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Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo?” (Fandango, 2019)

Nel 2019 Fandango ha pubblicato un ottimo libro che descrive bene l’attuale evoluzione digitale del giornalismo: “Slow Journalism. Chi ha ucciso il giornalismo?” (Daniele Nalbone e Alberto Puliafito, con due interviste molto istruttive a Mario Calabresi e Peter Laufer).

Il giornalismo ha massacrato la propria identità sacrificandola sull’altare del Dio Denaro. Ai bei tempi il giornalismo serviva per “monitorare, verificare, rendere pubblici i retroscena del potere e dei meccanismi di pubblico interesse”. Ora “il giornalismo ha iniziato a ossessionarsi con le cattive notizie” (p. 92), ha infantilizzato i lettori e si è disinteressato alle loro esigenze intellettuali. Un giornalismo più maturo dovrebbe puntare meno sul sensazionalismo e dovrebbe raccontare più spesso le cose che funzionano, proponendo delle riflessioni e delle idee progettuali.

Molti giornalisti hanno addossato la colpa della crisi del giornalismo ai blogger e ai citizen journalist, ma in realtà tutte le persone che producono contenuti sotto forma di foto, video e messaggi più o meno culturali o promozionali (marketing dei contenuti aziendali), contribuiscono a intasare l’attenzione di milioni e milioni di persone. Ora la gente si sente più coinvolta dalle cose che dicono e che fanno i loro amici, conoscenti e colleghi (LinkedIn e social), essendo assorbiti dal narcisismo relazionale e sociale della società ultratecnologica. Il pacchetto del giornalismo classico, con la cronaca, i reportage, gli spettacoli, ha perso molta funzionalità con l’avvento dei processi di frammentazione, riaggregazione, disintermediazione e reintermediazione degli internauti (p. 31).

Non esiste più l’oligopolio della documentazione dei fatti dei principali quotidiani (p. 108). Non esiste più l’oligopolio della manipolazione dei fatti indotta volontariamente o involontariamente dagli editori e dagli sponsorizzatori. Ogni singolo cittadino può documentarsi facilmente, può verificare una notizia, e può manifestare la propria opinione attraverso un blog o i principali social media (LinkedIn, Twitter, ecc.). Soprattutto in Italia, in troppi casi il giornalismo tradizionale si basa sulla verosimiglianza, e non sulla verifica delle questioni fondamentali o particolari di una notizia. 

Anche in Italia è sopraggiunga la grande crisi dei quotidiani cartacei che in molti casi hanno perso più della metà dei lettori in meno di dieci anni. Questo accade perché purtroppo la realtà viene sempre più spesso atrofizzata e romanzata per favorire alcuni interessi commerciali o politici, diretti o indiretti. Comunque la società non ha bisogno dei giornali, ma ha bisogno del giornalismo (Clay Shirky, citato p. 31), e di giornalisti coerenti e indipendenti. Forse i direttori dei giornali dovrebbero ascoltare meglio i non addetti ai lavori: studenti, consulenti, professori e lettori.

In molti casi in Italia alcuni giornalisti arrivano fino al punto di “blastare” i loro lettori: “cioè a rispondere a domande più o meno intelligenti con arroganza, spocchia, sarcasmo e altri atteggiamenti di superiorità che non sono né relazionali né inclusivi” (p. 82). Inoltre le rettifiche dei giornali italiani sulle notizie con errori più o meno involontari sono rarissime. Oltretutto viene trascurato il vero potere relazionale del giornalismo: mettere in contatto chi non si conosce e chi ha dei punti in comune per sviluppare le affinità reciproche per migliorare la società. Quindi servirebbero delle vere e proprie piattaforme tematiche per lo sviluppo sociale locale e nazionale.

Anche gli eccessi di velocità di molti giornalisti digitali, che vogliono inseguire i tempi della banale comunicazione sui social media, e il modello “facciamo tanti click” basato sull’emotività, hanno “devastato il giornalismo contemporaneo e non ci si può meravigliare se la crisi, oltre che economica, è diventata da tempo anche di credibilità e di fiducia” (p. 127). Il giornalismo ha raggiunto livelli di fiducia molto scarsi, quasi pari a quelli bassissimi nei confronti della politica.

Il giornalista professionalmente maturo non è sempre interessato ad arrivare primo, ma si dedica ad approfondire tutti i retroscena di un fatto, valutando l’esperienza dei principali testimoni e degli eventuali esperti di qualche disciplina. Una mente acuta e avveduta non utilizza i video virali, ma crea la buona qualità e l’originalità delle notizie. Quindi “fare Slow Journalism” significa opporre all’individualismo, alla balcanizzazione delle relazioni, una nuova idea di comunità” (p. 235).

Comunque, alla fine dei conti, il più delle volte “la verità non esiste, esistono i fatti, le interpretazioni e le opinioni”. Ogni persona interpreta le cose a modo suo, nonostante l’abilità o l’incapacità di un giornalista o di uno scrittore. In ogni caso, quando esiste, la verità “dev’essere disposta a mettersi in discussione” (p. 106). Quindi “Se qualcuno lo ha scritto meglio, non riscriverlo, linkalo e citalo”, come recita il decimo punto del manifesto dello Slow Journalism (p. 101). E naturalmente bisognerebbe sempre cercare più informazioni sulla stessa notizia, leggendo varie fonti ben diversificate; se possibile dal punto di vista politico, religioso, sociale e anagrafico. 

Dostoevskij ha affermato che “L’uomo ha una tale passione per il sistema e la deduzione logica che è disposto ad alterare la verità per non vedere il vedibile, a non udire l’udibile pur di legittimare la propria logica”. In effetti, fin dall’inizio della storia umana, le varie tipologie di notizie sono state classificate più o meno così: menzogne di guerra; propaganda religiosa e politica; notizie false prodotte per ottenere vantaggi pubblici o privati; gli errori umani; le marchette (le notizie finanziate con prodotti o servizi diretti o indiretti); le notizie che non dicono nulla e che servono solo a distrarre da uno o più problemi gravi; la disinformazione aggressiva o protettiva; i disegni, le foto e i video incredibili e più o meno ingannatori; i comunicati stampa copiati e trasformati in notizia (per pigrizia o per servilismo).

In definitiva, i giornalisti, dopo aver trattato i fatti di sangue, il sesso, lo sport e i soldi, pubblicano le stronzate. Dando la precedenza a quelle politiche. Tuttavia “Senza la fiducia di chi legge, chi scrive non è nulla” (punto undicesimo del manifesto dello Slow Journalism, p. 150). E non valgono nulla i giornalisti che fanno i rivenditori di bugie usate, abusate e anche istituzionalizzate. 

*Damiano Mazzotti, scrittore