VerbumPress

Dalla seconda alla prima stella

Noterelle sparse su un viaggio di lavoro a Famagosta e a Istanbul

Seconda stella a destra

Questo è il cammino

E poi dritto fino al mattino

Poi la strada la trovi da te

Porta al popolo che non c’è…

Un Edoardo Bennato turco-cipriota potrebbe modificare così la nota e bella canzone. Andare nella parte turca di Cipro significa andare non solo in uno “Stato che non c’è”, la Repubblica Turca di Cipro Nord, riconosciuta solo dalla Turchia, ma anche presso un “popolo che non c’è”. E questo popolo “non c’è” perché non è abitualmente riconosciuto come popolo distinto. Non solo per gli “altri” ma anche per i turchi del Continente, è difficile pensare che un turco di Cipro non è semplicemente un turco che è nato a Nicosia o a Famagosta anziché ad Ankara o a Trebisonda ma una persona che, più o meno sommessamente, rivendica una sua specifica identità, come per esempio può fare un cittadino austriaco, che vuol essere considerato un austriaco e non semplicemente un tedesco che è nato a Linz o a Graz anziché ad Amburgo o a Dresda. In altre parole, la Yavruvatan, ossia la Figliapatria, la seconda stella, vuole bene ed è grata all’Anavatan, ossia la Madrepatria, la prima stella, ma come tutte le figlie vorrebbe pure avere un po’ di autonomia. Le stelle di cui parlo sono, naturalmente, quelle che in entrambe le bandiere si uniscono alla hilâl, la falce di luna (non mezzaluna) crescente.

Non è qui la sede per recitare tutta la filastrocca della questione di Cipro. Ai lettori dico solo: andate a controllare quello che è successo nel 2004, poi probabilmente mi direte che avete cominciato a cambiare idea. Cominciamo senza altri preamboli questo viaggio nello Stato che non c’è dall’aeroporto di Ercan (pron. Ergiàn). Aeroporto internazionale, recita pomposamente la scritta sulla facciata. In effetti è un aeroporto binazionale, giacché da una parte non ha voli interni dall’altra tutti i voli sono da e verso la sola Turchia. E quindi per esempio da Roma per arrivarci bisogna cambiare a Istanbul. Il senso di decostruzione surrealista si accentua a Nicosia e a Famagosta: in un’isola popolata da greci ortodossi e turchi musulmani, le moschee principali sono… bellissime cattedrali gotiche. Sì, anche in Turchia molte chiese furono trasformate in moschee, ma erano chiese di stile bizantino, quello stile che (Santa Sofia in testa) fu il modello per l’architettura ottomana classica e post-classica. Quindi nel vedere queste chiese adattate a moschee c’è una sensazione più di continuità che di rottura. Nell’Anavatan l’unico esempio che io conosca di moschea “disorientante” è la ex-chiesa dei domenicani a Istanbul, trasformata in moschea a uso degli arabi espulsi dalla penisola iberica (si chiama infatti “moschea degli arabi”). Ma non è un esempio così grandioso, completo e radicale: di chiaramente occidentale, gotico, è rimasto solo l’ex-campanile. Ovviamente l’interno di queste ex-cattedrali è tutto imbiancato, il che accentua il senso di spaesamento. Ma tra Nicosia e Famagosta c’è almeno un altro edificio sconcertante: una chiesetta gotica trasformata… in chiesetta ortodossa, con tanto di protocollare iconostasi. Insomma, tanto i turchi conquistatori quanto i greci locali banchettarono architettonicamente a spese dei latini (prima i Lusignan poi i veneziani), non esattamente amatissimi.

Tra Istanbul ed Ercan il mio vicino di poltrona, turco, alla mia domanda su che andasse a fare a Cipro mi risponde onestamente che ci va per giocare. Situazioni politiche bloccate e innaturali producono infallibilmente economie drogate: Cipro (tutta) è un autorevole polo internazionale del gioco d’azzardo, della prostituzione e della droga. E’ però anche nella parte turca un grande polo universitario,  che accoglie studenti di mezzo mondo. In ogni caso, soprattutto dopo la svolta tradizionalista imposta alla Madrepatria da Erdoğan, Cipro nord risalta ancor di più come Figliapatria mediterranea e godereccia, dove si mangia e si beve bene. Anche quanto a generosità e ospitalità, la figlia è degna della madre. Infine, c’è almeno una conseguenza paradossalmente positiva della situazione bloccata in cui si trova questa parte turca dell’isola: tutta la parte della punta che si protende verso est, in particolare, è una macchia mediterranea pressoché intatta. Speriamo di non festeggiare la soluzione della questione di Cipro con orrende cementificazioni…

Tornato a Istanbul, le cose da fare producono, come di consueto, anche un monitoraggio del territorio. Due dolorosissime perdite: lo storico negozio di dischi Lale Plak e la libreria Eren, vero Paese dei Balocchi dei cultori di storia turca e ottomana. Due modeste, insufficienti, compensazioni: la prima è la ripulitura e ricoloratura, però con effetto-torta, del bizzarro edificio a colonnoni antistante il consolato generale svedese; la seconda  è un gradevole grande albergo lì dove per decenni un orrendo parcheggio mai finito e mai entrato in funzione deturpava uno dei panorami di Istanbul. Tutto ciò nella zona di Beyoğlu (Il Figlio del Signore, ossia il veneziano Alvise Gritti). Molti più mendicanti del solito (la crisi morde, aggravata dall’allentamento dei legami macrofamiliari), molti più negozi di dolci (senza la minima diversificazione, mi sembra), molti più arabi. Mi si dice che la movida, infatti, si è spostata a Kadıköy (Il villaggio del Giudice, l’antica Calcedonia, sulla parte asiatica). Allertato da un amico circasso, vado a uno degli eventi organizzati per la Giornata Internazionale delle Lingue-Madri. In un piccolo, strapieno e surriscaldato auditorium si susseguono prima brevi discorsi poi belle musiche etniche. Gli oratori parlano un po’ nella loro lingua un po’ in turco, per farsi capire da tutti, me compreso. Ripenso all’espressione “ma che, parlo turco?” e la comparo sorridendo con questa situazione in cui il turco suona teneramente come lingua veicolare e familiare rispetto a lingue per me del tutto incomprensibili: ascolto così oratori e cantanti laz, zaza, hemşin, adighè e pomak. A ogni incrinatura della colata di cemento che è stata la repubblica kemalista le identità particolari riconquistano terreno come una jungla indomabile. 

*Fabio L. Grassi, Associate Professor of History of Eastern Europe