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Dalla Campania a Camelot sulle tracce di Re Artù

Tra le rovine del castello dove nacque da un inganno, l’epico sovrano di Camelot sfida gli elementi naturali e il tempo in bilico tra leggenda e realtà

Laggiù, sulla scogliera di un aspro promontorio della Cornovaglia proteso nell’Atlantico, c’è qualcuno che aspetta, osserva il mare, lo scruta dall’alto e ascolta l’eco delle onde, respira il profumo della brughiera spazzata dal vento. È una scultura in bronzo alta 2,40 metri commissionata dall’ English Heritagel che gestisce il sito di Tintagel. L’opera dello scultore gallese Rubin Eynon, è intitolata “Gallos”, parola cornica che significa “potere”, ma tutto il mondo la conosce con il nome di King Arthur. 

Tra le rovine del castello dove nacque da un inganno, l’epico sovrano di Camelot sfida gli elementi naturali e il tempo in bilico tra leggenda e realtà. È solo un’invenzione letteraria o le sue origini hanno fondamento storico? Lo studioso Antonio Trinchese, nel saggio “Dalla Campania a Camelot – Le origini storiche del mito di re Artù”, pubblicato nella collana I Polifemi di Stamperia del Valentino, riepiloga fonti e documenti alla ricerca della genesi del mito.

La prima citazione scritta dell’esistenza di un condottiero della Britannia celto-romana fra il V e il VI secolo denominato Artù o Arturo la troviamo nell’Historia Brittonum, un’opera datata fra l’VIII e il IX secolo attribuita al monaco britanno Nennio. Secondo lo storico Leslie Alcock questo racconto corrisponde alla trascrizione di un preesistente poema e gli invasori a cui si fa riferimento sarebbero i Sassoni del V secolo. Un altro importante riferimento ad Artù si trova negli Annales Cambriae, cronache della Cambria o terra dei Cymry, i popoli celtici che non si erano sottomessi ai vittoriosi Sassoni, datate al X secolo. Nella Legenda Sancti Goeznovii, biografia di un santo bretone vissuto nel VI o VII secolo, scritta da un tal William intorno al 1019, si attribuiscono ad Arthur, oltre alle vittorie contro i Sassoni in Britannia, successi in Gallia. Anche in uno scritto del 1113, ispirato a racconti e a canti dei bardi e dei giullari di corte, si parla delle imprese di “quel famoso Artù, re dei Britanni. Tuttavia, il leggendario Artù si è sviluppato come una figura di interesse internazionale soprattutto grazie alla popolarità della fantasiosa Historia Regum Britanniae (storia dei re della Gran Bretagna) del XII secolo scritta da Goffredo di Monmouth. 

Sono tracce che hanno indotto molti storici aspulciare manoscritti, decifrare epigrafi e ispezionare monumenti alla ricerca di indizi preziosi che possano conferire una valenza storica alla leggenda di Re Artù. Tante le ipotesi e tra queste, la più accreditata, sostenuta dalla storica americana Linda Ann Malcor, consulente per il film “King Arthur” del 2004, identifica Artù con Lucius Artorius Castus, un ufficiale dell’esercito romano che, nel II secolo d.C., si distinse per i suoi successi militari in Britannia.

Le notizie di Lucius Artorius Castus provengono essenzialmente da un’epigrafe trovata in due frammenti a Podstrana, costa della Dalmazia, appartenente a una lastra del suo sarcofago, e da un’iscrizione, più breve, probabilmente una targa commemorativa ritrovata nella stessa località dalmata. Una terza iscrizione riferibile allo stesso personaggio o a un suo omonimo, fu ritrovata a Roma e attualmente è esposta al Louvre. Egli fu Membro della gens Artoria, per alcuni di origine etrusco-retica, per altri dell’odierna Valle d’Aosta. Un’ulteriore teoria, la più attendibile, è che fosse originario della Campania visto che numerose epigrafi e reperti archeologici, testimoniano di un Lucio Artorio Casto appartenente a una famiglia campana ben attestata a Capua, Nola, Pompei e Pozzuoli, discendente del medico di Augusto, Artorio Asclepiade. Un Artorio avrebbe anche partecipato alla repressione della prima guerra romano-giudaica, quando fu distrutto il tempio di Gerusalemme.

