicato Es (1998), Babylon Guest House (2004), Storie del bambino ciliegia (2008), Anuda (2011), Ossario (2012), Madreperla (2013), Tatoo Motel (2014), Nuova Oz (2016), Lettere da Eldorado (2016), Darkana (2017) e, in dialetto eoliano, Vientu (2018) oltre ad aver curato varie antologie), ci parla di Zebù bambino, che è proprio una sorta di demonio in miniatura, un ragazzino scapestrato, violento, incivile e maldestro che, piuttosto che pensare a divertirsi come i suoi coetanei, è impegnato in azioni ben più brutali come quelle di uccidere, dar fuoco a delle persone, masturbarsi e così via. È l’immagine di un delirio autentico di una società disfatta nelle sue relazioni e nei sensi primordiali di affetto, amicizia e vicinanza; tutto è retto da una prepotenza inscalfibile, da una crudeltà senza pari, il piccolo diavolo è una presenza che agli occhi di tutti appare poca cosa perché, appunto, nelle vesti candide di un innocuo bambino ma che, al contrario, è in grado di partorire tragedie, incrinare esistenze, creare fazioni, disseminare asprezze alimentando invidie e ingordigie proprie.

Dal punto di vista contenutistico anche la terminologia impiegata – tratta dalla lingua comune – produce sul lettore un effetto particolare per la capacità dell’autore di creare disagio e stordimento; ossimori e visioni apocalittiche, idee manesche e volontà assassine, fanno di Zebù il più depravato tra i bambini di una possibile società civile. “Scoccano insieme / la mezzanotte e il mezzogiorno” sono i versi di incipit della plaquette che, da subito, c’immettono in uno scenario dettato da assurdità e da un sincronismo surreale. Immagini disturbanti sono disseminate in tutta l’opera; come non fare cenno al “seno di plastica di Maria” che ci consegna una Madonna-botex contemporanea che di certo piacque molto a Galloni; la decapitazione collettiva di bambole; l’atto voyeuristico del bambino-demonio nel vedere la copula dei santi genitori di Gesù. Dinanzi a scene degne di un teatro granguignolesco come queste lo stomaco può anche reggere ma viene fortemente messo in crisi da circostanze nauseanti dinanzi a chi “mangia gli scarafaggi invitati alla sua festa”. Cortese è volutamente conscio dello shock che originerà sul lettore e questo s’iscrive in una banalità diffusa del Male che minaccia il senso di collettività (“Brucia il capanno e tanti saluti”; “Manda al cimitero / la maestra che si lagna”).

Da ingenuo, piccolo, monello come l’inattendibile “narratore” ce lo descrive, Zebù (che è sulla buona strada per diventare un prode Belzebù) non è altro che un torturatore, un sadico, uno scalmanato imprigionato nelle sue scellerate idee che non rispondono in nessun modo a una logica collettiva, a un senso di società, alle forme di impegno, ascolto e condivisione. In lui regnano l’invidia e la crudeltà, non conosce temperanza e moralità. A circa metà dell’opera non si esime neppure da ostacolare la purezza e semplicità del Bene, facendo uno sgambetto a Gesù. La religione – si è già detto – viene massacrata e derisa, l’intera opera si fonda su di una sardonica e ingloriosa satira di divinità che vengono calate in un contesto opposto e infame rispetto al loro ambito originario dato come assunto dalla collettività. Ce ne rendiamo conto anche in questi casi “una bambola vodoo / con le sembianze di dio” (costruzione per altro anomala dal momento che dio non ha sembianza o, al massimo, ha ogni sembianza possibile noi siamo in grado di dargli) o quando scrive “Giocai ai funerali di dio” (ambigua circostanza anch’essa). Sta di fatto che cortese parla di “dio” con la minuscola e non di “Dio”, con la maiuscola a tal punto che questo ci pone coscienziosamente – e maliziosamente – in inganno anche dinanzi a ogni qualsiasi considerazione. Zebù è dilaniato da “un arcano bisogno d’amore” e questo potrebbe farci pensare a un tentativo di remissione dei peccati, a un desiderio di uniformarsi alle leggi della civiltà del mondo ma, dopo tutto, come crederlo dopo gli abomini che ha condotto? Difatti per sopperire a questo bisogno, Cortese ce lo descrive che “va a rubare all’emporio del gobbo / un lecca lecca a forma di cuore”. C’è anche un piglio velatamente comico che, comunque, non è in grado di edulcorare la tendenziale e reiterata conformazione sacrilega dell’opera che galvanizza Zebù atto a far di tutto in chiave sovvertiva, debilitativa, ribelle e blasfema affinché – come recita l’allarmante explicit – “presto farà breccia / nel cuore di Gesù”.

Alla domanda – che lecitamente possiamo porci – su quale insegnamento (o senso) ricavare dalla presente opera mi sento dire che non sempre deve essere ricercato o scorto. Soprattutto se ci troviamo dinanzi ad autori contemporanei, performativi, che hanno fatto del loro intervento sulla scena non solo il motivo trainante per il lancio – appunto – di un messaggio ma un desiderio di ricerca e sperimentazione. Cortese non è esule da questa campitura dove il linguaggio – quel factum loquendi – sembra avere il sopravvento sulla materia, dove l’atto dialogico – recriminatorio o parodico che sia – ha un’impronta diremmo decisiva addirittura in forma propedeutica agli stessi contenuti. Ce lo rivela anche la curiosa iniziativa di “attacco poetico” The Call Center alla quale Cortese ha partecipato qualche anno fa2.

Sugli esiti di un demonio fanciullo come Zebù, che è il germe di un Male atavico che ha la capacità di diffondersi a dismisura, prosperare e intaccare il Bene, certo, c’è da domandarsi. E molto. La lettura dell’opera in chiave sociale, di diagramma del vivere contemporaneo, una vera e propria ecografia dei malesseri dell’uomo è senz’altro una via legittima da percorrere e, in tal senso, prende particolare vigore quella battura dello stesso Zebù che, in riferimento alle sue tante malefatte, lascivie e aberrazioni perpetuate, risponde laconico “L’ho imparato dagli uomini”. Zebù, dunque, è da concepire come un’ipotetica progenie del Male, non tanto atavico e di derivazione che si perde nella notte dei tempi, ma in quanto seguace di un imprinting di forme deviate, asservite alla cupidigia e alla violenza. Ecco, dunque, la necessità dell’amore, della riscoperta dell’altro, del bisogno di un dialogo consultivo e non più autoritario di quella superpotenza di cui crede di esser dotato ma che, immancabilmente, lo conduce giorno dopo giorno alla sua rovina. Alla sua dannazione.

*Lorenzo Spurio, scrittore