Secondo il testo dell’iscrizione del sarcofago, Lucio Artorio Casto aveva servito Roma prima come centurione della “Legio III Gallica”, poi passato alla “Legio VI Ferrata” e ancora alla “Legio II Adiutrix” e alla “Legio V Macedonica” sul Danubio, della quale fu anche nominato primo pilo. Divenne poi preposito della flotta di Miseno e fu prefetto della “Legio VI Victrix”. Ebbe il titolo di “dux”, riservato a chi si era distinto per imprese eccezionali e la definizione di Lucio Artorio Casto nel testo dell’epigrafe come “dux leggionum. Britaniciniarum” indica che fu a capo delle legioni stanziate in Britannia, comandante in capo di 5500 Sarmati, cavalieri “corazzati” ausiliari dell’esercito romano, trasferiti nell’algida Albione per difendere le frontiere dell’impero. Quando si ritirò dall’esercito divenne procurator centenarius, cioè governatore, con una provvigione di centomila sesterzi annui, della Liburnia, una parte settentrionale della Dalmazia, dove certamente concluse la sua vita, erigendo un mausoleo funebre a Pituntium, nei pressi di Salonae Palatium. Nel 2021, lunghe ed approfondite indagini del ricercatore indipendente Giuseppe Nicolini hanno portato al ritrovamento di un reperto storico/archeologico di grande importanza, ritenuto disperso, relativo proprio alla Gens Artoria: un anello d’orodedicato ad un personaggio importante degli Artorii, riportante la scritta ARTORI FORTVN, rinvenuto in Britannia nell’Ottocento da un archeologo inglese e conservato, ma non esposto, nei magazzini del British Museum. La fattura in oro ed il peso suggeriscono che non si trattasse di un normale anello indossato da una persona qualunque, ma piuttosto appartenesse ad un ufficiale di alto grado dell’esercito o comunque un’alta carica romana, o di rango senatoriale o equestre, come stabilito dalle leggi romane. Una delle possibili ipotesi è che tale anello sia appartenuto proprio a Lucius Artorius Castus. 

La ricostruzione di Antonio Trichese è puntuale e intrigante, mette insieme le tracce di Artù disseminate nei secoli e nelle tradizioni popolari. Nessun altro candidato al ruolo di Artù storico sembra avere tante coincidenze come il legionario proveniente dalla Campania Felix. Sebbene, infatti, Lucio Artorio Casto non sia vissuto all’epoca delle invasioni sassoni nella Britannia del V secolo, forse il ricordo delle gesta di Casto, tramandate oralmente nelle tradizioni locali, nel tempo sono andate a formare le prime tradizioni arturiane. Arricchite di elementi, storie e personaggi, si sono diffuse poi nel Medioevo nelle varie versioni scritte che oggi conosciamo. L’antropologo Covington Scott Littleton e Linda Malcor nel libro “From Scythia to Camelot  propongono anche una teoria che collega i simboli della saga arturiana alle tradizioni dei cavalieri sarmati inviati in Britannia e disseminati per il loro alto numero, in vari forti del territorio. Si trattava più precisamente di cavalieri Iazyges eredi di un’antica cultura di Sciti, Cimmeri e Massageti e altri nomadi delle steppe. Il loro culto tribale era una spada che spuntava dal terreno, simile alla “spada nella roccia”; famose già tra i Romani, le loro pesanti armature di metallo; il simbolo dei Sarmati era un drago, come nello stemma usato da Artù e da suo padre Uther Pendragon secondo la Historia Regum Britanniae;l’eroe nazionale caucasico Nart Batraz ha una storia piuttosto simile a quella di Artùe comune era la presenza tra i Sarmati di sciamani che ricordano molto da vicino la figura di Merlino.
Tuttavia, analogie tra i racconti arturiani e sarmati hanno luogo solo negli scritti successivi all’Historia scritta da Goffredo di Monmouth, mentre in tutte le leggende precedenti tali somiglianze sono pressoché nulle, per cui appare probabile che sia stato questo scritto ad essere influenzato da racconti di origine sarmata, certamente molti diffusi nel nord dell’Inghilterra e poi divulgati in Normandia, in Bretagna, in Francia.

La fantasia popolare e l’immaginazione letteraria hanno mescolato Storia e leggenda dando vita a un personaggio eccezionale, forse il primo mito europeo, in cui gli antichi valori del mos maiorum romano si sono fusi con le virtù dei nomadi delle steppe e gli ideali dei cavalieri medievali.  Un esempio di sincretismo che ci dimostra quanto la contaminazione di popoli e culture sia alla base della società umana, quanto sia insensata l’utopia della “purezza” della specie e dei saperi.  

I racconti si fondono, si trasformano, si arricchiscono e diventano patrimonio culturale comune. “Camelot continuerà a vivere” perché tutti possiamo essere cavalieri sulle tracce di Re Artù: “che Dio ci conceda la capacità di riconoscere il giusto, la volontà di sceglierlo e la forza per conservarlo”.

*Fiorella Franchini, giornalista